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La rinuncia agli atti come atto processuale in senso

2. La rinuncia agli atti del giudizio

2.2. La natura della rinuncia agli atti

2.2.2 La rinuncia agli atti come atto processuale in senso

senso stretto.

Quanto alla natura della rinuncia, le più risalenti opinioni ne affermano il carattere negoziale, configurandola poi o come un negozio bilaterale e, più precisamente, come accordo processuale, o come negozio unilaterale o somma di due negozi unilaterali, nel caso di rinuncia che necessita l’accettazione delle altre parti costituite.

Tuttavia, è ormai dominante la convinzione che la rinuncia non costituisca un negozio processuale, bensì un atto processuale in senso stretto.

Calvosa14, ad esempio, partendo dalla considerazione che la

rinuncia agli atti del giudizio, a differenza della revoca della domanda, opera sul processo lasciando sopravvivere non solo il diritto sostanziale, ma anche l’azione, la qualifica indubbiamente

definirsi come un atto giuridico unitario, eventualmente complesso.

13 SATTA, Commentario al codice di procedura civile, II, parte I,

Milano, Casa editrice Dott. Francesco Vallardi, 1962, p. 426.

14 CALVOSA, voce Estinzione del processo civile. , p. 979. Del

medesimo avviso COMOGLIO-FERRI-TARUFFO, Lezioni sul processo civile, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 637 : «la rinuncia agli atti del giudizio, pur implicando la presenza di un accordo a struttura bilaterale, è istituzionalmente un mero “atto giuridico” con effetti processuali predeterminati dalla legge[…]».

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come un atto volontario in quanto l’estinzione sarebbe una conseguenza diretta della volontà della parte.

Tuttavia, «non è data alla parte la facoltà di determinare e atteggiare gli effetti della sua volontà come meglio le piaccia, sicché resta escluso che la rinunzia agli atti possa configurarsi come negozio giuridico nel senso attribuito a tale figura dal diritto sostanziale».

Detto ciò, arriva alla conclusione che «La rinuncia agli atti è dunque una causa volontaria di estinzione del processo e come tale può ricondursi alla categoria degli atti giuridici processuali che sono, poi, una specie del genere atti giuridici»15.

Riassumendo, secondo questa parte della dottrina, attualmente dominante, rilevando la sola volontà dell’atto e non anche la volontà degli effetti, già stabiliti dalla legge, si dovrebbe negare la natura negoziale della rinuncia agli atti.

2.3. Considerazioni conclusive.

Analizzate le varie posizioni sul punto, si rende necessario fare alcune osservazioni.

Anzi tutto, non sembra possibile attribuire alla rinuncia agli atti il requisito della bilateralità, in quanto, come il legislatore del 1940 ha previsto espressamente, l’accettazione delle altre parti non sempre è richiesta.

Sembra più coerente con la struttura dell’istituto, quindi, affermare il carattere unilaterale della rinuncia agli atti.

Ma questa attività presenta o meno natura negoziale?

Sembrerebbe di dover dare risposta negativa, quanto meno se si ci si riferisce al suo elemento caratterizzante, costituito dalla volontà

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degli effetti: l’attore, infatti, rinunciando al processo, non crea una regola non determinata in positivo dalle norme che prevedono e regolano il potere.

Tuttavia, sappiamo che l’orientamento prevalente in dottrina configura la volontà degli effetti non come volontà degli effetti giuridici bensì come volontà dei risultati pratici; e ciò partendo dall’assunto che la determinazione dei primi non compete agli autori del negozio ma all’ordinamento giuridico16.

Da qui la conclusione che ciò che rileva è il c. d. intento empirico, cioè la volontà di un certo risultato pratico.

Se questo è vero, allora, la rinuncia agli atti non si configura soltanto come atto voluto, ma del quale sono parimenti voluti gli effetti (processuali): l’attore manifesta l’intento di porre fine al processo senza ottenere la sentenza di merito.

In altre parole, l’istituto in esame costituisce un negozio, essendo presente non solo l’elemento della volontarietà, ma anche quello intenzionale per come configurato poco sopra.

Certo, sempre da un punto di vista strutturale, a differenza di patti come la convenzione arbitrale o l’accordo di deroga alla competenza territoriale, la rinuncia agli atti non è neppure pensabile nell’universo extraprocessuale: questa, infatti, non esiste al di fuori del processo, si crea e si consuma in sé stessa, dando vita ad una determinata situazione giuridica precedentemente inesistente.

Tuttavia, nonostante sia palese come la rinuncia gli atti non abbia esistenza autonoma come contratto, potendo esistere solo assumendo la veste di atto processuale, siamo comunque in presenza di una ipotesi (eccezionale) in cui l’atto processuale è un negozio e non un atto giuridico in senso stretto.

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3. (Segue) La sospensione concordata del processo: natura giuridica.

L’art. 296 c. p. c.17 disciplina la c. d. sospensione concordata del

processo, che la dottrina spesso usa contrapporre a quella necessaria dell’art. 295 c. p. c.

Per le più svariate ragioni (tentativo di conciliazione stragiudiziale della lite, mutamenti della situazione patrimoniale di uno dei soggetti) le parti possono raggiungere un’intesa sull’opportunità di dar luogo a una pausa nel processo, per un periodo di tempo non superiore a tre mesi; il provvedimento di sospensione rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità.

Va però segnalato come tale istituto sia ormai desueto perché, tra un’udienza e l’altra, decorrono di solito ben più di tre mesi: quindi è sufficiente un semplice rinvio dell’udienza successiva per avere una dilazione maggiore di quella massima che si può ottenere con la sospensione su istanza delle parti.

Quanto alla natura dell’istituto, nessun dubbio sul carattere bilaterale dello stesso: a differenza della rinunci agli atti, infatti, la sospensione non è caratterizzata dal binomio rinuncia- accettazione: entrambe le parti si devono accordare al fine di produrre l’effetto processuale sospensione del giudizio.

Presente anche l’elemento volitivo, il quale attribuisce natura negoziale all’istituto, inteso sia come volontarietà del comportamento che come intenzionalità degli effetti (nel senso

17 Secondo il quale “Il giudice istruttore, su istanza delle parti, ove

sussistano giustificati motivi, può disporre, per una sola volta, che il processo rimanga sospeso per un periodo non superiore a tre mesi, fissando l’udienza per la prosecuzione del processo medesimo”.

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chiarito nel paragrafo precedente, in quanto gli effetti giuridici, ancora una volta, sono determinati dal legislatore).

In ultima analisi, come per la rinuncia agli atti, la sospensione concordata, pur avendo natura negoziale, presenta necessariamente la forma dell’atto processuale: questa, infatti, non ha un’esistenza autonoma come contratto, non essendo assolutamente pensabile nell’universo extra-processuale.

4. Il ricorso per saltum: natura dell’istituto e il problema dei c. d.

negozi processuali “innominati”.

In ordine alla natura e alla portata “dell’accordo” ex art. 360, 2° comma, c. p. c.18non si pongono particolari problemi, in quanto sia

la dottrina19 che la giurisprudenza ne hanno più volte affermato la

natura negoziale.

La Corte di Cassazione, infatti, è stata chiara nel dire come l’istituto in esame debba qualificarsi come «un negozio processuale, quanto meno sotto il profilo della rilevanza della manifestazione di volontà dei dichiaranti, il cui effetto immediato è quello di rendere non appellabile la sentenza oggetto dell’accordo»20.

18 Secondo il quale “Può inoltre essere impugnata con ricorso per

cassazione una sentenza appellabile del tribunale”.

19 LUISO, Diritto processuale civile, II, VII ed. , Milano, Giuffrè, 2013,

p. 427.

Secondo l’Autore, con il ricorso per saltum il legislatore ha previsto un negozio processuale; ipotesi eccezionale in cui l’atto processuale è un negozio, invece che un atto giuridico in senso stretto.

20 Cass. , sent. 10 dicembre 1976, n. 4587; Cass. , sent. 29 aprile

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Ci si troverebbe, cioè, in presenza di «uno di quegli atti processuali “normativi” (quali, ad esempio, gli accordi modificativi della competenza o i patti sulle prove), caratterizzati dal fatto di manifestare attraverso il loro contenuto oggettivo il collegamento con gli effetti giuridici ai quali danno vita»21.

Problemi si sono posti, invece, in ordine all’ammissibilità di un accordo anteriore alla sentenza di primo grado, e, conseguentemente, alla possibilità di configurare negozi processuali innominati.

La Suprema Corte ha sempre escluso che la pattuizione di omissione dell’appello potesse essere stipulata ante causam, potendo, in realtà, tale negozio processuale intervenire soltanto dopo che sia stata pronunciata la sentenza di primo grado, il cui appello si tratta di omettere per accordo fra le parti.

Tale interpretazione, trova conforto nell’interpretazione della lettera della legge: il 2° comma dell’art. 360, afferma la Corte22, si

riferisce ad una sentenza “appellabile” e tale dizione offre una chiara indicazione nel senso che l’accordo si pone nei confronti di una sentenza che deve essere già stata pronunciata nel momento in cui interviene l’accordo.

Da questa affermazione il Giudice di legittimità trae considerazioni di carattere sistematico: «se, infatti, l’accordo di cui si tratta potesse essere preventivo, cioè intervenire ante causam o comunque anteriormente alla pronuncia della sentenza di primo grado, esso opererebbe come ragione di inappellabilità della sentenza. Se così fosse, quindi, non solo non si spiegherebbe la dizione letterale usata dalla norma (sentenza appellabile), ma si tratterebbe, puramente e

21 Cass. , 29 aprile 1998, n. 4397. Sul punto v. DENTI, voce Negozio

processuale, in Enc. dir. , XXVIII, Milano, 1978, p. 138 ss.

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semplicemente, di proporre, nei termini che gli sono propri, il ricorso per Cassazione contro una sentenza pronunciata in unico grado […]23»

Coerente con tale interpretazione, poi, il disposto dell’art. 366, 3° comma, c. p. c. nella sua vecchia formulazione24.

Tutte argomentazioni, quindi, che portano alla formulazione della massima «l’accordo con cui le parti convengono di omettere l’appello […] può essere stipulato soltanto dopo la pronuncia della sentenza di primo grado […]»25.

Tuttavia, una volta escluso che si possa ritenere efficace l’accordo raggiunto anteriormente alla instaurazione del processo, una parte della dottrina26 si è domandata se questo potesse essere altrimenti

qualificabile in qualche guisa come atto efficace all’interno del processo.

In altre parole, ci si pone il problema dei c. d. negozi processuali innominati.

23 Cass. , sent. 10 luglio 1986, n. 4480.

24 Non solo, quindi, nella sua prima ipotesi , secondo cui il patto di

salto si formalizza e prende giuridica rilevanza di accordo processuale attraverso l’apposizione di un “visto” sul ricorso, ma anche nella sua seconda ipotesi, per la quale l’accordo può risultare da atto separato da unirsi al ricorso, posto che quest’ultima previsione «non evoca la possibilità di un accordo “separato” nel senso di “anteriore alla sentenza”, ma semplicemente indica una modalità alternativa di documentazione del negozio processuale», Cass. , 10 luglio 1986, n. 4480.

25 Cass. , 10 luglio 1986, n. 4480.

26 LUISO, “Considerazioni sul ricorso per Cassazione per saltum

omissio medio (con qualche accenno ai c. d. negozi processuali innominati)”, in Giust. civ. , I, 1986, p. 3124 ss.

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Solitamente la dottrina risolve il problema di questi negozi osservando che il principio dell’autonomia privata non è riconosciuto nel settore processuale, in cui manca una norma come l’art. 1322 c. c. ; sicché la tipicità sarebbe la caratteristica dei negozi processuali27.

Tuttavia, una volta esclusa l’ammissibilità di un negozio processuale atipico, secondo questo orientamento niente impedisce di ritenere perfettamente validi ed efficaci negozi sostanziali con effetti (secondari) processuali.

Si tratterebbe di accordi che trovano la loro giustificazione nella disponibilità del diritto sostanziale controverso, e che hanno quest’ultimo come loro oggetto immediato; solo indirettamente la regolamentazione del rapporto sostanziale influisce, poi, sul processo.

Esempio tipico di questo negozio viene ritenuta la rinuncia preventiva all’impugnazione ad opera di tutte le parti: in tal caso, infatti, solo impropriamente si potrebbe parlare di vero e proprio accordo processuale, poiché, in realtà, le parti vanno a disporre del diritto controverso28.

Per cui, se l’ammissibilità di un accordo atipico passa necessariamente attraverso la sua operatività, in primis, sul rapporto sostanziale controverso, e solo indirettamente e di riflesso sul processo, tale orientamento sostiene come sia evidente

27 MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura

civile, II, Milano, Casa editrice Dott. Francesco Vallardi, p. 413 ss. ; FABBRINI TOMBARI, “In tema di «pactum de non exequendo»”, Il Foro it. , I, 1992, p. 1846 ss.

28 MINOLI, L’acquiescenza nel processo civile, Milano, Casa editrice

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che un accordo preventivo di ricorso in Cassazione per saltum non possa essere ritenuto efficace.

Questo, infatti, anziché disciplinare la situazione sostanziale litigiosa, avrebbe l’unico effetto di alterare l’ordine dei mezzi di impugnazione, in quanto sul contenuto della sentenza di Cassazione non esplicherebbe alcuna efficacia.

E questa sarebbe la riprova della portata esclusivamente processuale di una accordo di tale genere.

Ciò detto, sappiamo che con il d. lgs. n. 40 del 2006 e la conseguente modifica del 3° comma dell’art. 366 c. p. c. , l’accordo può essere oggi “anche anteriore alla sentenza impugnata”.

Tuttavia, il ragionamento presentato sino a questo punto ci è stato particolarmente utile per fare chiarezza su un punto: una cosa sono i negozi processuali, un’altra i negozi sostanziali con effetti (secondari) processuali; i primi, come affermato poco sopra, producono direttamente e immediatamente effetti processuali (è il caso del ricorso in Cassazione omissio medio, dei patti di prova, e così via); i secondi, invece, vedono le parti disporre direttamente del diritto controverso, in quanto solo in via mediata la regolamentazione del rapporto sostanziale influisce sul processo. Ancora una volta, quindi, gli effetti prodotti (sostanziali o processuali) sono determinanti per la qualificazione del negozio.

5. L’acquiescenza propria (espressa o tacita) ex. art. 329, comma 1°, c.

p. c.

5.1. Natura dell’istituto e contrapposti orientamenti in ordine

all’acquiescenza (propria) tacita.

Per quanto concerne l’analisi dell’istituto dell’acquiescenza, ricordiamo anzitutto che il nostro ordinamento, all’art. 329 c. p. c. ,

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prevede tre tipi di comportamento acquiescente: nel primo comma l’acquiescenza espressa, che consiste in una dichiarazione resa dalla parte interessata a proporre l’impugnazione o dal suo procuratore munito di mandato speciale, e l’acquiescenza tacita, la quale si ha quando l’interessato abbia compiuto atti certamente dimostrativi della volontà di non contrastare gli effetti della pronuncia e dai quali si possa desumere, in modo preciso ed univoco, l’intento di non avvalersi dell’impugnazione29; nel

secondo comma la c. d. acquiescenza “impropria” o “qualificata”, che si concreta nel comportamento di chi, essendo soccombente rispetto a più capi della sentenza, ne impugna soltanto alcuni. Nessun dubbio in ordine alla qualificazione di quest’ultima: si tratta di un atto processuale nel quale non rileva la volontà del soggetto interessato, essendo stata prevista una «tipizzazione legale e automatica degli effetti oggettivamente collegati ad un esercizio solo limitato del diritto potestativo di impugnazione[…]»30. Quanto alla natura dell’acquiescenza espressa, giurisprudenza e dottrina prevalenti sono concorsi nel qualificarla come negozio giuridico processuale31, sub specie di manifestazione di volontà

unilaterale non recettizia.

29 Cass. , 7 febbraio 2008, n. 2826; Cass. , 21 gennaio 2008, n. 1156;

Cass. , 9 agosto 2007, n. 17480; Cass. , 6 marzo 2006, n.4794; Cass. , 7 aprile 2005, n. 7207; Cass. , 9 giugno 2004, n. 10963; Cass. , 26 aprile 2002, n. 6050; Cass. , 19 giugno 1993, n. 6838.

30 Cass. , S. U. , 13 ottobre 1993, n. 10112, in Corriere giur. ,1994, p.

198 ss. , con nota di COLLIA.

31 In dottrina, prima di alcuni specifici interventi della Suprema

Corte, pur sostenendo la negozialità dell’istituto, si afferma la sua natura recettizia. D’ONOFRIO, in voce Acquiescenza, in Noviss. Dig. it. , I, 1, Torino, 1936, p. 236, sostiene che «l’acquiescenza propria

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Al contrario, per quanto riguarda l’acquiescenza tacita, dottrina e giurisprudenza si sono divise in due distinti indirizzi.

Secondo il primo si tratterebbe di un mero fatto o, tutt’al più, di un atto giuridico, nel quale è totalmente irrilevante la volontà degli effetti32; conseguentemente, «ove la parte soccombente ponga in

essere una condotta incompatibile con la volontà di impugnare, si ha accettazione tacita della sentenza, senza che rilevi l’intenzione da cui fu animata la condotta, che vale solo per il suo significato obiettivo»33.

espressa è una dichiarazione di volontà alla quale ugualmente la legge riconosce un effetto giuridico; essa pertanto costituisce un negozio giuridico processuale recettizio». Anche REDENTI, in Diritto processuale civile, II, I ed. , Milano, Giuffrè, 1949, p. 26, si riferisce all’acquiescenza come a una manifestazione «per sua natura unilaterale e recettizia», la quale si perfeziona nel momento in cui viene «portata ad effettiva conoscenza della parte vittoriosa» oppure quando interviene «la notifica in quelle forme solenni di cui agli artt. 137 e segg».

Tuttavia, analizzando le pronunce successive in materia, la Corte è esplicita nel sancire la natura non recettizia dell’acquiescenza. All’uopo, v. Cass. , sent. 19 giugno 2002, n. 8940 in cui il Giudice di legittimità parla espressamente di «atto unilaterale non recettizio, non richiedente accettazione della controparte […];

32 V. D’ONOFRIO, voce Acquiescenza, p. 236, secondo il quale

«l’acquiescenza propria tacita è un semplice atto giuridico, sempre con quel determinato effetto: invero non è punto essenziale che l’atto sia compiuto dal soccombente con la volontà di prestare acquiescenza».

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Alcuni autori favorevoli a tale indirizzo sono ancora più espliciti, negando ogni rilevanza, in base al principio protestatio contra factum non valet, alla espressa riserva di impugnazione proposta dalla parte che adotti il comportamento incompatibile con la volontà di impugnare34.

Altra parte della dottrina e della giurisprudenza, invece, affermano che l’acquiescenza tacita sia un negozio giuridico processuale, in cui assume rilievo preminente l’elemento volitivo35. Perché possa

parlarsi di acquiescenza è, pertanto, necessario che dal concreto atteggiamento della parte emerga un’univoca volontà abdicativa36.

A tal fine si è attribuita rilevanza sia all’indagine sull’intenzione di colui che compie atti incompatibili con la volontà di proporre impugnazione, sia all’indagine sulla presenza di eventuali vizi della volontà37.

Detto ciò, un’importante sentenza della Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha posto fine a quegli orientamenti che, ai fini dell’operatività dell’istituto, ritengono debba attribuirsi rilievo decisivo agli atti o fatti incompatibili obiettivamente considerati, indipendentemente dalla volontà che li accompagna.

La sentenza in questione, per affermare la sindacabilità del Giudice di legittimità delle valutazioni del giudice di merito circa l’acquiescenza tacita delle parti della sentenza, accoglie pienamente quell’indirizzo fondato sulla rilevanza della volontà

34 V. ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, II, Napoli,

Jovene, 1960, p. 383.

35 Cass. ,12 febbraio 1981, n. 874; MINOLI-BERGOMI, voce

Acquiescenza (diritto processuale civile), in Enc. dir. , I, Milano, 1958, p. 498 ss.

36 V. , ad es. , Cass. , 10 aprile 2003 , n. 5689. 37 Cass. , 12 febbraio 1981, n. 874.

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degli effetti, affermando espressamente la necessità, ai fini dell’individuazione di atti incompatibili con la volontà di impugnare, di uno specifico intendimento causale diretto ad abdicare al diritto di impugnazione; e ciò sposando l’orientamento prevalente in giurisprudenza secondo il quale entrambe le fattispecie di acquiescenza propria costituiscono un negozio giuridico processuale38.

In conclusione, non vi è dubbio che attualmente prevalga l’indirizzo che qualifica sia l’acquiescenza espressa sia l’acquiescenza tacita negozi giuridici, nei quali rileva la volontà del soggetto legittimato ad impugnare.

38 Cass. civ. , S. U. , 13 ottobre 1993, n. 10112: «In proposito

dev’essere anzitutto osservato come in relazione alla portata di cui al suddetto art. 329 c. p. c. ed alla determinazione dell’istituto dell’acquiescenza l’orientamento dominante della dottrina e della giurisprudenza sia quello secondo cui sia l’accettazione espressa (della sentenza) che quella tacita integrano un negozio giuridico e non una semplice sostituzione processuale. Tale indirizzo, con riguardo alla prima ipotesi contenuta nella suddetta norma del codice di rito (comma 1), appare pienamente condivisibile, ed invero essa fa uso dei concetti tipici che qualificano il negozio giuridico, prevedendo, accanto all’accettazione espressa, il compimento di “atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge”, il che comporta, non già e non soltanto una valutazione meramente oggettiva di un tale comportamento con l’automatica conseguenza dell’improponibilità dell’impugnazione, bensì una specifica indagine sull’elemento soggettivo, essendo necessario che, per ritenere tale improponibilità, risulti uno specifico intendimento causale diretto ad abdicare al diritto di impugnazione».

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Sul piano degli effetti, poi, resta da precisare come questi siano di natura squisitamente processuale, consistenti «nell’accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di impugnare»39.

Quindi, come ha giustamente affermato la Corte, in via immediata l’acquiescenza si sostanzia in un «atto dispositivo del diritto di impugnazione» e, solo in via mediata, del diritto sostanziale fatto valere in giudizio40.

Se, ad esempio, un soggetto dovesse accettare una sentenza -così rendendone gli effetti irretrattabili- che non riconosca l’esistenza di un diritto di credito di cui si ritiene titolare, non potrà più vedere realizzato quel diritto e, quindi, il risultato dell’acquiescenza è che, anche sul piano sostanziale, il soggetto dispone, abdicandovi, del diritto disconosciuto dal provvedimento giurisdizionale.

A conferma di ciò la giurisprudenza ha poi evidenziato che la