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Riproduzioni fotografiche di stampe: una scelta sicura per il mercato della fotografia

Le Grimpeurs di Michelangelo tradotto in incisione da Marcantonio Raimondi è una delle immagini chiave della vicenda di Milliet, la si è presentata in precedenza a proposito del “battesimo” di Paul come conoscitore dell’arte attraverso la sua immagine tradotta, di altre incisioni dello stesso Marcantonio vi sono ben quindici fotografie nella collezione. L’acquisto di due tra queste è riconducibile ai soggiorni fiorentini di Milliet e il motivo è perché appartengono alla produzione Alinari degli anni Sessanta, come si evince dal timbro a secco: si tratta de la Venere e amore di Raffaello e Le virtù [Tav. XXVII].

Così com’era per i disegni degli antichi maestri, le fotografie di stampe segnavano una parte considerevole dei primi cataloghi commerciali, giacché la continuità con la tradizione incisoria aveva una doppia valenza: una continuità insita nel mezzo fotografico che affianca – senza sostituire del tutto – l’incisione come strumento di riproduzione delle immagini, ma anche un proseguimento degli sguardi degli incisori che diventano fotografi.

È questo il caso dei Fratelli Alinari e Giacomo Brogi, la cui formazione artigiana ma anche culturale sul patrimonio artistico di Firenze, era iniziata ben presto presso le botteghe di valenti calcografi347: Leopoldo Alinari svolse il suo apprendistato presso il calcografo Luigi Bardi, il cui figlio Giuseppe lo spinse a sperimentare la fotografia348. Lo stesso avvenne per Giacomo Brogi che, dopo aver frequentato i corsi d’incisione presso

347 La formazione dei fotografi Alinari e Brogi, non è facile da stabilire poiché, in casi come quello degli Alinari, l’archivio societario non è stato conservato, o meglio tramandato con i beni riversati con il rogito che sanciva la nascita della società IDEA nel 1920, cfr. Maffioli 2003, pp. 48-49.

348 Bardi fu una figura chiave nel dare impulso ai giovani calcografi a dedicarsi alla fotografia, anche invitandoli a visitare i maggiori stabilimenti fotografici di Venezia e Roma dove erano attivi Domenico Bresolin e James Anderson. Cfr. Maffioli 2003, p. 22 e Maffioli 1996, p. 37.

Luigi Bardi. Litografo, disegnatore e direttore di una rinomata calcografia di Firenze, aveva un negozio in Borgo Albizi al n. 460. Tra le altre cose pubblicò: Regia Galleria dei Pitti; la Tribuna di Galileo; L’Italia; La Grecia; La Svizzera e la Germania; Galleria biblica. Cfr. Servolini 1955, p. 51.

Non si conoscono le date di nascita e morte, ma certo il Bardi era già attivo nel 1820 e collaborava con incisori del calibro di Raffaello Morghen, vedi Biografia Morghen in DBI. Alcune tracce del Bardi si trovano nell’Archivio storico delle gallerie fiorentine: nel 1827 donò due rami alle gallerie, e nel 1830 il Morghen intagliò un rame con il suo autoritratto. Sempre tra le carte degli Uffizi, risultano notizie del suo successore Giuseppe Bardi. Cfr. Filza 1827 fasc. 7; Filza 1830 fasc. 19; Filza 1849 fasc. 56; Filza 1850 fasc. 50, ASGF, Firenze.

l’Accademia di Belle Arti di Firenze349, lavorò per la casa editrice di Vincenzo Batelli350, passata in seguito ad Achille Paris351 e infine presso lo stesso Bardi, prima di istituire una società di fotografia col ritrattista Sollazzi352.

Lo sguardo degli incisori e futuri fotografi fiorentini si era formato così sulla produzione incisoria concentrata sulla traduzione e diffusione a mezzo stampa dei tesori delle gallerie fiorentine, quei volumi che loro stessi avevano contribuito a realizzare. Scriveva Arbib: «Il tempo trascorso dal Brogi alle Belle Arti, non doveva andare perduto. Egli non era giunto ad incidere che pochi studi, e si contentò di fare il ritocco. […] Il professor Perfetti, che era stato il primo a riconoscere le sue qualità, gli affidava le stampe dei propri rami assai stimati, e soprattutto molto del lavoro riceveva da Giuseppe Bardi, figlio di quel Luigi che fu il più grande editore d’Italia in questo genere, e che possedeva la maggior parte dei rami celebrati del Morghen»353.

A Firenze, nella prima metà dell’Ottocento si era espressa questa tendenza della cultura europea alla diffusione per mezzo dell’incisione dei capolavori, proprio tra le pagine di un testo illustrato a stampa sui quadri degli Uffizi: «Per tutta Europa s’accese la voglia e nobilissima gara di pubblicare con intagli in rame o in acciaio od altra materia, le più preziose collezioni di pitture che ancora il mondo possiede […] perché il patrimonio delle arti non restasse in mano di pochi e tutti gli uomini civili dovunque si dimorino ne

349 Brogi frequentò l’Accademia tra il 1839 e il 1843: risulta infatti iscritto ai corsi di chimica, scultura e incisione, mentre riguardo agli Alinari la storiografia non riporta dati su una frequentazione accademica. Le notizie di Brogi allievo dell’Accademia sono rintracciabili nei registri degli studenti: Registro generale degli studenti dell’Accademia per gli anni scolastici 1839-1843, Reg. Gen. 3 in ASABA; Registro generale degli studenti dell’Accademia per gli anni scolastici 1843-1844 a 1846-1847, Reg. Gen. 4 in ASABA.

350 Vincenzo Batelli (Firenze 1786-1858). Editore fiorentino, si era formato come coloritore di acquerelli a Milano dal 1815, dove aveva aperto una tipografia con l’amico Ranieri Fanfani. Tornato a Firenze intorno al 1825, avviò un’altra tipografia e alcune imprese editoriali tra le quali la prima ristampa illustrata dei Promessi Sposi del Manzoni (1827). Tra i suoi collaboratori ci fu Ferdinando Ranalli che, oltre a ricoprire il ruolo di direttore letterario per un periodico, scrisse anche il testo che accompagnava i volumi che illustravano con stampe da incisioni i capolavori degli Uffizi (1841-1867). La fortuna cominciò a diminuire a causa di speculazioni avventate che lo ridussero in povertà. Suo successore fu Achille Paris. Cfr. La biografia di Vincenzo Batelli in DBI; Barbèra 1872; 1872; per un panorama generale sugli editori fiorentini si rimanda a Porciani 1981.

351 I dati biografici di Achille Paris non compaiono nei dizionari degli incisori consultati: Servolini 1955 e Bolaffi 1975, né è rammentato in Porciani 1981.

352 Sollazzi fu il primo socio di Brogi, il cui nome compare nell’ultima biografia sul fotografo in Maffioli/Bietoletti 2014, p. 333.

potessero utilmente partecipare, l’umana industria trovò il mezzo dell’intaglio che, ritraendo con la maggior imitazione possibile tutta l’opera dei pittori, scultori e architetti, fa che la stampa, non meno delle opere di letteratura, ne renda agevole la vista non che lo studio»354. Queste furono le parole di Ranalli in apertura del primo volume sulla Storia della Pittura attraverso la collezione degli Uffizi, edito nel 1841: un discorso che condensava le convinzioni di diffusione della conoscenza visiva dell’arte a scopo di un’universale condivisione dei tesori e dunque dei saperi, in uno spirito di democratizzazione della cultura a cui la fotografia seppe rispondere con lo strumento più efficace. D’altra parte, le raccolte di stampe di dipinti di collezioni straniere erano divenute di moda già a metà del Settecento ed alcune si erano diffuse anche a Firenze: nel 1753 era uscito il primo volume del Recueil d’estampes d’après les plus célèbres tableaux de la Galerie di Dresda, e un’altra opera sui principali capolavori uscì nel 1836355: sono proprio alcuni soggetti di questa galleria a comparire tra le riproduzioni di stampe degli Alinari, tra i quali, senza dubbio il più celebre, la Madonna Sistina di Raffaello e il dettaglio dei putti 356.

L’illustrazione delle gallerie fiorentine vide da un lato l’impegno del calcografo Luigi Bardi nel riaffermare l’incisione classica di alta scuola caratterizzata dal chiaroscuro, in un’opera in quattro volumi sulla Galleria di Palazzo Pitti che fu pubblicata tra il 1837 e il 1842357, mentre dall’altro la campagna incisoria sui dipinti degli Uffizi dell’editore

354 Cfr. Storia della pittura dal suo risorgimento in Italia dimostrata coi monumenti della Reale Galleria da Ferdinando Ranalli, Firenze, vol. 1, presso la Società Editrice coi tipi di Batelli (poi Achille Paris), 1841-1867, s.p.

355 <http://www.artivisive.sns.it/stampeditraduzione/schedaRaccolta.php?id=28> 10.04.2017.

356 Ben 11 soggetti del Cinque e Seicento sono tratti dalla galleria di Dresda: Agar e Ismaele del Barocci (http://www.artivisive.sns.it/stampeditraduzione/schedaStampa.php?id=1637), Carlo I di Van Dyck, Cristo della moneta di Tiziano, Cristo di Sebastiano del Piombo, Ecce Homo di Guido Reni, Autoritratto di Holbein, Maddalena di Correggio, Madonna di San Sisto di Raffaello e il dettaglio dei Putti, Madonna addolorata di Carlo Dolci, Madonna di San Sebastiano del Correggio, cfr. Alinari 1865, p. 31-39.

Sul Recueil delle stampe di Dresda cfr. Borroni Salvadori 1982, p. 56. Il catalogo dei dipinti della galleria indicava in corrispondenza dell’opera la possibilità di acquistarne una copia incisa delle opere designate presso il museo, cfr. Hübner 1868.

357 Nella dedica al granduca il Bardi parla di un vuoto finalmente colmato da questa grandiosa impresa che mostra «lo splendore italico» di cui Firenze era stata la principale rappresentante «lì fu insegnato come si ami e si onori la patria». Nonostante l’opera dia dedicata e realizzata sotto la protezione del granduca, da queste parole emerge un uovo sentimento che connota il patrimonio artistico non più soltanto come testimonianza materiale di oligarchici poteri ma specchio dell’identità della futura nazione. Cfr. Imperiale e reale Galleria Pitti 1837-1842.

Molini358, era stata in gran parte realizzata da Giovanni Paolo Lasinio con incisioni a tutto contorno, e lo stesso avvenne per l’opera a cura dell’editore Batelli che nuovamente si concentrò sul patrimonio degli Uffizi, pubblicando sei volumi corredati da un testo di Ferdinando Ranalli359. Quest’ultima impresa vide assoldati valenti artisti per la direzione degli intagli: Lorenzo Bartolini, Giuseppe Bezzuoli, Samuele Jesi, la compilazione dei volumi si prolungò fino al 1867 quando la casa editrice era ormai divenuta di proprietà di Achille Paris360.

Nel medesimo arco di tempo la scuola di incisione diretta dal professor Perfetti si dedicò a tradurre una selezione di opere dell’Accademia di Belle Arti che illustrava ampiamente in un volume le opere di Giotto e dei quattrocentisti fiorentini361.

Giacomo Brogi e i Fratelli Alinari furono incisori proprio nel giro di anni in cui si realizzarono queste pubblicazioni illustrate, allenando così l’occhio su quella selezione di opere diffuse nei volumi a stampa362.

Queste opere di editoria illustrata relative al patrimonio artistico dei musei fiorentini di metà Ottocento si pongono in continuità con una tradizione avviata già sul finire del Seicento, quando a Firenze prese piede l’interesse per l’incisione derivata363 grazie anche al ruolo della committenza del gran principe Ferdinando de’ Medici commissionò a Francesco Petrucci, poi affiancato da Carlo Sacconi, alcune traduzioni di dipinti appartenenti alla sua collezione364. Una prima raccolta fu ordinata dopo la morte del

358 L’imponente opera dell’editore Molini fu ampiamente descritta nelle pagine della «Biblioteca italiana», Cfr. Reale Galleria di Firenze illustrata 1817-1831 e Borea 2009, p. 592.

359 Il testo di Ranalli sulla storia della pittura è da considerarsi uno dei primi tentativi di sistematizzare l’argomento. Cfr. Ranalli 1841-1867.

360 Cfr. Ranalli 1841-1867.

361 Nel testo venivano presentate le stampe da incisioni con a fronte un testo dedicato all’artista e all’opera tradotta, tra gli autori che si prestarono per il corredo filologico ricordiamo: la prefazione di Vincenzo Marchese, E. Forster, Pietro Selvatico, von Rumohr. Dei sessanta soggetti incisi, dodici appartengono a Giotto e tredici a Beato Angelico. Cfr. Galleria dell’I. e Reale Accademia delle Belle Arti di Firenze 1845.

362 Riprenderemo il discorso in seguito ma anticipiamo che nei volumi dell’opera di Ranalli che illustrano i quadri della Galleria degli Uffizi, compaiono ben 270 soggetti di cui 36 saranno ripresi nella selezione di Alinari dei settanta dipinti originali apparsi in catalogo nel 1863.

363 Così la studiosa Evelina Borea definisce le incisioni tratte dai dipinti.

364 La campagna incisoria fu guidata dallo scultore Giovan Battista Foggini, con quattro incisori: Giovan Antonio Lorenzini di Bologna, Theodor Verkruys d’incerta origine fiamminga o tedesca, e i locali Cosimo

granduca (1713): un volume in folio dedicato a Cosimo III e intitolato Quadreria medicea, consisteva in 149 soggetti al momento più celebri fra quelli in Palazzo Pitti, di artisti del Cinque e Seicento365. Cosimo III si adoperò finché fu in vita (1723) per mantenere attivo il laboratorio incisorio granducale, continuando a stipendiare i tre incisori e inviando stampe di dipinti celebri in omaggio a principi e notabili di tutta Europa366.

I vecchi rami incisi per volere di Ferdinando ebbero nuova vita grazie alla ripubblicazione in un volume, voluta dal granduca Pietro Leopoldo nel 1778: fu la consacrazione dell’incisione derivata, alla vigilia dell’apertura al pubblico della Galleria degli Uffizi367. Successivamente, fu anche in seno all’Accademia delle arti e del disegno che furono promosse attività incisorie sui patrimoni fiorentini, grazie all’intervento di Maria Niccolò Gaburri e al mecenatismo del marchese Andra Gerini, i quali supplirono al momentaneo vuoto di committenza medicea negli anni Trenta368.

Tutto questo per porre l’accento sul fatto che lo sforzo condotto a Firenze nei confronti della riproduzione e diffusione delle opere celebri delle collezioni granducali, va di pari passo con la capillare moltiplicazione di progetti di questo tipo in tutta Europa, tanto che i vari paesi si trovano coinvolti in un continuo scambio di questi materiali: ad esempio arrivarono a Firenze le incisioni veneziane grazie a doni, scambi e reclamizzazioni di Anton Maria Zanetti al Gaburri e al Gerini; allo stesso Gaburri furono inviate da Pierre Jean Mariette stampe francesi e così via369.

Mogalli e Gian Domenico Picchianti. I primi tre lavorarono dal 1695, l’ultimo in un secondo momento, alla lavorazione di stampe che sarebbero circolate sfuse e in ordine sparso. Cfr. Borea 2009, p. 439; Chiarini 1975.

Il testo teorico di Filippo Baldinucci sul Cominciamento e progresso dell’arte d’intagliare in rame, del 1686, aveva in un certo senso legittimato la pratica dell’incisione derivata nel momento in cui «essa prendeva coscienza della sua autonomia, anche rispetto alla pittura», cfr. Baldinucci 1686 citato in Borroni Salvadori 1982, p. 9.

365 Borea 2009, p. 439.

366 Ibidem.

367 Per lo studio approfondito delle vicende incisorie del Settecento fiorentino si rimanda al già citato Borroni Salvadori 1982.

368 Il Gaburri volle intraprendere diverse imprese calcografiche, tra cui la ripresa del progetto di Anton Francesco Gori del Museum florentinum, per «fare intagliare tutte le cose belle della galleria», cfr. Borroni Salvadori 1982, p. 37.

Lo slancio con cui erano state commissionate le campagne incisorie nel corso del XVIII secolo era senza dubbio segnato dal desiderio dei granduchi collezionisti la ricchezza dei propri patrimoni artistici in funzione di un riconoscimento del valore non soltanto culturale ma anche politico delle proprie raccolte, ampliate nel corso del secolo per loro stesso intento collezionistico370.

A ciò si aggiunge la concezione di costruire una storia dell’arte illustrata, che aveva preso le mosse con Pierre Crozat e Pierre Jean Mariette e che in Toscana vide alcuni primi tentativi all’avanguardia: tra cui l’opera di Thomas Patch, l’Etruria Pittrice di Marco Listri (1791-1795), oppure Pisa illustrata nelle arti del disegno di Alessandro da Morrona (1781-1793)371.

Ciò che ci preme sottolineare è il fatto che al suo avvento nelle gallerie, la fotografia non fu strumentalizzata dai direttori dei musei così come lo era stata l’incisione da parte del gran principe Ferdinando e poi da Cosimo III durante il secolo precedente. Una volta stabilizzate le tecniche, imprecise sulla riproduzione cromatica, la fotografia avrebbe potuto soppiantare l’incisione in quel ruolo di medium privilegiato per la diffusione dei capolavori pittorici, fatto proprio dal principe (solo da lui), ma non fu così. Tranne alcune puntuali occasioni, alla fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, la fotografia entrò nei musei fiorentini non per volere dei direttori dei musei, nella prospettiva di sfruttarla per diffondere una certa immagine del museo, ma grazie all’iniziativa privata degli stabilimenti che condussero le proprie campagne in piena autonomia sul piano dei progetti iconografici. In altre parole, era venuta meno la committenza: a mio parere questo vuoto restituisce una delle motivazioni per cui inizialmente ai fotografi fu rifiutato o quantomeno ostacolato l’ingresso nelle raccolte museali, non solo per una questione tecnica e dunque di qualità dei risultati delle immagini, o etica, riferita alla sterile meccanicità della camera oscura, ma anche perché sul momento non vi era forse la necessità di acquisire uno strumento di riproduzione delle opere del museo seppur capace di accompagnare queste istituzioni nella modernità.

370 Il collezionismo del gran principe Ferdinando è stato definito policentrismo artistico, un collezionismo teso a modernizzare l’ambiente fiorentino con acquisti che talvolta non si rivelarono capolavori, data la smania di attribuzione ai grandi artisti, il caso più significativo quello dei ben 19 dipinti attribuiti a Tiziano, allora copiati e incisi, in verità oggi soltanto due sono confermati dalla critica: Adorazione dei pastori e la Venere di Urbino. Cfr. Borroni Salvadori 1982, pp. 21-22.

Nei fatti, era mutato il concetto di museo, ormai pubblico e il ruolo che i patrimoni artistici erano chiamati a svolgere nella società: il ruolo delle pinacoteche non consisteva più nello sfoggio di ricchezza e potere che si mostrava emblematico nei patrimoni d’arte ma puntava ad essere specchio dell’identità nazionale, segno della storia e della storia dell’arte: in una visione collettiva, la funzione conservativa e didattica dei musei prendeva il sopravvento rispetto all’esibizione dei poteri del singolo sovrano372.

Alla luce di questa digressione, si può considerare che, la centralità della tradizione incisoria, riguardo alla fotografia, si assesti alla metà del secolo su più ragioni: la naturale consequenzialità tra l’incisione e la fotografia quali mezzi di moltiplicazione delle immagini d’arte, la coerenza di sguardi tra le stampe e la prima fotografia data dagli stessi incisori divenuti fotografi373 e non ultimo, l’individuazione nelle stampe di un soggetto prediletto nell’iniziale commercio di fotografie di riproduzione.

Questa scelta a nostro avviso non è legata soltanto al fatto contingente della disponibilità di queste stampe nelle mani dei fotografi (sia nei laboratori in cui lavoravano, sia per il fatto che le collezionavano), ma dal fatto che queste immagini già godevano di un mercato secolare e come ricorda Arbib «Erano allora in gran voga le riproduzioni in stampa delle migliori opere d’arte»374. I Fratelli Alinari, riproducendo nel 1863 e 1865, innanzitutto stampe da incisioni dei capolavori della pittura, potevano ovviare all’iniziale reticenza del pubblico nei confronti della riproduzione fotografica dei dipinti dall’originale, immettendo nel mercato immagini già presenti ma su un supporto visivo ben più economico e maneggevole. Il divario dei prezzi delle fotografie rispetto alle incisioni, segnò una spinta decisiva nella loro contesa sul ruolo principale nella riproduzione delle immagini: se si pensa al caso della Calcografia Camerale di Roma che già nel 1865 interruppe la traduzione incisoria delle Fontane di Roma, non solo per la tarda età del realizzatore Antonio Acquaroni ma anche perché non incontravano più il

372 Lo scopo delle opere incisorie del Settecento era stato proprio quello di “riprodurre in incisione per far conoscere dipinti e disegni”, come recita il titolo del testo di Borroni Salvadori 1982.

373 Non solo i Fratelli Alinari e Giacomo Brogi abbandonarono l’attività calcografica per intraprendere la nuova professione, ma come ricorda Miraglia anche a Roma, diversi incisori cambiarono rotta dedicandosi alla fotografia, tra cui: Tommaso Cuccioni, Altobelli, Polenzani e Marianecci, cfr. Miraglia 1991, p. 223.

favore del pubblico: è questo un esempio di quello scivolamento del consumo dalle stampe alle fotografie, dove questione estetica ed economica rappresentano le due facce della stessa medaglia375.

Come si è detto in apertura, attraverso la riproduzione fotografica delle incisioni d’après, i fotografi potevano far circolare sul mercato oggetti di cui già erano in possesso, ovviando a quegli ostacoli tecnici e burocratici iniziali che rendevano difficoltosa la ripresa fotografica delle opere pittoriche originali: invece riguardo alle stampe da incisione, si trattava di soggetti artistici che già conoscevano poiché delineavano parte del gusto dell’epoca ma anche del loro gusto personale e che, cosa non da poco, erano già apprezzate e acquistate da artisti, conoscitori e amatori376. Oltre alle imprese incisorie degli editori fiorentini, bisogna tener presente che questi erano rivenditori autorizzati anche dei corpora di stampe di altri incisori377.

Si ritiene che fu anche per queste ragioni, oltre a quella già appurata della facilità di riprodurre soggetti monocromi, che i primi cataloghi fotografici dedicarono una parte