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4. Troiane

4.1 Struttura della tragedia

La tragedia euripidea Troiane, che ebbe il secondo premio alle Grandi Dionisie ateniesi della primavera del 415 a.C., chiudeva una trilogia (dopo

Alessandro e Palamede) ed era seguita dal dramma satiresco Sisifo86. L’opera presentava la sorte delle donne troiane costrette, dopo la presa della città e la morte dei loro uomini, a salire sulle navi greche alla volta di un futuro di schiavitù.

La tragedia si articola in un prologo (vv. 1-97) in cui Posidone, salutando con dolore la città di Troia e i templi oramai distrutti, contrappone la triste condizione delle prigioniere troiane che attendono di essere assegnate ai vincitori, a quella ben lieta dei Greci che dopo dieci anni possono tornare dalle spose e dalle figlie.

Tuttavia questo felice νόστος prospettato dal dio del mare verrà loro negato per volere di Atena che, entrata in scena (v. 48), chiede aiuto a Posidone al fine di rendere amaro il ritorno in patria (v. 66 νόστον πικρόν) dell’esercito che lei stessa aveva aiutato a distruggere Troia.

Dopo la presa della città, come spiega la dea stessa (vv. 69 e 71), la sua disposizione verso i Greci è mutata drasticamente a causa dell’oltraggio (peraltro non punito affatto dagli altri guerrieri greci) che ella ha subito da parte di Aiace il quale, introdottosi nel suo tempio, aveva trascinato via a forza Cassandra e il simulacro di Atena.

Posidone promette poi il proprio aiuto alla dea e al prologo fa seguito una monodia (vv. 98-152) in cui Ecuba, dapprima in anapesti recitativi e poi lirici, lamenta la sorte della città, delle donne e delle fanciulle «destinate a nozze infelici» (κοῦραι δύσνυμφοι v.144).

Tale monodia è seguita da una parodo (vv. 153-229) articolata in due coppie strofiche, la prima delle quali ha una struttura dialogica con scambio di

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La data di rappresentazione alle Grandi Dionisie (marzo/aprile) ci è fornita da Eliano (Varia Historia 2.8). Sempre Eliano ci informa che Euripide arrivò secondo, battuto da un tale Xenocle che gareggiava con Edipo, Licaone, Baccanti e il dramma satiresco Atamante.

battute tra Ecuba e il Coro, mentre la seconda risulta interamente cantata dai due semicori in cui si articola il gruppo di donne troiane. Le due coppie strofiche si caratterizzano per omogeneità sia metrica che contenutistica poichè sia Ecuba che le Troiane lamentano in anapesti la loro condizione e, uscite dalle tende, si preparano ad apprendere da Taltibio la sorte che le attende (di schiava, di nutrice o di concubina) in chissà quale terra dei Greci. Entrato in scena al verso 235, Taltibio comunica le decisioni dell’esercito greco in trimetri giambici recitati, dando vita ad un duetto lirico-epirrematico con Ecuba che, in versi lirici (prevalentemente docmi), pone domande riguardanti le proprie figlie per poi sfogare il dolore, una volta appreso di essere stata assegnata ad Ulisse, in una monodia che si conclude al verso 291.

Dopo un rapido scambio di battute tra Taltibio, il Coro ed Ecuba, Cassandra si precipita in scena con l’intenzione di cantare l’imeneo (v. 308). La sua monodia si conclude al verso 341, quando la profetessa che sembra uscita dallo stato di esaltazione espone il motivo del suo entusiasmo. Cassandra si avvia poi alla nave greca, lasciando la madre esprimere dolore prima che lo faccia anche il Coro che, nel primo stasimo, rievoca il giorno in cui il cavallo di legno fece il suo ingresso tra le mura della città (vv. 511-67).

Segue il secondo episodio aperto da un dialogo lirico tra Ecuba e Andromaca che si estende per tre coppie strofiche di ritmo eterogeneo, l’ultima delle quali in esametri dattilici. Le numerose antilabai e le espressioni di compianto che puntellano l’episodio sembrano voler riprodurre il modulo delle lamentazioni funebri e ciò è in linea con il contenuto: oltre alla celebrazione della perfetta vita coniugale che aveva con Ettore, Andromaca espone l’idea che la morte sia preferibile ad una vita di sofferenza.

Le considerazioni di Andromaca sono interrotte da una nuova entrata in scena di Taltibio, giunto ad annunciare che Astianatte troverà la morte, precipitato dalle mura di Troia. Al dolore della madre fa eco quello del Coro che nel secondo stasimo (vv. 799-859) ricorda la più antica distruzione della città ad opera di Eracle e Talamone e sottolinea che a nulla è valso l’amore di due divinità (ovvero di Zeus ed Eos) rispettivamente per Ganimede e Titono (figli di Laomedonte), in quanto neppure l’amore divino per due mortali troiani ha consentito alla città di Troia di scampare alla distruzione.

Al termine di questi lugubri scenari di guerra, si fa spazio un dibattito circa le cause del conflitto e si apre dunque il terzo episodio che risulta in fondo essere un ἀγὼν λόγων in trimetri tra Ecuba ed Elena alla presenza di Menelao.

Usciti di scena i tre personaggi, il Coro canta il terzo stasimo (vv. 1060-1122) in cui viene, ancora una volta, rievocata la felicità di un tempo in contrapposizione alla desolazione attuale.

Fa poi nuovamente ingresso in scena Taltibio che reca il cadavere di Astianatte al quale ha già deterso le ferite e che ha immerso nelle correnti del fiume Scamandro. Il corpo viene consegnato alla nonna affinchè il bambino riceva gli onori funebri e venga seppellito in una fossa assieme allo scudo del padre. Ecuba pronuncia una ῥῆσις in trimetri giambici alternati ai versi lirici (prevalentemente docmi) degli interventi del Coro e ai quali Ecuba si associa solo per brevi esclamazioni di dolore (vv. 1229-30).

Il compianto è interrotto dal sopraggiungere di Taltibio che esorta le donne troiane a dirigersi verso le navi greche mentre dei soldati recano in scena fiaccole con le quali si apprestano a dar fuoco alla città.

Ecuba esprime il desiderio di morire assieme a Troia che brucia, ma il suo proposito è reso vano da Taltibio che ordina ai soldati di condurla via e di consegnarla ad Ulisse. Le Troiane si concludono così con un dialogo lirico tra Ecuba e il Coro che presenta elementi tipici di un lamento funebre (quali antifonalità verbale e gestuale) qui intonato per la città di Troia che ora non c’è più (ἀ δέ μεγαλόπολις / ἄπολις ἄλωλεν οὐδ' ἔστι Τροία vv. 1291-92).