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Rilevanza della cultura amministrativa diffusa nel paese

7 Conclusioni

7.3 Rilevanza della cultura amministrativa diffusa nel paese

l’elaborazione di indicatori legati a tali obiettivi, le difficoltà di misurazione dei medesimi potrebbero condurre ad una situazione di incertezza circa la capacità dell’agenzia, non di raggiungere i propri scopi, ma piuttosto di essere valido strumento di implementazione della policy. In altri termini sussiste il rischio che si trasferisca sul giudizio svolto intorno al modello quello che al contrario è un limite legato alla natura dell’attività svolta o alle potenzialità degli strumenti di rilevazione.

Il tema della misurabilità degli outcome acquista dunque con riferimento al modello delle agenzie un’importanza tutta particolare: si consideri il caso in cui l’attività svolta non sia effettivamente in grado di pervenire ad una realizzazione degli obiettivi generali attribuiti alla funzione. Una struttura gerarchica, unitaria ed integrata, sebbene non assicuri di per sé la percezione di tale debolezza tuttavia, almeno potenzialmente, pone i vertici dell’organizzazione, chiamati a compiere valutazioni di ordine strategico, in condizione di percepire i segnali di trend negativo che possono manifestarsi lungo la catena organizzativa. Nel caso di un’agenzia sussiste una soluzione di continuità rispetto al percorso di tali segnali che è data dal rapporto negoziale fra vertice dell’agenzia e dipartimento ministeriale. Una soluzione organizzativa di questo tipo allora, in assenza di indicatori forti in relazione alla capacità di dare indicazione del outcome determinatosi, può condurre a situazioni di incertezza in cui gli interventi strategici rischiano di essere intempestivi se non anche inadeguati.

Parlando di agenzie dunque, la definizione di indicatori in grado di fornire una misurazione del grado di raggiungimento degli obiettivi laddove questi siano negoziati in termini non soltanto di output ma anche di outcome, è particolarmente importante, poiché coinvolge direttamente la coerenza e la stabilità dell’accordo che disciplina il trasferimento delle competenze in merito all’attività da svolgere. Quando questa definizione è complessa ne risulta complicato anche il processo di negoziazione, fino al limite di ridurre lo stesso ad una mera formalità e non dare quindi seguito alla costituzione effettiva di un’agenzia.

un’originale riflessione, appare evidente che il principale elemento caratteristico del rapporto di agenzia, ovvero il rapporto negoziale fra direttore di agenzia e ministro, può essere influenzato profondamente dalla cultura diffusa nella società ed in particolare dalla cultura amministrativa.

Il grado di autonomia riconosciuto al direttore, lo spazio di negoziazione, la stessa individuazione delle aree che possono trovare quale nuova soluzione organizzativa la riorganizzazione sotto forma di agenzia, le modalità di crescita e di sviluppo, la capacità da parte dell’agenzia di rispondere ai propri compiti in modo efficiente e di svolgere la propria funzione in modo efficace, la valutazione stessa di tali parametri, sono tutte variabili che vengono influenzate dalla cultura: questa impone un percorso interpretativo che da sostanza al contenuto delle norme, sicché è verosimile ritenere che la stessa riforma, attuata tramite il ricorso alle medesime leggi, ma in due contesti culturali differenti, produrrà risultati differenti.

Per affrontare questo tema risulta opportuno specificare meglio il contesto culturale soffermandosi sulla cultura amministrativa propriamente detta, cioè sull’insieme dei valori, dei principi, delle abitudini che si accompagnano all’azione di chi effettivamente opera nella pubblica amministrazione. Parlando di cultura è possibile innanzitutto guardare ai tratti generali e compiere una distinzione sulla linea di quanto sostenuto da B. G. Peters (1998): la cultura di una società, definita appunto cultura societale, può essere tale da considerare la burocrazia come forma ideale di organizzazione, in tal caso è probabile che sia l’autorità a informare i rapporti interpersonali e che lo status influenzi decisamente i processi decisionali. In alternativa a questa società “burocratica” si colloca una forma di società definibile come “imprenditrice”, in cui i processi decisionali sono improntati al ricorso a negoziati e trattative individuali e le regole tendono a derivare da prassi informali e da forme di contrattazione. Parallelamente a tale dicotomia e coerentemente ad essa è possibile individuare due modelli di concezione della pubblica amministrazione, sulla cui esistenza concordano diversi autori (Pollitt, Bouckaert, 2000).

Da un lato la prospettiva Rechtsstaat assume che lo Stato operi come forza integrante all’interno della società: le principali preoccupazioni sono date dalla preparazione, dalla promulgazione e dal rispetto delle leggi, l’azione della pubblica amministrazione è disciplinata dettagliatamente da un corpo separato di norme che definiscono il diritto amministrativo, l’operato dei funzionari pubblici, infine, è sottoposto a rigidi controlli di tipo legale e si attiene pertanto in modo rigido alla legge. Il terreno culturale retrostante è quello precedentemente definito burocratico ed evidenzia il rispetto per l’autorità e la preoccupazione per l’equità intesa come uguaglianza almeno dinnanzi alla legge. I casi nazionali cui tradizionalmente si fa riferimento sono quello francese e quello tedesco.

Dall’altro lato troviamo il modello anglosassone rivolto alla salvaguardia del public interest e diffuso in paesi quali Australia, Nuova Zelanda e, naturalmente, Gran Bretagna. In questi sistemi amministrativi il ruolo riconosciuto allo Stato è meno dominante e non a caso piuttosto che di Stato si parla di government, un governo la cui azione si svolge sotto un principio di forte responsabilità dinnanzi al parlamento e ai cittadini. La legge riveste anche qui un ruolo importante ma resta sullo sfondo dell’azione amministrativa. Il dipendente pubblico si pone quali obiettivi la correttezza e l’imparzialità in un contesto fortemente orientato alla flessibilità e al pragmatismo. La cultura prevalente in tale contesto assume che i vari gruppi di interesse competono affidando al governo un ruolo di arbitro e alla pubblica amministrazione il compito di operare per il pubblico intereresse.

All’interno di sistemi di tipo Rechtsstaat, in un contesto in cui gran parte degli aspetti procedurali e organizzativi è dettagliatamente definita da un dispositivo composto di leggi, decreti, regolamenti e circolari, il cambiamento richiede la modifica coerente di ognuno di tali elementi. L’introduzione del modello delle agenzie incontra innanzitutto ostacoli in quanto riforma, ne incontra ulteriori poi in relazione alle sue caratteristiche. La separazione strutturale potrebbe non creare di per sé eccessivi problemi, anche se non mancano casi di riforme di tipo strutturale che, previste anche in modo dettagliato e tradotte in norme, non hanno poi trovato effettiva applicazione. Il vero problema è l’autonomia manageriale che, per trovare concreta applicazione, necessita di un superamento del criterio gerarchico diffuso nel processo decisionale: destrutturare l’organizzazione lasciando forti linee gerarchiche equivale a non realizzare la riforma, occorre dare autonomia ai diversi livelli e attribuire ad essi responsabilità di tipo gestionale. Ma la questione del management, prima ancora che tecnica, è una questione culturale, legata per esempio alla formazione dei dirigenti: un funzionario, attribuendo a questo termine il senso di soggetto chiamato a coprire un pubblico ufficio, inteso come insieme di pubblici poteri, che abbia una formazione di stampo giuridico e che per lungo tempo abbia operato nella convinzione che rispettando la legge ed applicandola che possono essere prodotti risultati, può non ritenere che la sua attività consista propriamente nel raggiungimento di determinati obiettivi; le sue competenze inoltre possono non essere adeguate a supportare tale nuovo ruolo e si genera pertanto una naturale preferenza per il contesto di prevedibilità e certezza in cui la norma consente di operare. Il processo di riforma richiede allora un cambiamento culturale e lo richiede a maggior ragione considerando l’altro elemento fondamentale del modello delle agenzie ovvero il performance contracting. Un funzionario pubblico che anche avesse accettato, magari solo perché a imporglielo è la legge, di assumersi responsabilità e compiti gestionali, tuttavia potrebbe essere culturalmente impreparato a svolgere il ruolo di controparte nella negoziazione stessa degli obiettivi con la parte politica, non

riuscendo ad interpretare, e forse anche ad accettare spontaneamente, il ruolo che gli viene attribuito. In tali condizioni il modello delle agenzie non è in grado di produrre risultati perché in verità non trova applicazione: le agenzie restano tali di nome ma continuano ad operare come dipartimenti o uffici interni a questi.

Tutt’altro discorso può valere per i sistemi amministrativi di tipo anglosassone: in essi il processo di riforma è meno problematico e la prevalenza all’interno dei sistemi di pubblico impiego di competenze di tipo generalista, rende poi più semplice il passaggio ad una prospettiva orientata alla performance. In tali contesti quindi, riforme che introducono maggiore autonomia non creano grossi problemi interni ed i dirigenti si adattano meglio col tempo a svolgere un ruolo di negoziatori. Il problema che semmai si riscontra è esattamente l’opposto di quello visto nel caso di sistemi Rechtsstaat: nel mondo anglosassone è centrale il tema della responsabilità in quanto non c’è un sistema normativo che impone di fare la cose in un certo modo e si chiede che chi ha uno spazio di autonomia si assuma anche la responsabilità delle proprie decisioni, possibilmente davanti a un organo rappresentativo. La catena di responsabilità che si viene così a delineare, partendo dal responsabile di ufficio per arrivare al direttore di agenzia o al capo dipartimento e al vertice politico che poi risponde al parlamento dell’operato dell’amministrazione, non è però certo una catena esclusivamente gerarchica, essa non ostacola il modello delle agenzie ed anzi crea per esso uno spazio di opportunità perché, per le sue caratteristiche, tale modello consente di chiarire di che cosa un soggetto è responsabile e di negoziare gli spazi di tale responsabilità. Non è un caso che laddove il modello delle agenzie ha trovato applicazione più evidente, e cioè in alcuni paesi anglosassoni, esso sia stato via via esteso ad ambiti di attività assai differenti fra loro per tipologia di funzioni svolte, rilevanza politica, dimensioni organizzative: ciò è avvenuto anche grazie alla presenza di una cultura amministrativa diffusa in modo pervasivo e omogeneo.

Ragionando in termini puramente teorici e date le caratteristiche del modello agenzia prospettate, si è giunti precedentemente alla conclusione che tale modello può trovare più facile diffusione in un sistema amministrativo di tipo public interest. Se infatti gran parte dei meriti di tale modello possono essere ricondotti alla dinamica negoziale tra direttore di agenzia e ministro, il contesto di una cultura empirica, pragmatica e flessibile che si riscontra in tale tipo di amministrazioni costituisce una condizione sicuramente più favorevole rispetto alla necessità di operare secondo quanto disposto dalla norma che si riscontra in sistemi di tipo Rechsstaat. Il rischio in questo secondo contesto è evidentemente quello di ridurre il rapporto di agenzia ad una procedura in cui la parte di ogni attore è già scritta ed il processo assume quale unica funzione quella di legittimare formalmente l’attribuzione di risorse a soggetti aventi obiettivi specifici imposti autoritariamente. Richiamando la prospettiva proposta dalle teorie di

Williamson (1986), appare corretto affermare che il mercato ha maggiori probabilità di sostituirsi alla gerarchia laddove la cultura diffusa attribuisce valore ai rapporti interpersonali e ha fiducia nell’utilità che ogni agente operi in condizioni di autonomia.

Un’ultima analisi può infine essere svolta con l’obiettivo di cogliere i tratti di una cultura che funzioni come ideale presupposto al modello delle agenzie. Guardando ad un paese in cui le agenzie esistono da parecchio tempo e costituiscono la componente più ampia della pubblica amministrazione, ovvero la Svezia, ci si accorge che il modello è in questo contesto pienamente operativo. Volendo restare nell’ambito della dicotomia Rechtsstaat – public interest emerge però che tale classificazione non è esauriente. Guardando a paesi come la Svezia, la Finlandia e la Danimarca, ci si trova di fronte a sistemi amministrativi in cui vi è stato un allontanamento da classica concezione legalistica di uno Stato che tuttavia continua ad avere un ruolo centrale nella società sovrapponendosi ad essa. La formazione della dirigenza pubblica ha perso in gran parte i suoi connotati giuridici ed ha puntato all’acquisizione di nuove competenze mantenendo ugualmente un senso del peso, della centralità e della continuità dello Stato. La pubblica amministrazione nel suo complesso, pur avviando processi di privatizzazione, ha mantenuto una dimensione rilevante ed è al centro della vita sociale per il ruolo di contemperamento e composizione degli interessi che è chiamata a svolgere.

Al di là degli aspetti specifici strutturali conta, nell’ambito di questa ipotesi, considerare la tendenza, insita nella cultura amministrativa di questi paesi, a specificare nel modo più chiaro e netto il ruolo che ciascuno è chiamato a svolgere, una tendenza tanto forte da coinvolgere la legge più importante di uno Stato, ovvero la costituzione. La separazione fra ministeri ed agenzie è infatti in Svezia un principio costituzionale che consente alle seconde di operare effettivamente e nella più ampia autonomia. Parallelamente esistono in Svezia, come del resto in Gran Bretagna, dispositivi e strumenti a tutela della democraticità dell’azione pubblica:

ombudsman, pubblicazioni periodiche e meccanismi di nomina e revoca dei responsabili, strumenti quindi diversi dai controlli di legittimità che contraddistinguono i sistemi di tipo opposto.