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La svolta negli anni ’90: il Trattato di Maastricht ed il Patto di Stabilità e Crescita

IL PROGRESSIVO ADATTAMENTO DELL’ORDINAMENTO NAZIONALE AI VINCOLI EUROPEI IN MATERIA DI BILANCIO

4. La svolta negli anni ’90: il Trattato di Maastricht ed il Patto di Stabilità e Crescita

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, si può ritenere che il Trattato Maastricht del 1992 abbia dato vita ad una sorta di secondo “effetto SME” sulla decisione di bilancio nazionale, in quanto ha previsto espressamente vincoli contenutistici che l’Italia avrebbe dovuto conseguire per entrare nell’Unione Monetaria Europea, secondo un programma predefinito a tre tappe.

Come noto, la prima fase prevedeva la liberalizzazione dei movimenti di capitale, la seconda partiva dal 1° gennaio 1994 ed indicava il percorso di convergenza delle politiche economiche degli Stati membri in vista dell’ultima fase nella quale, entro il 1° gennaio 1999, sarebbe stata creata l’Unione Monetaria ed istituita una Banca Centrale Europea.

Nello specifico, i criteri da rispettare per poter partecipare alla terza fase dell’Unione monetaria riguardavano cinque parametri: il disavanzo ed il debito rispetto al PIL dovevano non superare (o quantomeno tendere) al valore, rispettivamente, del 3% e del 60% (ai sensi dell’art. 104 del Trattato), il tasso di inflazione non avrebbe dovuto superare di oltre l’1,5% quello dei tre Paesi più virtuosi, il tasso d’interesse nominale sulle obbligazioni a lungo termine non avrebbe dovuto superare del 2% quello dei tre Stati con in migliori risultati in termini di inflazione, infine il tasso di cambio sarebbe dovuto rimanere all’interno della banda di oscillazione prevista dallo SME.

Di fatto, tale disciplina ha sottratto agli Stati la politica valutaria e quella monetaria, mentre le finanze pubbliche, rimaste nella competenza dei singoli Paesi, sono state vincolate da una serie

Matteucci su cui si sofferma P. De Ioanna (op. cit., in Associazione per gli Studi e le Ricerche Parlamentari, Quaderno n. 20, Giappichelli Editore, Torino, 2010, pag. 13-14) “all’inizio degli anni ’80 due importanti intellettuali italiani, un giurista della organizzazione dei poteri pubblici ed un filosofo del diritto (S. Cassese e N. Matteucci) erano stati chiesti dalla Confindustria, nell’ambito di un ormai storico convegno, di analizzare le cause profonde della perdita di controllo nel governo della spesa pubblica in Italia. In estrema sintesi , il giurista indicava nella carenza storica di una cultura organizzativo-industriale e nella prevalenza e pervasività di strumenti di controllo di marca solo contabile e finanziaria una delle cause di questo processo; era un modo per riproporre la visione di una frattura tra amministrazione e finanza come tratto negativo strutturale della nostra organizzazione amministrativa; il filosofo poneva l’accento sul modello cogestionario (Governo Parlamento) visto come fattore di fondo della spesa senza responsabilità ed invocava il recupero del modello c.d. Westminster, dove la produzione normativa resta saldamente nelle mani del Governo ed il Parlamento ratifica e controlla ma non esercita veri poteri di spesa”. Al riguardo, si vedano S. Cassese, Espansione e controllo della spesa pubblica: aspetti istituzionali e N. Matteucci, Consenso sociale e spesa pubblica, in Rivista di politica economica, n. 1, 1983, rispettivamente pag.153-174 e 175-191, richiamati da De Ioanna.

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di obblighi, nel presupposto che un’area valutaria unica non potesse ammettere una marcata differenziazione tra le politiche di bilancio nazionali.

Il rischio paventato era che un eccessivo indebitamento potesse determinare una crisi finanziaria e fiscale, costringendo gli altri Paesi e la futura Banca Centrale Europea ad intervenire a sostegno dello Stato interessato e per garantire il funzionamento del sistema dei pagamenti, con rischi sulla stabilità dei prezzi dell’area nonché sui livelli dei tassi d’interesse: non è da escludere, altresì, che in tal modo si volesse perseguire l’obiettivo politico di ridurre la presenza dello Stato nell’economia83.

Pertanto, mentre i criteri sul cambio nonché sul tasso d’inflazione e d’interesse rilevavano ai soli fini dell’ingresso nell’area euro, tali parametri finanziari erano destinati a permanere anche all’indomani dell’integrazione monetaria, al fine di realizzare per altra via quella omogeneità tra le politiche fiscali nazionali non ottenibile attraverso un bilancio comunitario eccessivamente ridotto e che pertanto avrebbe dovuto rappresentare il contraltare, sul versante fiscale, della centralizzazione decisionale raggiunta nei settori della politica monetaria e di cambio, avocate “in toto” dalla Banca Centrale Europea84.

Come sopra accennato, l’art. 104 del Trattato comunitario prevedeva l’obbligo per gli Stati di evitare disavanzi eccessivi, cioè superiori ad un valore di riferimento espresso in termini di prodotto interno lordo, nonché un limite per il debito pubblico, anch’esso rapportato al PIL, nella

83 Cfr. G. Corsetti e N. Roubini, La questione fiscale nell’Europa di Maastricht, in La finanza pubblica italiana dopo

la svolta del 1992, a cura di A. Monorchio, Il Mulino, Bologna, 1996, pag. 451-452, i quali rappresentano, peraltro,

che i problemi connessi all’eventuale crisi di solvibilità e ad una monetizzazione del disavanzo da parte dell’Istituto di emissione dovrebbero essere già neutralizzati dall’alto grado di indipendenza, sia formale che sostanziale, riconosciuta alla Banca Centrale Europea dal Trattato di Maastricht e mantenuta fino ad oggi.

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Per una disamina del processo di integrazione monetaria, si veda, dal punto di vista giuridico, G. L. Tosato, Verso

l’Unione economica e monetaria. Profili giuridici e istituzionali, in Jus, n. 2, 1992, pag. 121 e seguenti. Con

riferimento alla teoria economica, si richiama invece P. De Grauwe, The Economics of Monetary Integration, Oxford University Press, Oxford, 1997, dove viene analizzato, tra l’altro, il problema di flessibilità di un’area valutaria, quale quella europea, priva dei requisiti di flessibilità individuati da R. Mundell. Le carenze strutturali in termini di flessibilità dei fattori produttivi e di libertà di movimento della forza lavoro rendeva necessaria una politica di bilancio concertata e, al tempo stesso, flessibile in relazione agli inevitabili effetti asimmetrici che un eventuale “shock” esogeno avrebbe prodotto nelle differenti economie dei Paesi dell’Unione monetaria; in alternativa, doveva essere realizzata una centralizzazione della politica fiscale in ambito europeo in modo da porre in essere i necessari interventi redistributivi delle risorse, in analogia a quanto avviene all’interno degli Stati federali. In sostanza le caratteristiche macroeconomiche dell’area euro rendeva necessario valorizzare la politica di bilancio (quantomeno nelle more di riforme strutturali in grado di integrare tra loro le singole economie nazionali) alla stessa stregua con cui la liberalizzazione dei movimenti di capitale e l’ancoraggio tra le valute dei singoli Paesi su parità predefinite ed immodificabili aveva reso inevitabile la perdita della politica monetaria da parte dei singoli Stati membri, in quanto ciò dava vita ad una c.d. “triade inconciliabile”, secondo la teoria elaborata dallo stesso Mundell e da M. Fleming (ovvero il c.d. “quartetto inconciliabile” definito da T. Padoa Schioppa nel 1982 includendovi anche il libero commercio estero). In più si deve considerare che dovendo la politica monetaria perseguire l’obiettivo prioritario della stabilità dei prezzi, sulla politica di bilancio sarebbe dovuta gravare la responsabilità di assicurare la stabilizzazione macroeconomica durante il ciclo economico e nel caso di shock asimmetrici (nel senso si era espressa la stessa Commissione nella nota A Stability Pact to ensure budgetary

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misura, rispettivamente, del 3% e del 60%, come specificato poi in un Protocollo allegato85; nella medesima disposizione veniva disciplinata, altresì, la procedura da seguire nel caso in cui un Paese non avesse rispettato i suddetti vincoli, prevedendo, in ultima istanza, l’irrogazione di sanzioni.

Tuttavia tale quadro normativo, attuata sin dall’inizio per consentire l’accesso dei Paesi candidati all’Unione Monetaria europea, è stato ritenuto insufficiente a garantire l’osservanza di tali parametri all’indomani del varo della moneta unica, sia perché il superamento della soglia di riferimento non qualificava un disavanzo di bilancio come eccessivo ma era necessaria una valutazione ed una raccomandazione della Commissione (nonché una decisione dell’ECOFIN), sia perché erano previste eccezioni non definite nel dettaglio e, pertanto, suscettibili di interpretazione.

Per questo nel Consiglio Europeo di Dublino del 1996 è stato approvato il Patto di Stabilità e Crescita, tradotto poi in due risoluzioni del Consiglio Europeo adottate ad Amsterdam nel giugno 1997, nonché in due regolamenti ECOFIN nel luglio del medesimo anno (n. 1466/1997 e 1467/1997) che, basandosi sull’art. 104 del Trattato di Maastricht, disciplinavano, rispettivamente, “il rafforzamento della sorveglianza sulle posizioni di bilancio, nonché la sorveglianza e il coordinamento delle politiche economiche”, e l’ “accelerazione e i chiarimenti per l’applicazione della procedura sui deficit eccessivi”86.

Il Patto prevedeva che gli Stati appartenenti all’area euro dovessero impegnarsi a mantenere il disavanzo vicino al pareggio o in surplus nel medio periodo, mentre nel breve termine non doveva essere superato il limite del 3% rispetto al prodotto interno lordo, a meno che non avesse carattere “eccezionale e temporaneo” cioè fosse determinato “da un evento inconsueto, non soggetto al controllo dello Stato membro interessato, ed abbia rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione, oppure nel caso sia determinato da una grave recessione economica”87.

Dal punto di vista procedurale, in base al Patto i Paesi dell’Eurozona dovevano predisporre annualmente i Programmi di Stabilità, concernenti le modalità che si intendeva seguire per

85 E’ da evidenziare, peraltro, che la soglia del 3% nel rapporto tra disavanzo e prodotto interno lordo veniva intesa, ben prima del Patto di Stabilità e Crescita, come valore massimo che poteva essere raggiunto (ma non superato) a causa dell’andamento del ciclo economico, mentre l’obiettivo di medio termine sarebbe dovuto essere quello dell’equilibrio tra entrate ed uscite: nel senso si espresse il Consiglio Europeo con la decisione n. 95/236.

86 Sul fondamento giuridico del Patto di Stabilità e di Crescita, si veda G. Della Cananea, Il Patto di stabilità e le

finanze pubbliche nazionali, in Rivista di Diritto Finanziario e Di Scienza delle Finanze, 2001, pag. 565, nonché G.

Caporali, Patto di stabilità ed ordinamento europeo, in Diritto e Società, 2004, pag. 88, il quale ritiene che alla base del Patto vi sia “la procedura di sorveglianza multilaterale con un meccanismo di controllo delle posizioni di bilancio”, pur tuttavia con una procedura di pre-allarme “priva di risvolti sanzionatori” e, pertanto, sostanzialmente debole.

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Il deficit eccessivo era considerato eccezionale in caso di un calo annuo del 2% rispetto al PIL, ovvero tra lo 0,75% ed il 2% su indicazione del Consiglio. Da notare, al riguardo, che l’entità del parametro di riferimento era stato calcolato sulla base di una ipotesi di crescita dell’economia pari al 3% in termini reali, pertanto non era un valore arbitrario ma era stato stimato sulla base di precisi criteri macroeconomici, ritenuti realistici in base alle condizioni dell’epoca.

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perseguire l’obiettivo di bilancio a medio termine, che sarebbero stati esaminati dalla Commissione la quale avrebbe poi riferito all’ECOFIN se l’obiettivo programmato a medio termine era adeguato ad evitare un disavanzo eccessivo; in quest’ultimo caso, il Consiglio ECOFIN avrebbe aperto la procedura di deficit eccessivo, finendo con l’imporre sanzioni pecuniarie qualora lo Stato interessato non fosse rientrato entro la soglia del 3%.

Tale sistema, nonostante non prevedesse un pareggio di bilancio “tout court” ed offrisse, altresì, margini di flessibilità in caso di eventi eccezionali e temporanei, risultava complessivamente rigido, specie per quei Paesi che si ponevano immediatamente al ridosso del limite del 3% ed erano gravati da un forte onere per gli interessi del debito pubblico che comprimeva ancor più la possibilità di operare “rimodulazioni” delle voci di bilancio, specie qualora una congiuntura economica sfavorevole avesse determinato un peggioramento dei saldi88.

Da notare, peraltro, che mentre i parametri finanziari funzionali all’ingresso nell’Unione monetaria erano intesi in senso negativo, cioè come obbligo di non superare un determinato valore-soglia, nel caso dei vincoli del Patto di Stabilità si poneva un obiettivo contenutistico ben preciso, cioè il pareggio di bilancio, sia pure in un’ottica di medio periodo e tenendo conto dei fattori estranei alla sfera di discrezionalità delle autorità di governo nazionali.

A ciò si aggiunga il fatto che l’effetto favorevole dell’ingresso nell’Unione Monetaria in termini di stabilità del livello generale dei prezzi e, soprattutto, di convergenza dei tassi d’interesse (specie per i Paesi maggiormente indebitati che scontavano una maggiorazione rispetto ai titoli di Stato delle economie più forti, in particolare quella tedesca, per effetto del maggior rischio sistemico e più alta inflazione) era stato ben presto controbilanciato allo scoppio della bolla azionaria della c.d. new economy e dalla stagnazione economica generale all’indomani dell’attacco terroristico dell’11 settembre 200189.

88 Giova precisare, al riguardo, che nella nota del 18 marzo 1996 la Commissione aveva rappresentato che “un certo grado di differenziazione negli obiettivi nazionali di bilancio di medio periodo appare auspicabile da un punto di vista economico”, rilevando altresì l’arbitrarietà di un obiettivo di disavanzo pari all’1% del prodotto interno lordo specie tenendo conto delle condizioni di bilancio e macroeconomiche di taluni Paesi. Tuttavia, a tale “sensibilità” della Commissione ha fatto contrasto la successiva nota del 19 luglio 1996 Ensuring budgetary discipline in stage

three of EMU, nella quale veniva evidenziato che “mantenere una disciplina di bilancio nella fase tre dell’Unione

economia e monetaria rappresenta una condizione essenziale per sfruttare tutti i benefici della moneta unica. Il valore di riferimento del 3% del PIL per il disavanzo deve essere considerato come un limite superiore in circostanze normali. La strategia deve essere fondata su un approccio a due livelli alla disciplina budgetaria e al coordinamento della politica di bilancio: obiettivi di bilancio di medio periodo prossimi all’equilibrio o in surplus, il che consente di rimanere al di sotto del tetto del 3% in condizioni normali e permette una certa differenziazione tra i Paesi membri; coordinamento delle politiche di bilancio al livello dell’Unione per assicurare che esse formino un disegno coerente per l’Unione nel suo insieme”.

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Peraltro, secondo G. Guarino uno dei motivi del rallentamento economico dell’eurozona all’indomani della nascita dell’Unione Monetaria derivava proprio dal fatto che il Patto di Stabilità di Crescita aveva imposto agli Stati membri il perseguimento del pareggio di bilancio, mentre in quel momento ci sarebbe stato bisogno di far “rifiatare” le economie nazionali dopo lo sforzo di convergenza. Evidenzia così Guarino che “al 1.1.1999 tutti gli Stati ammessi all’euro risentivano della costrizione cui li aveva assoggettati la disciplina della convergenza. Fattori

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Da subito si è così posto il problema del rapporto tra politica di bilancio ed andamento dell’economia: una fase recessiva come quella che si era creata agli arbori del nuovo millennio, a distanza ravvicinata dal completamento del processo di unificazione monetaria, metteva a rischio il rispetto dei parametri di Maastricht da parte dei Paesi aderenti. Questi ultimi non avevano avuto il tempo di perseguire politiche di bilancio volte a ridurre il disavanzo e, in prospettiva, di addivenire ad un pareggio delle entrate e delle uscite, e che si trovavano ora a dover fronteggiare, da una parte, una crescente disoccupazione e stagnazione dei consumi, dall’altra un progressivo deterioramento dei saldi di finanza pubblica90.

Tale situazione di criticità, peraltro, non ha riguardato solamente i Paesi “periferici” ma anche le principali economie dell’Eurosistema, quali la Germania e la Francia, i cui deficit avevano ben presto superato la soglia del 3%.

Si è così determinata una contrapposizione tra Paesi virtuosi e non, cui si è aggiunto il confronto tra opposte teorie economiche (sostenitori della teoria monetarista propria del Trattato e fautori di politiche economiche espansive, più vicine all’impostazione keynesiana) nonché tra le stesse istituzioni europee, in un intreccio che testimonia la complessità di una materia che lega tra loro aspetti di bilancio e dinamiche istituzionali, il tutto nel contesto di un sistema multilivello che ormai si pone al di là dell’ambito prettamente nazionale91.

vitali erano stati dispersi. Se gli Stati avessero potuto avvalersi delle capacità di spesa nell’anno fino al 3% li avrebbero recuperati. Il pareggio di bilancio ha bloccato le potenzialità degli Stati di riprendere vigore. Ha provocato una spirale depressiva” (L’Euro tra economia e diritto, in www.giuseppeguarino.it., 14 novembre 2012, pag. 3-4).

90 Già nel 2002 la Commissione, con la comunicazione n. 668 al Consiglio ed al Parlamento Europeo, aveva manifestato l’intenzione di tenere maggiormente conto dell’impatto del ciclo economico sugli andamenti di bilancio, esaminando i saldi di finanza pubblica in termini strutturali, cioè al netto degli effetti del ciclo e delle misure “una tantum”: tale orientamento è stato poi assunto in via ufficiale dal Consiglio Europeo di Siviglia del 21 e 22 giugno 2002. Al riguardo, si veda R. Perez, Il Patto di Stabilità e Crescita: verso un Patto di flessibilità?, in

Giornale di Diritto Amministrativo, n. 9, 2002, pag. 997 e seguenti. Si richiama altresì, G. Rivosecchi, Il Patto di stabilità al vaglio della Corte di giustizia, tra riaffermazione della legalità comunitaria e mancata giustiziabilità sostanziale degli equilibri finanziari dell’Unione, in Rivista AIC, 16 settembre 2004, secondo il quale la posizione

del Consiglio Europeo di Siviglia era da ricollegare al dibattito emerso all’indomani della decisione del Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea del 312 dicembre 2001 di richiedere all’Irlanda, in sede di aggiornamento del programma di stabilità, di porre in essere politiche restrittive al fine di ridurre il tasso di inflazione, nonostante la sostanziale solidità dei conti pubblici di quel Paese, interpretando così in senso eccessivamente restrittivo (ed esorbitando, altresì, dalle proprie competenze) le regole del Patto.

91 Secondo G. Pitruzzella (Chi governa la finanza pubblica in Europa?, in Quaderni Costituzionali, n. 1, 2012, pag. 19) “la riforma del Patto è stata fatta nel contesto di un dibattito in cui si fronteggiavano due posizioni destinate a riprodursi anche nel periodo successivo. Da una parte chi voleva irrigidire ancora di più i vincoli finanziari per assicurare il funzionamento di un meccanismo che si basava sull’accoppiata politica monetaria diretta alla stabilità dei prezzi e finanze pubbliche senza deficit di bilancio. Dall’altra parte, chi sosteneva l’insostituibilità di una politica fiscale anticiclica per far fronte a fasi di crisi economica. Per fronteggiare quest’ultima e stimolare l’economia gli Stati avrebbero dovuto conservare -dopo aver perduto la possibilità di una politica monetaria autonoma e la manovra sul tasso di cambio- almeno il potere di sostenere la propria economia senza sottostare, in modo automatico, ai vincoli finanziari di Maastricht. Si manifestava, così, la tensione tra stabilità finanziaria e crescita economica e la difficoltà di un loro componimento in una cornice istituzionale coerente”.

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Giova rammentare, al riguardo, che proprio in quel particolare momento storico era stata avviata una procedura per disavanzo eccessivo nei confronti di Francia e Germania: la Commissione aveva presentato una raccomandazione per l’adozione di una decisione da parte del Consiglio ai sensi dell’art. 104 par. 9 del Trattato (podromica alla successiva irrogazione di sanzioni), mentre quest’ultimo aveva sospeso la procedura limitandosi a formulare delle conclusioni prive di forza vincolante (pur se dettagliate) ai Governi dei due Paesi, prevedendo il rientro al di sotto della soglia del 3 per cento entro il 2005 e ribadendo, altresì, le misure di vigilanza sulla riduzione costante del disavanzo nel biennio 2004-2005.

Questo conflitto era stato poi portato all’esame della Corte di Giustizia della Comunità Europea, che aveva dichiarato l’illegittimità delle Conclusioni del Consiglio ma si era limitata a chiarire le competenze dei due organi in giudizio nell’applicazione del Patto, riconoscendo altresì la non obbligatorietà giuridica del proseguimento della procedura per deficit eccessivo e, quindi, la sua non sanzionabilità92.

Nel solco di questo episodio e alla luce del generale deterioramento della situazione economica dell’eurozona, nel 2005 si è proceduto ad una revisione del Patto di Stabilità e Crescita.

In primis, sono stati potenziati i meccanismi di governance, migliorando gli strumenti di

raccordo tra il livello europeo e quello nazionale, sia sul piano della cooperazione (incentivando la c.d. peer pressure) che su quello della comunicazione (intervenendo sulla qualità della normativa di bilancio, l’affidabilità delle previsioni macroeconomiche e delle rilevazioni statistiche, nonché sul ruolo dei Parlamenti nazionali).

In secondo luogo, è stata prevista la possibilità di differenziare gli obiettivi di medio termine dei vari Stati membri, ferma restando l’esigenza di mantenere un certo margine di manovra all’interno della soglia del 3%, e rapportando maggiormente gli impegni di bilancio agli andamenti dell’economia al fine di evitare controproducenti misure finanziarie pro-cicliche93.