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4. Troiane

4.4 Riduzione monodica di un canto corale

In tragedia l’allusione al canto nuziale era funzionale ad ottenere particolari effetti drammatici e, nello specifico della produzione euripidea analizzata, a sottolineare, per contrasto con il gioioso e regolare imeneo, la tristezza o alterazione del presente del dramma scenico.

Nel Fetonte e nelle Troiane l’immaginario nuziale non è recuperato solamente sotto forma di ricordo del canto eseguito in passato, ma si assiste ad un tentativo di realizzazione del canto sulla scena.

Nel Fetonte, Merope e il Coro di vergini che intona il canto nuziale sono assolutamente ignari del fatto che prima del loro ingresso era stato condotto in scena e poi portato via il corpo di Fetonte che, come si doveva apprendere dalla rhesis di un testimone (forse un pastore), era morto precipitando dal carro del padre. Dunque, credendo Fetonte ancora vivo, Merope e il Coro intonano con sincera gioia un canto che reputano appropriato. Il regista del contrasto gioia-dolore/imeneo-lamento è il tragediografo che, stabilendo l’ordine delle scene e giocando con il fatto che non tutti i personaggi hanno il medesimo livello di conoscenza della situazione rappresentata, offre agli spettatori la possibilità di apprezzare il contrasto tra la natura gioiosa del canto e la triste sorte di Fetonte.

Un medesimo divario di conoscenza tra i vari personaggi o tra personaggi e pubblico si riscontra nelle Troiane: la profetessa Cassandra vorrebbe intonare un canto assieme alla madre e al Coro, ma le donne troiane, a differenza degli spettatori (che hanno accesso al repertorio mitico), non possono comprendere l’attendibilità delle profezie di Cassandra attorno alla morte sua e di Agamennone e il suo conseguente desiderio di canto.

Se tale scarto di conoscenza dei vari personaggi o di personaggi e pubblico origina nel Fetonte un contrasto tra il gioioso imeneo e la dolorosa condizione presente, nelle Troiane consente un ulteriore sviluppo che verte attorno all’incomunicabilità tra Cassandra e le Troiane. Ecuba e il Coro sanno che per Cassandra, vergine sacerdotessa, le nozze non erano contemplate e ritengono che l’unione non vada celebrata perché Cassandra non è una sposa legittima, ma solo una donna prigioniera che va incontro al suo padrone su uno sfondo di dolore le cui rovine di Troia sono correlato

oggettivo. Questi sono i motivi per cui il tentativo di canto e di celebrazione stride con il clima di generale rovina e rende il personaggio di Cassandra, che vuole celebrare per la gioia data dalla vendetta, una pazza delirante agli occhi del Coro e della madre. Ecuba e il Coro non raccolgono gli inviti di Cassandra ad unirsi a canti e danze e l’esecuzione di Cassandra si riduce ad essere di forma monodica.

Una caratteristica che si può evincere dagli esempi di canto imeneo nelle tragedie di Euripide (sia che sia effettivamente realizzato sia che venga solamente rievocato) è la natura corale della performance: nel Fetonte abbiamo un gruppo omogeneo di vergini, nell’Alcesti un corteo, nell’Eracle e nelle Supplici un’intera comunità cittadina, nell’Elena un corteo tra cui figurano i Dioscuri, nell’Ifigenia in Aulide il coro di Pieridi e Centauri, nel

Ciclope il coro di satiri (si rinvia alla tabella a pagina 32).

Le Troiane invece sembrano offrire l’unico caso, nella produzione tragica euripidea pervenutaci, di canto nuziale intonato da un solo personaggio: Cassandra canta da sola, in forma monodica, perché il suo tentativo di realizzazione corale del canto è frustrato dal rifiuto della madre Ecuba e del Coro a prendere parte alla celebrazione (vv. 332-334; vv. 329-330)142.

142Le prime attestazioni del termine μονωιδία (Aristoph. Ran. vv. 848; 944; 1330) e del verbo verbo μονωιδέω (Aristoph. Pax. v. 1012, Th. v. 1077) si trovano in Aristofane e in riferimento ad autori o a testi tragici, per cui possiamo ipotizzare che alla fine del V secolo si poteva identificare all’interno della tragedia una particolare struttura che prendeva il nome di monodia. In particolare, il termine è utilizzato da Aristofane in relazione alla sola tragedia euripidea (se si esclude il riferimento nella Pace ad una monodia di una Medea attribuibile probabilmente a Melanzio o a Morsino). Nelle Rane è lo stesso personaggio di Euripide ad affermare di aver costruito le proprie tragedie con monodie (v. 944) e poi nello scontro diretto tra i due tragediografi l’avversario Eschilo dopo aver parodiato lo stile dei μέλη corali delle tragedie euripidee passa ad imitare i canti «τòν τῶν μονωιδιῶν …τρòπον» (v.1329 ss.). Fa dunque intendere che la monodia è un tipo particolare di μέλος e ne dà un esempio (vv. 1331-1363) fornendo il canto di una donna che, dopo un appello alla Notte e a diverse divinità, passa a rivolgersi ad un probabile coro composto da ancelle fino a sfociare in toni di autocommiserazione. Nelle Rane di Aristofane troviamo dunque un esempio di monodia euripidea, anche se è difficile desumere e ricostruire a partire da questo caratteristiche della monodia che vadano oltre il significato etimologico di ‘canto a solo’. Fonti lessicografiche tardoantiche, come il Lexicon di Fozio (s.v. μονωιδία· ἡ ἀπò σκηνῆς ὠιδὴ… αἱ ἀπò σκηνῆς ὠιδαì…) e la Suda (μ 1242 Adler μονωιδεῖν ... αἰ ἀπò σκηνῆς ὠιδαì ... e μ 1244 Adler μονωιδία · ἡ ἀπò σκηνῆς ὠιδὴ…), ci presentano invece la monodia come uno dei “canti dalla scena”. Si tratta di definizioni che devono aver subito l’influenza aristotelica. Nella sezione della Poetica dedicata alle parti quantitative dell’opera tragica (1452 b 14-27) viene infatti operata una distinzione tra le parti «comuni» (κοινά) e quelle «particolari» (ἴδια). Il primo

I canti rituali –tale è quello nuziale- prevedono in diverse occasioni un ἔξαρχος a cui risponde il coro in rappresentanza della comunità.

Nel Fetonte, ad esempio, il canto imeneo è eseguito (fr. 781, 14-31 TrGF) da un coro secondario di parthenoi per le imminenti nozze di Fetonte, il figlio di Helios. Il coro, come si evince dall’annuncio di Climene (vv. 4-5: πόσις μοι πλησίον γαμηλίους μολπὰς ἀυτεῖ παρτθένοις ἠγούμενος), era guidato da Merope che doveva rivestire il ruolo di ἔξαρχος 143.

Nelle Troiane Cassandra si configura come ἔξαρχος del canto già in apertura della monodia, con un susseguirsi di imperativi che sfociano nell’extra

metrum e che richiamano l’inizio dell’assolo di Ecuba al termine dell’amebeo

con Taltibio (vv. 98-152). Entrambe le donne esortano ad eseguire i gesti termine fa riferimento a prologo, episodio, esodo, parodo e stasimo, mentre per «particolari» si intendono i canti dalla scena (τὰ ἀπò τῆς σκηνῆς) e i κομμοί. E se il κομμός viene di seguito descritto come un θρῆνος a cui partecipano insieme il coro (dall’orchestra) e il personaggio (dalla scena), nulla viene aggiunto a proposito dei cosiddetti canti dalla scena, che dovrebbero comprendere sia gli amebei tra due o tre attori, sia le monodie. Ulteriori definizioni precisano che le monodie sono canti eseguiti da un unico personaggio, senza la partecipazione del coro (Hesych. Μ 45 s. Latte «μονωιδεῖ μονωιδία λέγεται ὅτε εἶς μόνος τὴν ὠιδήν, οὐχ ὁμοῦ ὁ χορòς ἄιδει»; Suda μ 1244 Adler «μονωιδία· μονωιδία λέγεται ὅτε εἶς μόνος λέγηι τὴν ὠιδὴν καì οὐχ ὀμοῦ ὁ χορός») e questo aspetto è confermato anche dallo scolio al v. 103 dell’Andromaca di Euripide: «μονωιδία ἐστìν ὠιδὴ ἑνòς προσώπου θρηνοῦντος». Indicazioni come queste hanno portato ad attribuire alla monodia un carattere trenetico, per un’errata estensione di tale natura dal κομμός all’insieme dei μέρη ἴδια della tragedia e dunque anche ai canti dalla scena fra i quali, come abbiamo detto, figurava la monodia. Almeno a partire dalla fine del XIX sec., gli studiosi hanno tentato di dare una definizione di monodia che andasse al di là del significato etimologico del termine e che consentisse una sua individuazione nei testi pervenutici. Possiamo così riassumere e condensare i vari contributi degli studiosi: la monodia è un canto eseguito da una voce sola che si caratterizza per avere una certa estensione e una relativa autonomia rispetto al dialogo scenico, al punto da poter essere intervallata da qualche sporadico verso del corifeo o di un altro personaggio senza che ciò pregiudichi l’unità del canto.Non possiamo non osservare che tale definizione non fornisce tuttavia dei parametri sufficienti per una individuazione univoca delle monodie all’interno dei testi. Così come non è possibile stabilire una lunghezza minima della monodia, non è facile neppure misurare in maniera non arbitraria il carattere di autonomia, al punto che spesso si crea ambiguità tra monodia e amebeo. In aggiunta a queste difficoltà di base, spesso le monodie si trovano a far parte di un κομμός, di un amebeo, di un θρῆνος o della fine di una parodo commatica. Per i motivi fino a qui elencati non dobbiamo stupirci del fatto che nell’arco di appena un secolo gli studiosi abbiano individuato nell’opera di Euripide un numero variabile di monodie. In questa sede fortunatamente possiamo tralasciare questi ulteriori dettagli tecnici e definire, senza alcuna esitazione, i versi presi in esame come una monodia: solo un personaggio, Cassandra, canta e per un numero cospicuo di versi che mostrano una certa autonomia rispetto al coro.

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Merope doveva cantare insieme al coro in qualità di ἐξαρχος (cf. commento ad. loc. di Barret, 1964, p. 169).

tipici del rituale che intendono compiere e, come Ecuba aveva chiesto di percuotere il capo rasato e di graffiare con le unghie entrambe le gote per il lamento funebre (vv. 279-280 ἄρασσε κρᾶτα κούριμον/ ἕλκ'ὀνύχεσσι δίπτυχον παρειάν/ ἰώ μοί μοι «Percuoti il capo rasato, graffia con le unghie entrambe le gote. Ahimè»), così Cassandra chiede di tenere alta la fiamma per il rito nuziale e di unirsi al canto e alla danza. Ma per Ecuba si tratta del lamento funebre in una situazione reale, per Cassandra invece del rito nuziale in una condizione fittizia.

Così, mentre nel Fetonte la voce di Merope come ἔξαρχος si associa a quella del Coro, nelle Troiane l’isolamento di Cassandra è evidenziato dall’assenza del corteo che lei tenta di guidare.

Una pluralità di azioni che dovrebbero essere distribuite tra vari personaggi vengono di conseguenza tutte concentrate su Cassandra: in primo luogo, la profetessa entra in scena con in mano la fiaccola, che era compito della madre portare nel giorno delle nozze (cf. Med. v. 1027; Phoen. v. 344; IA v. 732) e, a seguire, intona il makarismos per lo sposo Agamennone che spettava a parenti e amici dei novelli sposi cantare. In breve, nella monodia Cassandra presenta se stessa come la sposa, ma finisce per assolvere anche ai compiti tradizionalmente assegnati alla madre, al padre e al coro: porta la fiaccola, rivolge al marito e a sé il makarismos, guida la danza e, per finire, quasi fosse una scena di anakalypteria, toglie da sola le bende.

Un altro aspetto degno di menzione è la struttura della monodia, che presenta una articolazione interna molto ordinata, con precisa corrispondenza metrico-ritmica tra strofe e antistrofe144.

Laddove per Ecuba (vv. 98-152) Euripide aveva utilizzato la monodia astrofica, per Cassandra costruisce una monodia, ma ingabbiata nel rigido vincolo della responsione. Inoltre, mentre la monodia di Ecuba si presentava nella forma monoritmica di anapesti di lamento, la gioiosa monodia del canto imeneo di Cassandra offre una più varia costruzione metrica (docmi, giambi,

144 Al contrario della costruzione con corrispondenza strofica, l’assenza della responsione strofica consente una maggiore varietà di ritmi e metri e anche questo spiega il progressivo affermarsi del canto astrofico dell’attore rispetto al canto del coro generalmente di struttura strofica (cf Ps-Aristot. Probl. Mus. 19, 15). In merito a questo fenomeno, che evidenzia una tendenza verso un teatro incentrato sul mimetismo musicale, si veda Gentili 2006, pp. 12 ss.

bacchei, sequenze eoliche). Il rapporto problematico tra madre e figlia, costruito all’insegna di una manifesta dissociazione, sembra ribadito, al di là dei pensieri e contenuti del canto, anche dalle scelte di costruzione delle rispettive modalità espressive.

Dal punto di vista strutturale Euripide sembra di fatto riadattare un canto tipicamente corale, quale l’imeneo, alla forma del canto monodico di un singolo attore.

Da un lato, l’imeneo eseguito da Cassandra ai vv. 308-341 presenta una caratterizzazione dionisiaca che risulta di fatto funzionale a consacrare un

marriage to death, come evidenziano le invocazioni a Imene (vv. 322, 331),

Ecate (v. 323), Apollo (v. 329) e Dioniso (v.326). Dall’altro, sotto il profilo strutturale, si può osservare che viene stravolta la norma di esecuzione del genere: quella di imeneo come canto eseguito da un coro.

Nella monodia si rintracciano molte caratteristiche delle esecuzioni corali, tra cui elementi formali del meccanismo che prende il nome di ‘autoreferenzialità corale’145. Esempi sono forniti dall’espressione ὁ χορòς ὄσιος146 (v. 328), ma anche dall’utilizzo del lessico caratteristico delle esecuzioni rituali (imperativi

145 Riflessioni sull’autoreferenzialità corale e sulla choral projection si trovano in un importante lavoro di Albert Henrichs del 1996 all’interno del quale si osserva che le varie configurazioni di proiezione corale e autoreferenzialità del coro agiscono attraverso l’intersecarsi e il giustapporsi di tre componenti: l’hic et nunc della performance del coro (la sua dimensione rituale), la proiezione della performance del coro su altre esecuzioni in un altrove spazio-temporale (quindi commenti del coro sulla propria performance) e infine la dimensione del coro come personaggio del dramma che interagisce con la realtà scenica. In particolare, nel paragrafo finale della prima parte dell’articolo, lo studioso osserva che «[…] in particular, he [Euripides] magnifies the conflict between the cultic reality and the tragic dramatization of ritual performance by undercutting the normalcy of choral dancing in the orchestra. He achieves this by means of choral projection, through which the chorus may establish an ironic distance between its own collective character and the action of the play. Euripides exploits this distance in the Heraklidai and in the Elektra, but even more radically in the Troades of 415 and in its close contemporary, the Herakles. In the two latter plays, the perversion of choral dancing and Dionysiac ritual serves as the ultimate tragic metaphor for madness and violence» (p.54). Tuttavia la «perversion of choral dancing and Dionysiac ritual» e la valenza metaforica di tale distorsione in termini di follia e violenza nella tragedia

Troiane non sono approfondite particolarmente da Henrichs, che si limita ad una nota a piè

di pagina con il rimando a tre loci del dramma: antistrofe della monodia di Cassandra, vv. 325-342, e due inserti di choral projection nel primo e nel terzo stasimo, rispettivamente ai vv. 544-559 e 1071-1076.

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Esempi analoghi di autoreferenzialità corale si trovano in Soph. Ai. 701 νῦν γάρ ἐμοì μέλει χορεῦσαι (cf. Henrichs 1994-1995, pp 73 ss.) e Eur. Her. vv. 892-893 ἐμοì χορòς μὲν ἠδύς (cf. Henrichs 1996, pp. 52-53).

che aprono la coppia antistrofica ἄνεχε πάρεχε φῶς φέρε πάλλε πόδ'αἰθέριον <ἄναγ'> ἄναγε χορόν v. 308) oppure dal verbo ἐλίσσω (v. 333) che si trova in Euripide spesso associato a cori circolari147 e, per finire, dall’invito ad Ecuba e alle donne del Coro di unirsi nella danza (vv. 325-326).

Il trasferimento di moduli di autorappresentazione tipici del coro nelle monodie degli attori risulta in linea con il progressivo affermarsi del ruolo dell’attore a discapito del coro nel teatro della seconda metà del V sec., in concomitanza con l’imporsi delle innovazioni musicali del nuovo ditirambo che portano ad un passaggio di onere musicale dal coro agli attori148.

Nello specifico della tragedia Troiane, forme di meta-musicalità e meta- coralità sono state rivestite di un significato ulteriore da Luigi Battezzato che,

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In particolare, si trova in associazione a cori circolari di Nereidi (cf. vv. 2-3 delle Troiane) oppure di delfini e, in genere alla ritualità di caratterizzazione dionisiaca, cf. Csapo 1999- 2000, (pp. 419, 422).

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Cf. Kranz 1933 (p.228) parla di «neue frische Lieder» proprio a partire dalle Troiane. Diversa è la posizione di Csapo 1999-2000 (pp. 24-25) che, sulla base di una indagine statistica sulla percentuale di versi lirici e recitativi assegnati al coro, al solo attore e di quelli eseguiti nei duetti da coro e attore, retrodata alla metà del 420 a. C. l’adozione delle nuove forme musicali da parte di Euripide. Csapo 1999 afferma «the most obvious symptom of Euripides’ interest in New Music is a shift of the musical burden from chorus to actors. He is the first tragedian known to make extensive use of actors’ monodies and actors’ duets, even trios» (p. 407). Csapo 1999­2000 delinea le caratteristiche della ‘New Music’, analizzando i suoi rapporti con il ‘Nuovo Ditirambo’ (con cui dunque non si identifica) e, attraverso il medium culturale/ cultuale dionisiaco (vd. 417-418: «often the language of the songs is chosen for its capacity to evoke Dionysiac music»; 425: «the evidence suggests that the New Musicians imagined their project as the (re-)creation of an authentically Dionysian music»), con la tragedia euripidea; In generale, l’autore osserva una tendenza, nei drammi di Euripide posteriori al 420, al trasferimento del «musical burden [...] from the chorus to the actors», con la conseguenza che la musica «began to move from the margins of the dramatic narrative to centre stage» (p. 412), esaltando i virtuosismi di attori-cantanti professionisti, sovente impegnati a rappresentare «females and often foreign and captive females» (p. 425), nel contesto di una progressiva ‘orientalizzazione’ dei gruppi corali (rispetto ai quali si registra un significativo incremento del fenomeno della choral-projection): i legami con l’immaginario esotico­barbaro e dionisiaco (esposto, nel clima ideologico e culturale ateniese, ad un processo di «effeminization and orientalization» non sempre nelle intenzioni autoriali), dunque, «gained in strenght and exclusivity» (pp. 425-426), guadagnando alla ‘New Music’ il biasimo dei musical theorists antichi (e, sulla loro scorta, dei moderni sostenitori di un anacronistico ‘decadentismo’ ante litteram: cf. pp. 404-405, 416). La cosiddetta Nuova Musica era definita dagli antichi musica ‘teatrale’ (cf. Plut. Mus. 1142c τῆς σκηνικῆς τε καì ποικίλης μουσικῆς) o, comunque, era collocata nel contesto di esecuzioni a teatro (cf. Aristox. fr. 124 Wehrli; Plat. Leg. 770d-701a; Plut. Mus. 1140e) perché il teatro era la sede degli agoni in cui si esibivano i rappresentanti del ‘nuovo ditirambo’ come Melanippide, Frinide, Cresso, Cinesia, Timoteo, Filosseno e Teleste, ma anche i tragediografi come Agatone ed Euripide. La denominazione attribuitale dalla critica moderna (‘Nuova Musica’) dipende dalle parole autoreferenziali di Tim. Pers. 203 (μοῦσα νεοτευχής), 211s. (νέοι ὕμνοι) PMG 796,2 (καινὰ ἀμὰ κρείσσω).

in un innovativo contributo del 2005 ha osservato che l’immaginario musicale delle Troiane percorre l’intero dramma evidenziando una interruzione della normalità rituale e coreutico-musicale frigia ad opera dell’invasore greco149. La distruzione della città di Troia si accompagna ad una desolazione cultuale, sottolineata nel prologo (vv. 1-97) dove Posidone saluta con dolore la città e i templi oramai distrutti. La guerra, interrompendo la tradizione della

mousikē frigia, da un lato origina una nuova μοῦσα θρήνων (la ‘New Music’

che dà il titolo al lavoro di Battezzato del 2005), dall’altro produce forme distorte di choreia. I personaggi delle Troiane sperimentano la difficoltà di

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Battezzato 2005 approfondisce in modo particolare il primo stasimo delle Troiane in cui un Coro di prigioniere troiane, in uno stasimo ‘ditirambico’ (secondo la definizione di Kranz) drammatizza la nascita del genere citarodico a partire dalla distrutta mousikē frigia. Attraverso l’analisi dei due rituali corali presenti nelle Troiane che risultano alterati rispetto a quanto previsto dalla tradizione, Battezzato oltre a sottolineare il passaggio da una vecchia

molpē frigia ad una nuova musica del dolore, evidenzia che il carattere di novità risiede

anche nel fatto che inaugura i nuovi generi greci che vengono creati dalla violenta distruzione e appropriazione di quelli frigi da parte dell’epica e della lirica greca e, attraverso queste, della tragedia. Nel primo stasimo il tema della distruzione, interruzione e sostituzione della vecchia musica è drammatizzato non solo a livello della narrazione, ma anche tramite allusioni musicali.
Per quanto concerne il primo aspetto (distruzione e interruzione), il coro stesso racconta come l’attacco dei Greci abbia interrotto la performance musicale dell’utima celebrazione pubblica a Troia, con la quale il popolo intendeva festeggiare il cavallo di legno. Nel raccontare la fine di Troia, poi, il Coro utilizza tradizionali formule epiche e citarodiche e drammatizza così la sostituzione della vecchia musica (oltre all’invocazione alla Musa, anche la metrica contribuisce a segnalare un legame con la tradizione epica: il verso 511 va scandito come una hemiepes, questo vuol dire che μοι è abbreviato in iato. È, questa, una caratteristica piuttosto rara in tragedia, eccetto che nei dattili che richiamano l’epica. Inoltre l’uso di ἀμφι all’inizio del verso si connette alla tradizione epica o citarodica, tant’è che i comici usano il verbo ἀμφιανακτύζειν come sinonimo di poesia citarodica e con riferimenti al

nomos di Terpandro). Le donne troiane dunque alludono alla musica e alla poesia epica e

citarodica che rappresenta il loro futuro letterario proprio mentre parlano della fine della tradizione poetico-musicale frigia.
Successivamente, ai versi 1242-1245 in cui dice che futuri poeti canteranno il destino di Troia, Ecuba profetizza esplicitamente l’invenzione dell’epica. I Troiani sono consapevoli che successivamente alla presa della città, la popolazione verrà ridotta in condizione schiavile e sarà incapace sia di custodire la propria tradizione musicale e culturale, sia di esserne fruitrice. La musica e gli strumenti frigi sopravviveranno, ma in una nuova cultura: quella greca. All’analisi di Battezzato si aggiunge una preziosa osservazione di Sansone 2009 (il quale tuttavia non cita Battezzato 2005 nel suo lavoro): l’intervento in prima persona di un poeta che invoca la Musa, tipico dell’epica avviene in un nuovo contesto, quello della tragedia. Se l’argomento è epico, il modo di trattarlo è caratteristico della tragedia, infatti la presa di Troia non è raccontata da un