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2. Natura della convenzione arbitrale

2.2. Le principali posizioni dottrinali sulla natura della

2.2.1. Teoria processuale e teoria contrattuale

Per comprendere la natura giuridica della convenzione arbitrale è utile prendere le mosse dai più illustri orientamenti affermatisi nella dottrina, i quali, in considerazione dei loro tratti caratterizzanti, possono distinguersi in due grandi correnti: la teoria processuale o pubblicistica e la teoria contrattuale o privatistica.

Secondo la prima, il cui massimo esponente è stato considerato Lodovico Mortara2, il patto con cui le parti si accordano per far

decidere una lite ad arbitri è un accordo di natura privata: un contratto, legato, per la sua efficacia e interpretazione, alle norme di diritto privato, avente, però, contenuto processuale -e non patrimoniale- né più né meno di quello diretto a derogare, nei casi consentiti dalla legge, la competenza territoriale.

Infatti, come con quest’ultimo accordo si producono effetti processuali, in quanto le parti investono della loro lite un giudice diverso da quello che per territorio sarebbe naturalmente competente, allo stesso modo, con la convenzione di arbitrato le parti concludono un accordo ad effetti processuali in quanto volto ad attribuire il potere di conoscere e decidere della loro controversia agli arbitri3.

Sia nell’uno che nell’atro caso, poi, i sostenitori della teoria pubblicistica non ritengono che siano i privati, mediante la convenzione, ad investire il giudice o gli arbitri della giurisdizione.

2 MORTARA, Commentario, III. 3 MORTARA, op. cit. , p. 58.

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Questa, così come affermato da Mortara4, è loro attribuita dalla

legge (processuale civile): i privati, quindi, possono decidere di demandare la decisione di una loro lite agli arbitri solo perché ciò è consentito loro dalla legge.

L’arbitrato, quindi, si considera non già come un istituto avulso dalla legge processuale, ma come fondato su di essa, sebbene caratterizzato da notevoli particolarità in ordine al suo sorgere, svilupparsi e concludersi.

Conclusa l’analisi della teoria pubblicistica, passiamo al secondo orientamento dottrinale, il quale riconosce natura contrattuale all’arbitrato.

Secondo i sostenitori del carattere privatistico dell’arbitrato, quando i privati si accordano per far decidere una controversia, attuale o futura, da soggetti terzi, non solo essi pongono in essere, in virtù della libertà contrattuale che è loro propria, un negozio giuridico ad effetti meramente privati, ma anche la stessa attività degli arbitri non assume mai rilievo processuale; e ciò per la semplice ragione che, essendo la giurisdizione prerogativa dello Stato, non possono gli arbitri, nominati sulla base di un accordo tra soggetti privati, esplicare attività giurisdizionale.

Pertanto, il procedimento arbitrale non potrà mai assumere carattere processuale.

Questa teoria, quindi, costruisce l’arbitrato come istituto avente una funzione essenzialmente privata, con attribuzione del carattere giurisdizionale al lodo per il solo volere dello Stato. Tra i maggiori sostenitori di questo pensiero ricordiamo Chiovenda e Satta.

Il primo definisce il patto compromissorio come un «contratto, che appartiene propriamente al diritto privato, ma che ha

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un’importanza processuale negativa, in quanto dà alle parti un’eccezione processuale, cioè il diritto di impedire la costituzione di un rapporto processuale», «l’accordo delle parti di deferire la definizione della controversia a uno o più privati»5.

Anche il secondo6, seppur in epoca più recente, asserisce la pura

riconducibilità del patto compromissorio al contratto.

Tale impostazione nasce da una netta contrapposizione tra lo strumento arbitrale e il piano pubblicistico su cui si muove il processo giurisdizionale, che si caratterizza per aspetti in nessun caso compatibili con il modus operandi con il quale il diritto regola i rapporti tra privati.

Egli sottolinea, innanzitutto, la diversità delle situazioni giuridiche soggettive, in quanto nel processo non può configurare lo schema diritto-obbligo tipico del fenomeno contrattuale.

In particolare, l’Autore ritiene che la convenzione arbitrale non possa dar luogo ad un meccanismo processuale, in quanto la sua natura contrattuale gli consente unicamente di costituire rapporti giuridici, che sono estranei al processo medesimo.

L’influenza del contratto sul processo potrebbe immaginarsi solo in via indiretta, quale effetto riflesso di una modificazione sostanziale.

Conclusa l’analisi delle due teorie, si rende opportuno precisare - prima di passare ad analizzare alcune posizioni intermedie e “innovative”- che, a parer di alcuni7, prospettare la questione in

5 CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1980, p.

107.

6 SATTA, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, Milano, Giuffrè,

1969.

7 PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, II ed. , Padova,

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termini di rigida contrapposizione tra una corrente contrattuale e una giurisdizionale sia, in effetti, frutto di un eccessivo schematismo.

Per dimostrarlo è sufficiente prendere le mosse dal pensiero di Mortara.

L’Autore, parte dal presupposto che « nello stato moderno la guarentigia essenziale del diritto mediante l’esercizio della funzione giurisdizionale sia attribuzione esclusiva e imprescindibile della sovranità»8 e continua affermando che il sistema dei giudizi arbitrali «è giurisdizione sempre, perché l’ufficio degli arbitri trae autorità ed efficacia dal riconoscimento della legge, che consente loro, in certa misura conveniente, l’esercizio della funzione giurisdizionale»9 e che «altri organi non possono essere concepiti se non come organi impropri di giurisdizione e quindi come creazione del diritto positivo; onde appunto è ragionevole che la loro abilitazione all’esercizio di tale ufficio sia ristretta entro confini certi e ben determinati»10.

In questo modo emerge la figura dell’arbitro come “organo improprio di giurisdizione”, una forma di surrogazione dell’autorità degli organi del pubblico potere per mezzo di un organo creato dal privato arbitrio delle parti.

Tuttavia, nonostante l’Autore costruisca la sua teoria dell’arbitrato su un unico e parziale oggetto di indagine, quello dell’arbitrato statalizzato, è poi costretto a riconoscere un’altra manifestazione dell’arbitrato che, espressione della «libertà civile dei singoli soggetti di diritto», si concretizzi nel deferimento ad un terzo della decisione della controversia e che, contenuto nei limiti della libertà

8 MORTARA, Commentario, III, p. 39. 9 MORTARA, op. cit. , p. 38.

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contrattuale, comporti l’applicazione dei principi generali del diritto delle obbligazioni, «nel senso che la parte la quale, violando la premessa, ricusi di stare alla volontà del terzo, debba risarcire i danni derivanti dalla violazione del patto bilaterale, e possa essere costretta con azione giudiziaria ad adempierla»11.

Allora, di fronte a queste affermazioni, la dottrina12 ha ritenuto di

poter concludere che, dopo aver portato ad estreme conseguenze la tesi di un arbitrato “giurisdizionalizzato”, l’Autore ha dovuto riconoscere la possibilità di una «forma di definizione contrattuale dei litigi», il cui «massimo pregio consiste nella spontanea fedeltà con cui le parti contraenti rispettano il compromesso e la responsabilità dell’arbitro»13, risultato che Egli non vede, ai suoi tempi, agevolmente perseguibile, essendo prerogativa di uno Stato «in cui l’armonia della pacifica convivenza civile si trova perfettamente e perpetuamente garantita dalla sola buona volontà di tutti gli uomini»14.

Ed è proprio questo il motivo per il quale Salvatore Satta, sostenitore della contrattualità dell’arbitrato, ha riconosciuto come Mortara abbia anticipato e legittimato «quello che si sarebbe riconosciuto come arbitrato libero»15 o irrituale: ossia di un

arbitrato, autenticamente collocato sul terreno dell’autonomia privata, sottratto al parametro della giurisdizione16.

11 Ibidem, p. 42.

12 PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, p. 89. 13 MORTATA, op. cit. , p. 46.

14 Ibidem, p. 44.

15 SATTA, Quaderni del diritto e del processo civile, III, Padova,

CEDAM, 1970, p. 6.

16 Mortara, infatti, sostiene che «se il legislatore volesse antecipare

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