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S ANT ’ AGOSTINO E L ’A FRICA DEL IV SECOLO

Siamo di nuovo in Africa e siamo di nuovo a Cartagine, o comunque nei suoi dintorni. Sant’Agostino nacque a Tagaste nel 354, centro di cultura libica o protoberbera della Numidia proconsolare. La sua vita era stata assai lunga, tanto da renderlo spettatore e partecipe di una serie imponente di fatti relativi all’impero e alla Chiesa: dalla sconfitta di Adrianopoli (378), alla proclamazione da parte di Teodosio del cristianesimo come religione ufficiale (380) dal concilio di Costantinopoli (381) alla controversia sull’altare della Vittoria tra Simmaco e Ambrogio, dall’invasione vandalica della Gallia (406) all’impresa di Alarico contro Roma

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(410), dal costituirsi delle due parti dell’impero sotto Onorio e Arcadio all’esclusione dei pagani di culto alla Chiesa (415) fino all’invasione da parte dei barbari ariani dell’Africa del Nord. Agostino morì il 28 agosto del 430, l’assedio della sua città era iniziato alla fine di maggio o all’inizio di giugno del medesimo anno e durerà fino a luglio del 431. Nel 429 Genserico, a capo di 80.000 persone aveva toccato il territorio dell’Africa, traversando facilmente lo stretto di mare tra la Spagna e l’Africa. Un anno dopo tre sole città vescovili della più ricca provincia d’occidente rimanevano superstiti tra le innumerevoli chiese: Cartagine, Cirta e Ippona147.

La figura di Agostino è importante come lo sono stati tutti gli altri autori africani finora analizzati, dato che vissero direttamente inseriti nel contesto africano e furono certamente testimoni diretti di una cultura che per molti aspetti è andata perduta. Agostino nacque cittadino romano ed ebbe come lingua materna il latino, ma molto probabilmente doveva essere di razza berbera, come berbero doveva essere il nome di sua madre Monica, forse legato alla divinità libica Mon venerata nel villaggio di Thibilis. A Tagaste si distinguevano la schiera del popolo relegato nella campagne e una minoranza di funzionari municipali legati alle poche famiglie ricche.

Come spesso accadeva, il popolo confinato nelle campagne era estraneo ai progressi e al cambiamento. Poco si rendeva conto dell’intenso movimento di romanizzazione dell’Africa e manteneva vivo il proprio spirito di autonomia e particolarismo, parlava una lingua incomprensibile per gli stranieri e di ideologia quasi interamente donatista, poco badava alle differenti correnti religiosi e qualora si fosse convertito al cristianesimo, ciò lo era solo di facciata poiché persisteva un fondo di paganesimo di matrice fenicio-punica.

Quando Agostino giunse a Cartagine per i suoi studi di specializzazione (371-374), i romani si erano installati ormai da cinque secoli, ma per le strade, come testimonia egli stesso, risuonano ancora voci in lingua punica e invocazioni a divinità pagane.

Ad ogni modo, gli elementi che rivelano la cultura africana o punica nell’opera di Agostino non sono molti e dalla lettera 66, 2 (CSEL 34, 2, 236) ricaviamo da una parte che il punico era parlato dai contadini e dai donatisti, dall’altra che Agostino invece non ne era in grado, tanto che in detta lettera proponeva al vescovo donatista Crispino di Guelma, con il quale si trovava in una relazione di conflitto, di ricorrere a un interprete per poter parlare di fronte agli abitanti di Mappalia.

147 Siniscalco P., Agostino, l’Africa e la Sardegna, in L’Africa romana, Atti del VI convegno di studio di Sassari,

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Agostino della religione punica vissuta dai Donatisti non sa molte cose, conosce il pantheon, Saturno, Baal Samen, Caelestis, Ercole – Melqart, Liber, del culto i sacrifici di Saturno e il refrigerium. Come abbiamo potuto constatare più volte nel corso di questa esposizione, Baal Hammon era stato accettato dai romani nelle spoglie di Saturnus. In particolare presso i Donatisti si era sviluppato il suo culto e molti luoghi in Numidia, che prima erano attestati come santuari in onore del dio, divennero più tardi centri donatisti148.

Agostino menziona il sacrificio dei bambini a Saturno nel VII libro del suo De civitate Dei, rispettivamente nei capitoli XIX e XXVI. L’opera nasce nel contesto storico – politico, di cui parlavo anteriormente, durante il lento decadere dell’impero romano d’Occidente dovuto alle continue invasioni barbariche, nello specifico dei Goti di Alarico. L’opera lo impegnerà dal 413 fino al 426. Essa appare come il primo tentativo di costruire una visione organica della storia dal punto di vista cristiano, principalmente per controbattere alle accuse della società pagana contro i cristiani. Nel corso di quest’opera Agostino afferma che la vita umana è dominata dall’alternativa fondamentale tra il vivere secondo la carne e il vivere secondo lo spirito. La vita umana si svolge e si divide dunque in due città: la Civitas terrena, la città terrena, del diavolo, fondata da Caino e la Civitas Dei, città dello spirito fondata da Abele149. Il passo di nostro interesse rappresenta uno dei tentativi di Agostino per controbattere la religione pagana e lo fa riprendendo due grandi teologie romane, quella del pontefice Scevola, console nel 95 a.C. e quella di Varrone (116 – 27 a.C.). Quest’ultimo è l’autore delle Antichità romane, un’opera perduta ma che Agostino aveva sotto gli occhi. Varrone fu un grande teologo romano, che tentò di dare forza e sostanza alla religione romana. Agostino confuta le tre teologie (mitica, naturale e civile) che Varrone aveva attinto da Scevola. Di queste tre categorie fa una lunga critica, indugiando sulle tre categorie di dei, quella dei poeti, quelli dei filosofi, quelli dei capi di stato e delle città. Quest’ultimi sarebbero gli unici validi, ma sempre di demoni si tratterebbe150.

Il primo riferimento di Agostino nel capitolo XIX ai sacrifici di bambini in onore di Saturno non è diretto, ma citato attraverso Varrone. Il contesto è quello del “simbolismo agricolo – naturistico”151

che riprende le vicende mitiche teogoniche di Saturno. Agostino in un’analisi particolarmente intricata, confuta quanto l’autore romano afferma in relazione a Saturno che,

148 Vattioni F., Sant’Agostino e la civiltà punica, in Augustinianum, Anno VIII, fasc. 3, dicembre 1968, p. 445 e

ss.

149 Sain Augustin, La cité de Dieu, oeuvres II, Édition publiée sous la direction de Lucien Jerphagon, Preface, p.

IX e ss.

150 Ries J., L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro, p. 417. 151

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in qualità di inventore dell’agricoltura, divora ciò che da lui nasce perché le sementi ritornano nel luogo da cui esse provengono:

Saturnus ergo dicit debuit ipsa terra, non semina; ipsa enim quodam modo devorat quae genuerit, cum ex ea nata semina in eam rursus recipienda redierint. […] An falcem sceptro perdito accepit, ut, qui primis temporibus rex fuerat otiosus, filio regnante fieret operarius laboriosus? Deinde ideo dicit a quibusdam pueros ei solitos immolari, sicut a Poenis, et a quibusdam etiam maiores, sicut a Gallis quia omnium seminum optimum est genus humanum.

Egli è dunque la terra, dato che essa in qualche modo divora ciò che ha prodotto. Tuttavia a Saturno fu sottratta una sola semente, Jupiter e gli fu data al suo posto una zolla di terra. L’esame del passo prosegue con un pizzico di ironia e sdegno, l’iconografia del dio Saturno che lo vuole dotato di una falce, sarebbe tale perché egli sarebbe stato privato dello scettro e che sotto il regno del figlio, egli divenne da re pigro, un operaio laborioso.

Stando alle parole di Agostino, Varrone avrebbe poi proseguito dicendo che “certi popoli” come i Cartaginesi immolavano i bambini a Saturno e i Galli, gli anziani, perché di tutte le sementi, la razza migliore è quella umana. Di fronte a tali parole non poteva mancare di certo lo sdegno dell’autore cristiano, che tuttavia si limita a una sola espressione interrogativa, chiedendosi se effettivamente valga la pena soffermarsi su cotanta barbarie. Possiamo dunque affermare che nonostante le parole forti scritte da Varrone, Agostino non mostri un particolare accanimento né si soffermi su un tema che tanto aveva percosso la sua terra. E infatti, l’analisi sposta il proprio mirino e colpisce un altro aspetto che sembra premere più fortemente gli intenti di Agostino, per cui tutto quanto viene detto riguardo a Saturno sono favole, come per esempio il fatto che egli abbia castrato il padre Cielo e che il pantheon pagano abbia delle contraddizioni intrinseche, se Saturno è figlio del Cielo, allora è figlio di Jupiter, dato che molte volte questo dio viene identificato con il cielo e tornando a Saturno, di cui Varrone afferma molte cose tutte connesse con la semente, non è comprensibile perché abbia bisogno di essere affiancato da altri dei come Liber o Libera.

Il capitolo XXVI presenta un altro contesto, dato che la polemica di Agostino questa volta riguarda il culto della Grande Madre e accusa Varrone di non fare riferimento alcuno a questa vergognosa venerazione da parte dei suoi seguaci. È interessante che l’autore ci dica che ancora ai suoi tempi i suoi sacerdoti effeminati sfilavano in processione per le strade e le piazze di Cartagine, con i visi dipinti di bianco, i capelli profumati e un andamento molle.

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La religione della Grande Madre era uno dei tanti culti orientali che approdarono in tarda epoca pagana nell’impero romano. Le frenesie estatiche, considerate come ispirazione divina, le mutilazioni, la teoria di una rinascita e un’assoluzione dalle colpe attraverso lo spargimento di sangue da una parte spaventavano e sdegnavano sia il tradizionalismo pagano sia la nascente religione cristiana, dall’altra però attiravano quelle frange della società in cui l’istinto selvaggio era ancora preponderante. La Grande Madre non si preoccupa di nascondere la propria bruttezza e la propria crudeltà tanto da superare Janus e Jupiter, per gli stupri così numerosi152:

[…] ista tot mollibus professis et publicis et inquinavit terram et caelo fecit iniuram. Saturnum fortasse possemus huic in isto genere turpissimae crudelitatis sive conferre sive praeferre, qui patrem castrasse perhibetur. […] Devoravit ille filios, ut poetae ferunt, et physici ex hoc interpretantur quod volunt; […] sed quod ei Poeni suos filios sacrificati sunt, non recepere Romani.

L’unico dio che gli può essere paragonato (o preferito) è Saturno, che mutilò il proprio padre, ma il suo culto prevedeva la mutilazione per mano altrui e non con le proprie mani. Ancora una volta l’accenno al rito dei Cartaginesi di sacrificare i propri figli è rapido e fugace; certo, ne ammette l’esistenza e dice che i romani mai accettarono questa usanza (confermando peraltro quanto racconta Tertulliano), ma per la seconda volta non esprime nessun tipo di giudizio negativo. Al contrario e stranamente, sembra giudicare più riprovevole il culto della dea e non si capacita del perché i romani continuino ad accettare tale nefandezza153.

152 Frazer J.G., Il ramo d’oro, 2012, p. 623.

153 Vorrei concludere con una piccola riflessione senza ovviamente giungere a conclusioni certe. In tutte e due

passi analizzati Agostino sorvola molto rapidamente la questione dei sacrifici che appartenevano alla sua terra. Egli, come abbiamo detto, era africano come lo era per esempio Tertulliano, ma a differenza del suo predecessore pare abbia una sorta di pudore nel commentare negativamente tali sacrifici. Per il primo passo, abbiamo visto che la questione principale era contestare la mitologia sostenuta e rielaborata da Varrone; il secondo invece, che avrebbe dovuto invece offrire un’occasione per dilungarsi sul tema, vede invece penalizzato il culto della Grande Madre “ a sostegno” del culto di Saturno. Si tratterebbe dunque di nazionalismo o vergogna?

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