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Il Tophet attraverso le testimonianze dei Padri della Chiesa

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Academic year: 2021

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I

NDICE

Pagina 2: Introduzione

Pagina 5: Giustino Martire: il primo “tu quoque” Pagina 10: Zenobio: curiosità proverbiali

Pagina 16: Vicende africane: Minucio Felice, Tertulliano e la passio Perpetuae Pagina 32: Origene : Contra Celsum

Pagina 35: Porfirio: De Abstinentia

Pagina 39: Lattanzio: Saturno laziale e Saturno africano

Pagina 43: Atanasio di Alessandria Eusebio di Cesarea e San Girolamo

Pagina 50: Firmico Materno, Dionisio e il Diavolo

Pagina 54: Sant’agostino e l’Africa del IV secolo

Pagina 59: IV – V secolo: Teodoreto di Cirro, Cirillo d’Alessandria e Draconzio

Pagina 67: Orosio: Le storie contro i pagani

Pagina 70: Isidoro di Siviglia: Etimologie

Pagina 73: Prudenzio: Contro Simmaco

Pagina 74: Michele Apostolio

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I

NTRODUZIONE

A memoria di bambina, l’unica nozione che le scuole elementari ci avevano trasmesso era la tradizione secondo la quale i Fenici fossero abili naviganti, audaci marinai che per primi avevano osato varcare le Colonne d’Ercole. E dato che nel mare, nella sua acqua che scorre, non è possibile tracciare confini o limiti, questo popolo è rimasto nelle nostre menti circondato da una nube di indeterminatezza che non li associava a nessuna terra d’origine. In effetti i loro limiti geografici legati a una terra chiamata Fenicia non esistono.

Erodoto (VII, 89) affermava che essi provenissero dal Golfo Persico o Mare Eritreo, a lungo le sole testimonianze disponibili erano quelle degli autori classici e dell’Antico Testamento. Le prime testimonianze dirette di questo popolo provengono dalle scoperte archeologiche in Oriente, sulla costa siro – palestinese e in Egitto con il rinvenimento di importanti testi epigrafici a Biblo e Sidone.

Nelle iscrizioni fenicie non compare mai un termine che significhi “Fenicio”, ma, al contrario, essi si identificavano con diversi gruppi cittadini come Tiri, Sidoni, Gibliti etc.

Dunque il paese dei Fenici è costituito da una serie di città – stato di varie dimensioni situate sulla costa nell’attuale Libano e i centri principali erano Arwad, Amrit, Sumura, Tripoli, Biblo, Beirut, Sidone, Sarepta e Tiro.

Il XI secolo segna probabilmente l’era di una progressiva espansione fenicia sia in Oriente che nel Mediterraneo da ricondurre probabilmente alla città di Sidone. Tale supremazia sarà interrotta alla fine del XI e durante il X secolo dall’affermazione della rivale Tiro che durerà per vari secoli e rappresenterà il periodo di massima espansione fenicia nel Mediterraneo che culminerà simbolicamente con la fondazione di Cartagine nell’814 secondo le fonti letterarie. Se la nazionalità dei Fenici corrispondeva a entità cittadine, lo stesso valeva per la religione dato che in realtà si dovrebbe parlare di religione tiria, sidonia, gublita. In effetti, il pantheon di ogni città presenta una sua specificità con un dio o una dea poliade, generalmente associato/a a un partner.

La divinità protagonista di questa ricerca è Baal Hammon, dio della colonia fenicia di Cartagine, cui venivano sacrificati esseri umani.

Il lavoro da me svolto è servito certamente a colmare la personale lacuna riguardo a un popolo per alcuni aspetti ancora misterioso, ad approfondire il profilo di questo dio fenicio e a

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illustrarne la memoria che di lui conservavano i Padri della Chiesa attraverso la loro critica nei confronti del tophet. È bene segnalare che egli, secondo l’ interpretatio greca e latina, viene attestato in maniera unanime dalla fonti classiche con i nomi di Kronos e Saturno. Tale attestazione vige e permane nelle fonti da me analizzate. Esse, come ho accennato, appartengono a un periodo posteriore e alla ricca produzione apologetica dei Padri della Chiesa.

Il lasso di tempo preso in considerazione copre più o meno tredici secoli di storia, dal II d. C. al umanesimo bizantino del XV, gli autori studiati appartengono a diverse epoche storiche e a differenti luoghi geografici, ma il comune denominatore che caratterizza tutta quanta la loro produzione è la difesa del nascente cristianesimo.

Dunque, la testimonianza relativa ai sacrifici umani in onore di Saturno/Kronos assume ora contorni nuovi e viene inserita in un contesto nel quale essa risulta fortemente funzionale allo scopo di dimostrare la malvagità e la inconsistenza della religione pagana e dei suoi dei. Se, da una parte, l’intento era comune alla maggior parte degli autori (salvo che per Zenobio e Michele Apostolio le cui opere avevano carattere meramente compilativo), dall’altra ho cercato di ricostruire la particolarità di cui ciascuno era portatore.

Sicuramente il primo elemento forte di distinzione è l’epoca storica in cui ognuno di essi visse. Essa certamente gioca un ruolo importante nel momento in cui deve rendere più credibili ai nostri occhi le testimonianze e quanto più vicino si colloca cronologicamente all’epoca dei fatti avvenuti, tanto più assume rilevanza storica.

Credo che il secondo fattore importante sia invece il contesto geografico.

Autori come Tertulliano, Minucio Felice (anche se in misura minore) Draconzio e Agostino o gli eventi raccontati nella Passione di Perpetua e Felicita rappresentato per noi un valido aiuto per dubitare criticamente sull’effettiva durata di tali sacrifici e per delineare maggiormente le caratteristiche di un rito che ha ancora molto da svelarci.

Il terzo e ultimo elemento è costituito invece da tutte le altre possibili varianti quali l’opera, l’autore e le fonti cui quest’ultimo sceglie di attingere.

A un livello superficiale, si potrebbe osservare che a partire dal IV secolo le opere analizzate appiattiscono un poco i toni in un riciclo di fonti, a volte molto ripetitivo, in cui gli autori poco si soffermano sulla questione e nel quale essi, in modo totalmente acritico e passivo, accettano quanto la tradizione trasmetteva.

Vorrei infine fare alcune osservazioni e dichiarazioni di metodo che caratterizzano questo lavoro; l’approccio alle fonti è stato del tutto scevro di conclusioni e opinioni, dovuto

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soprattutto alla mancanza di una forte e solida conoscenza archeologica – epigrafica. Mi sono dunque limitata alla pura lettura del testo, che a volte ha assunto connotati filologici. Lo schema ricorrente adottato prevede prima di tutto la collocazione dell’autore nella sua epoca storica e nella sua area geografica, la presentazione dell’opera e infine la discussione relativa al passo di nostro interesse sul sacrificio dei bambini nella religione punica.

È stato un percorso affascinante e spunto di numerose riflessioni dovute soprattutto al fatto che le testimonianze costituiscono lo specchio e il riflesso di una realtà che era in rapido cambiamento, di cui ancora oggi possiamo vederne gli effetti. Con cambiamento intendo quel processo radicale con cui la religione cristiana monoteista scosse e rielaborò i concetti relativi di bene/male e sacro appartenenti al mondo pagano ormai sepolto, rendendoli invece assoluti. Per cui il sacrificio dei bambini, che addirittura rappresentava un momento di gioia per i genitori che ne facevano dono al dio, perse il proprio carattere religioso e è diventato, ai nostri occhi, una pratica crudele e barbara.

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5

G

IUSTINO

M

ARTIRE

:

IL PRIMO

TU QUOQUE

Giustino1 è passato alla storia con due appellativi, filosofo e martire: in riferimento al primo gli studi non sono molto vasti2, ma per il nostro lavoro basterà dire che, come egli stesso afferma nel Dialogo con Trifone3, ricevette un’educazione pagana greca e che giunse alla conversione al Cristianesimo solo dopo un lungo e travagliato percorso spirituale e filosofico, che lo portò infine ad entrare in contatto con il platonismo. Per quanto riguarda il secondo termine invece, il discorso diviene più ampio e articolato; e con il chiaro intento di delineare un quadro che si basi e che risponda il più possibile al criterio della completezza, credo sia necessario innanzitutto inserire la parola nel contesto storico-geografico che la caratterizza. Il periodo storico in cui Giustino vive e scrive è sicuramente uno dei periodi più floridi dell’impero romano poiché la prima delle due dinastie imperiali sotto la quale operò fu quella degli Antonini (i cosiddetti “secoli d’oro”) che assicurò all’impero pace duratura, esaltazione e promozione dell’arte, della cultura e di uno stato sociale; in particolare, il regno di Antonino Pio (138-161 d.C.) manifestò grande tolleranza verso la religione cristiana ed è peraltro a lui che Giustino indirizza la Prima Apologia. Morì, martire, sotto il regno di Marco Aurelio (161-180 d.C), l’imperatore filosofo che, forte dei principi della filosofia stoica, mostrò grandi virtù, ma non un particolare atteggiamento bendisposto verso la religione nascente che man mano conquistava gli animi. Eusebio, nella sua Storia Ecclesiastica, introducendo il resoconto del martirio di Policarpo, dice che nei regni congiunti di Marco Aurelio e Lucio Vero si verificarono persecuzioni durissime; esse furono particolarmente aspre tra il 164-168 (Storia Ecclesiastica, IV, 15, 1) e il 176-178, e si portarono appresso il peso dell’opinione pubblica. Numerosi furono gli intellettuali cristiani che scrissero opere per difendersi e per dimostrare che la fede cristiana era autentica, soprattutto perché altrettanto numerosi erano i nemici del cristianesimo che aizzarono il popolo contro i sostenitori della nuova religione. Per fare alcuni

1 Ciò che sappiamo della vita di Giustino lo apprendiamo dai suoi scritti e da poche informazioni contenute in

altre fonti: queste sono Eusebio di Cesarea, che nella sua Historia Ecclesiastica, oltre a fornire qualche dato biografico del martire, riporta l’elenco dei titoli degli scritti di Giustino; Taziano (Ad Graecos, XIX), che fu suo discepolo, nonché fonte assai autorevole e infine gli Atti del martirio di S.Giustino e compagni, il resoconto del processo e della successiva condanna a morte. All’inizio della Prima Apologia Giustino dichiara di essere nato a Sichem (o Sicar) in Samaria, di essere figlio di Prisco (nome latino) e nipote di Baccheio (nome greco). In base a queste informazioni, potremmo dedurre che egli fosse figlio di coloni giunti in Palestina dopo la distruzione di Gerusalemme, nel 70 d.C., da parte dell’imperatore Tito.GIRGENTI G., Giustino Martire, il primo cristiano platonico, Milano 1995.

2 G

IRGENTI G., op. cit., pp. 19-20.

3

Scritto verso la metà del II secolo d.C., vede come tema predominante il confronto con il giudaismo, con il quale i cristiani avevano in comune l'Antico Testamento, un terreno utile per un dialogo. Si tratta di un dibattito che si svolge ad Efeso nell'arco di due giorni e vede protagonisti Giustino e Trifone, nel quale è stata individuata da alcuni storici la personalità di un rabbino realmente esistito. Lo scopo di questo dialogo è mostrare la verità del cristianesimo, rispondendo alle principali obiezioni mosse dagli ambienti giudaici.

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nomi tra i più illustri Celso di Cesarea in Palestina, Autiloco in Antioca e Luciano di Samosata che scriveva per la comunità greca intera4. Le persecuzioni furono dunque l’occasione per la produzione di una vasta letteratura apologetica cristiana, che contribuì decisamente a creare l’identità culturale dei cristiani. Sebbene l’impero romano fosse generalmente tollerante con le religioni straniere, le accuse che a questa religione rivolgeva erano pesanti e assecondavano le voci calunniose. I cristiani infatti venivano accusati di ateismo e di lesa maestà, poiché rifiutavano il culto dell’imperatore, ma ciò che più destava sospetto era il loro modus vivendi, si vociferava che il banchetto eucaristico altro non fosse che una cena a base di carne umana, l’amore fraterno orge incestuose, che praticassero stregoneria e venerassero una testa d’asino, tutto in totale segretezza. Vi era però un’altra crisi che la chiesa dovette affrontare e che andava a ledere la nascente organizzazione episcopale e lo sviluppo istituzionale. Si diffusero infatti all’interno della chiesa eresie, primo fra tutte il montanismo, un movimento profetico che si diffuse soprattutto in Asia e in Frigia.

In Asia, le comunità cristiane erano diventate parte dello scenario in molte città, esse avevano il loro “Padre” o il loro vescovo, così come lo avevano le comunità ebree e si occupavano liberamente dei propri affari. Dopo un periodo di pace molto prolungato, si cominciò a notare la tendenza ad eliminare le procedure predisposte da Traiano e Adriano e a ricercare i Cristiani per punizioni collettive. Le più significative furono a Smirne nel 166-167, Lione nel 177 e in Palestina nel 178 sotto l’esplicita autorità di Celso . In base alla testimonianza che abbiamo di Paolo Orosio sappiamo che la persecuzione contro i cristiani incitata da Marco Aurelio ebbe inizio con la guerra Partica, iniziata nel 161 d.C..

Giustino stesso fu vittima di accuse e denunciato da un nemico personale, il filosofo cinico Crescente, un anti-cristiano che aveva criticato nella sua Seconda Apologia 5. Egli fu processato e condannato a morte dal Prefetto della città, stoico, Q. Giunio Rustico, un uomo ormai anziano ma che aveva molta influenza su Marco Aurelio6

La Seconda Apologia, che più ci interessa ai fini del nostro lavoro, fu composta probabilmente intorno al 165 d.C.7 e indirizzata al Senato Romano.

4

FREND W.H.C., Martyrdom and Persecution in the Early Church, a Study of a Conflict from the Maccabees to Donatus, Oxford 1965, p. 268.

5 Giustino, Seconda Apologia, III, 1. 6 F

REND W.H.C., op. cit., p.253.

7 P

EVERELLI B., Istoria delle persecuzioni fatte alla Chiesa dagli infedeli nei primi quattro secoli, 1763, p.217, nota (a): “si legge nella Cronaca Alessandrina che porse a’ Romani Principi il secondo suo Volume in difesa della Cristiana Religione, essendo consoli M. Gavio Orfito e L. Arrio Pudente, cioè l’anno dell’Era comune CLXV, e che poco tempo dopo fu di Martirio coronato.”

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7

La vicenda che Giustino espose al senato si verificò sotto la Prefettura di Urbico8, e molto probabilmente sentì la necessità di farlo a seguito di una situazione che era diventata insostenibile, dato che dichiara di “essere stato costretto” da ciò che stava accadendo.

Viveva, a Roma, una donna che grazie agli insegnamenti di Gesù, smise di condurre una vita dissoluta. Pretendeva che anche il marito, un uomo non meno colpevole di nefandezze, cambiasse il proprio modo di vivere ed egli, invece di essere felice del pentimento della moglie, la denunciò all’imperatore. La donna, a sua volta, ottenne da parte di costui il permesso, prima, di dedicarsi alle proprie questioni e, solo in un secondo momento, di difendersi dall’accusa di essere cristiana. Dunque, non potendo attaccare direttamente la moglie, l’uomo si scagliò contro un certo Tolomeo, maestro delle dottrine cristiane, che Urbico condannò a morte.

Uno degli aspetti che il martire doveva spiegare era il motivo per cui i cristiani accettassero così coraggiosamente accuse, arresti, interrogatori, torture e condanne a morte, senza negare la loro fede. Nel corso di un discorso che alterna confutazione o dimostrazione di una tesi o difesa da un’ accusa, esposizione della dottrina cristiana che molto si mescola con i principi della filosofia neoplatonica, Giustino, a più riprese, sottolinea questo aspetto come prova tangibile del fatto che i cristiani non possono in alcun modo condurre un tipo di vita lasciva e corrotta9.

Nel passo successivo, Giustino mette in pratica ciò che era comune nella prima letteratura cristiana, ossia rispondere alle accuse che venivano mosse ai cristiani, apostrofando gli accusatori con le stesse parole infamanti. Si tratta di un tu quoque che non prevedeva un intercambio di idee e che avrebbe costituito un modello per i successivi apologisti.10 La

8 P

EVERELLI B., op.cit., pp. 220-221, nota (a) : “quell’Urbico […] è quel Q. Lollio Urbico, che già Legato dell’Imperatore domò i Britanni e che poscia sotto Antonino Pio ebbe la Prefettura della Città, come dice Apulejo nella sua Apologia e come parla un’antica iscrizione appresso il Grutero p. XXXVIII :

APOLLINI Q. LOLLIUS URBICUS

PRAEF. URBIS. Aldus legit PRAET.”

Il prefetto Q. Lollio Urbico viene citato anche nell’Historia Augusta, Vita di Antonino Pio, V, 4, nella quale si dice : “Per legatos suos plurima bella gessit. nam et Brittanos per Lollium Urbicum vicit legatum alio muro cespiticio summotis barbaris ducto […] ”.

9 Seconda Apologia XII, 1: “[…]sentendo che i cristiani erano accusati ma vedendoli impavidi dinanzi alla morte

ed a tutti i tormenti ritenuti terribili, mi convincevo che era impossibile che essi vivessero nel vizio e nella concupiscenza.”

9 R

IVES J., “ Human Sacrifice among Pagans and Christians”, Journal of Roman Studies 85, London, p. 74: “In terms of rethorical strategy, what Justin did in this passage was construct a retorsion argument, in which he refuted the charge by turning it back (retorquere) against his accuser.”

9 G

RANT R.M., “Charges of ‘Immorality’ against various religious groups in antiquity”, in Studies in Gnosticism and Hellenistic religions, Leiden, p.170.

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controaccusa puntava sulla gravità dei sacrifici umani compiuti dai pagani: come vedremo in seguito con gli altri autori, divenne un topos calcare l’accusa su questo aspetto e proprio Giustino inaugura questa tendenza (Seconda Apologia, XII, 3-6):

3 Ἤδη καὶ τοῦτο ἐνήργησαν οἱ φαῦλοι δαίμονες διά τινων πονηρῶν ἀνθρώπων πραχθῆναι. 4 Φονεύοντες γὰρ αὐτοί τινας ἐπὶ συκοφαντίᾳ τῇ εἰς ἡμᾶς καὶ εἰς βασάνους εἵλκυσαν οἰκέτας τῶν ἡμετέρων ἢ παῖδας ἢ γύναια, καὶ δι’αἰκισμῶν φοβερῶν ἐξαναγκάζουσι κατειπεῖν ταῦτα τά μυθολογούμενα, ἃ αὐτοὶ φανερῶς πράτττουσιν ὧν ἐπειδὴ οὐδὲν πρόσεστιν ἡμῖν, οὐ φροντίζομεν, θεὸν τὸν ἀγέννητον καὶ ἄῤῥητον μάρτυρα ἔχοντες τῶν τε λογισμῶν καὶ τῶν πράξεων. 5 Τίνος γὰρ χάριν οὐχὶ καὶ ταῦτα δημοσίᾳ ὡμολογοῦμεν ἀγαθὰ καὶ φιλοσοφίαν θείαν αὐτὰ ἀπεδείκνυμεν, φάσκοντες Κρόνου μὲν μυστήρια τελεῖν ἐν τῷ ἀνδροφονεῖν καὶ ἐν τῷ αἵματος ἐμπίπλασθαι, ὡς λέγεται, τὰ ἴσα τῶ παρ’ὑμῖν τιμωμένῳ εἰδώλῳ, ᾧ οὐ μόνον ἀλόγων ζῴων αἵματα προσραίνεται ἀλλὰ καὶ ἀνθρώπεια, διὰ τοῦ παρ’ὑμῖν ἐπισημοτάτου καὶ εὐγενεστάτου ἀνδρὸς τὴν πρόσχυσιν τοῦ τῶν φονευθέντων αἵματος ποιούμενοι, Διὸς δὲ καὶ τῶν ἄλλων θεῶν μιμηταὶ γενόμενοι ἐν τῷ ἀνδρο βατεῖν καὶ γυναιξὶν ἀδεῶς μίγνυσθαι, Ἐπικούρου μὲν καὶ τὰ τῶν ποιητῶν συγγράμματα ἀπολογίαν φέροντες. 6 Ἐπειδὴ δὲ ταῦτα τὰ μαθήματα καὶ τοὺς ταῦτα πράξαντας καὶ μιμουμένους φεύγειν πείθομεν, ὡς καὶ νῦν διὰ τῶνδε τῶν λόγων ἠγωνίσμεθα, ποικίλως πολεμούμεθα· ἀλλ’οὐ φροντίζομεν, ἐπεὶ θεὸν τῶν πάντων ἐπόπτην δίκαιον οἴδαμεν.

Procediamo prendendo subito in considerazione il quinto paragrafo: il passo offre diversi spunti di riflessione che articolerei in due snodi. Il primo ha come nucleo centrale il riferimento all’omicidio connesso con i misteri di Kronos, il secondo invece lo spargimento di sangue inserito in un culto simile a quello che essi, i pagani, accordano “all’idolo”.

Nel condurre la mia analisi partirei dall’osservazione del testo e in particolare dalla parola “omicidio” (ἐν τῷ ἀνδροφονεῖν): l’etimologia è molto chiara, non si parla di infanticidio né vi è alcun riferimento a bambini e dato che probabilmente la reazione di Giustino sarebbe stata molto più forte di fronte a un atto così violento per la sensibilità cristiana, soprattutto in questo contesto polemico, credo che sia possibile escludere (anche se non con estrema sicurezza) che Giustino si riferisse ai sacrifici dei bambini in onore di Kronos11. Ad ogni modo, poiché a fronte di un testo poco chiaro mai si deve procedere per certezze, si potrebbero elaborare due ipotesi: o l’autore ha omesso volontariamente una precisazione

11 Anche Rives mostra dei dubbi sull’effettivo riferimento di Giustino al sacrificio dei bambini a Cartagine,

soprattutto prendendo in considerazione il fatto che non sempre l’apologista appare come “il più lucido degli scrittori”; RIVES J., op. cit., p. 74.

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riguardante le pratiche del rito e pur riferendosi in realtà al sacrificio dei bambini a Cartagine, non ha voluto esprimere particolare sdegno o semplicemente si riferisce qui a Kronos come dio dei sacrifici umani. Tuttavia, detto questo, dobbiamo interrogarci a quali sacrifici, o meglio, a quali misteri in onore di Kronos che prevedevano un omicidio, si riferisse.

Nell’espressione “misteri di Kronos” riecheggia un passo di Filone di Biblio12

nel quale si fa genericamente riferimento all’uso degli antichi di sgozzare il più prezioso dei propri figli in riti segreti (μυστικῶς) e il significato che noi captiamo dal termine è appunto quello di segretezza di un rituale condiviso dai soli adepti del culto.

Se scegliamo l’ipotesi che per Giustino il nome Kronos venisse automaticamente associato alla figura di un dio a cui si dedicavano sacrifici umani crudeli e sanguinolenti e se vogliamo escludere (ripeto, anche se non con estrema sicurezza) l’infanticidio, dobbiamo richiamare una lunghissima tradizione arcaica e classica che muovendo i propri passi dalla mitologia13 vede infine la testimonianza di autori che ci informano della pratica di sacrifici umani in onore di questo dio nel panorama greco, in particolare nell’isola di Creta dove i cureti sacrificavano in onore di Kronos14, in quello italiano, più precisamente in Sardegna15dove i figli sacrificavano i propri genitori anziani, e, in base a quanto riportano Ennio (Euhemerus 9, 5) e Lattanzio (Divinae Institutiones 1, 13, 2) a proposito di Evemero, pare che egli avesse scritto nella sua opera andata perduta che Kronos e Rea e la gente che viveva sotto il loro regno si alimentasse di carne umana.16

E ancora Porfirio nel De abstinentia II, 54, scrive che a Rodi il 6 del mese di Metageitnion si celebravano i Kronia17, una festa che prevedeva sacrifici umani a Kronos. Un criminale

12 Phil. Bybl., fr 3 e 10 Jacoby,β e 44: “era costume degli antichi […] che i capi della città o del popolo dessero

in sacrificio […] il più caro dei loro figli come riscatto per le divinità vendicatrici. Quelli che erano così dati erano sgozzati nel corso di riti segreti.[…]”

13

La versione del mito più antica è quella che troviamo nella Teogonia di Esiodo: in breve, Kronos era figlio di Urano e Geta, la prima generazione degli dei. Egli odiava suo padre, che aveva cacciato i propri figli nelle profondità della terra. Solo Kronos decise di agire contro il padre, a cui tagliò i genitali. In seguito, Kronos e sua sorella/sposa Rea procrearono la generazione Olimpia degli dei, tra cui, per ultimo, Zeus. Temendo che qualcuno dei suoi figli lo volesse spodestare dal trono, decise di inghiottirli. Dunque, ciò che derivò dalla tradizione mitologica, fu l’immagine di un dio mutilatore del padre, infanticida e tiranno.

14 Istro, fr. 47 e Atanasio, Adversus gentes 25: cfr M

ARTELLI F.,“Il sacrificio dei fanciulli nella letteratura greca e latina”, in VATTIONI F.(ed.), Sangue e antropologia biblica, I, Roma, pp. 256-257.

15 Di questo tratteremo nella capitolo dedicato a Zenobio. 16 V

ERSNEL H.S., Transition and Reversal in Myth and Ritual, Leiden- New York- Köln 1993, pp. 101-102.

17 Versnel nel suo studio accentua molto il carattere contraddittorio di questa festa. Se da una parte (Rodi, come

abbiamo detto sopra) è legato a un sacrificio di sangue, dall’altra invece vediamo come i Kronia celebrati in Attica non prevedessero atti cruenti. Avevano piuttosto un carattere goliardico per cui nei i giorni di festa veniva sospeso ogni genere di regola, gli schiavi godevano di ampia libertà, potevano farsi servire dai propri padroni e addirittura rimproverarli. L’omicidio rientrava forse nell’intento di ristabilire l’ordine dopo lo scherno e la beffa, rinviando così all’aspetto positivo di Kronos del grande re dell’età dell’oro della stirpe umana , dove regnavano pace e giustizia. MINOIS G.,Storia del riso e della derisione, Bari 2004 p. 27.

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10

condannato a morte veniva mantenuto in vita fino al giorno della festa, quando questa iniziava, veniva portato di fronte alla statua di Artemide, fatto ubriacare e infine ucciso.18 Per concludere, potremmo semplificare la questione ponendo l’attenzione sui toni generali con i quali Giustino si esprime e proprio in base ad essi potremmo pensare che egli non avesse conoscenza dell’infanticidio rituale in onore di Kronos, forse per la distanza spaziale da una parte, temporale dall’altra19

; una mancata conoscenza tuttavia non compensata dal supporto delle fonti classiche che riportano abbondantemente la testimonianza del rito.

Passiamo invece a riflettere brevemente sulla parte del testo immediatamente successiva; le parole di Giustino non sono affatto più chiare, ma leggendo il passo si possono ricavare degli indizi utili per supporre che egli con l’espressione “idolo” intendesse Jupiter Latiaris20

. Del suo culto parlano numerosi apologeti cristiani, che molto spesso lo citano all’interno della descrizione dei giochi gladiatori annuali che venivano celebrati a dicembre sia in onore di Saturno21sia in onore di questo dio che in ambito romano potrebbe averlo rimpiazzato, dato che altrettanto numerose sono le fonti che lo indicano come destinatario e nonostante Giustino non dica esplicitamente il suo nome possiamo capirlo dal riferimento allo spargimento di sangue di condannati a morte per mano di una persona illustre e nobile. Nel corso di questi riti venivano uccise persone già promesse alla morte, gladiatori, criminali o bestiarii, per mano di una persona illustre che presumibilmente poteva essere l’imperatore o il console, il loro sangue veniva poi raccolto in patera e versato sulla faccia o nella bocca aperta della statua di Jupiter Latiaris22.

Z

ENOBIO

:

CURIOSITÀ PROVERBIALI

Di Zenobio, a volte erroneamente chiamato Zenodoto, non possediamo molte notizie biografiche; sappiamo che fu un sofista e che visse a Roma, durante il regno di Adriano23.

18

Si ipotizza che in realtà questo fosse un rito primaverile in onore di Artemide e che solo più tardi fu associato a Kronos. VERSNEL H. S., op. cit., p. 100.

19 Su questo aspetto rifletteremo nel capitolo dedicato a Tertulliano, testimone importante per la sua vicinanza

spaziale.

20 R

IVES J., op. cit., p. 74, nota 46.

21

Molti studiosi negano la connessione tra Saturno e i giochi gladiatori (munera), ma è interessante che questi fossero organizzati dal questore e pagati dall’aerarium Saturni. VERSNEL H.S., op.cit., pp. 212-213.

22 V

ERSNEL H.S., op. cit., p. 214.

23 Le notizie bibliografiche sono tratte da The Ancient Library, Zenobio, p.1311, disponibile all’indirizzo

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Egli fu autore di una collezione di proverbi, tratti da due raccolte già esistenti di Lucilio Tarreo e Didimo D’Alessandria, i quali, insieme al nostro autore, si inseriscono in una tradizione letteraria, la paremiografia, a cui si dedicarono numerosi studiosi antichi, come ad esempio Aristotele, che considerò i proverbi residuo di una sapienza antica, della civiltà precedente il diluvio, a cui destinò, molto probabilmente, un Περὶ παροιμιῶν. Non poteva certamente mancare il contributo della più tarda scuola alessandrina, che, grazie all’operato di Aristofane di Bisanzio, sviluppò proprie peculiarità: egli cercò di individuare i proverbi all’interno delle opere letterarie (soprattutto nei poeti comici) sia per risalire al significato che essi avevano all’interno di esse, sia per analizzare il processo attraverso il quale singoli versi, avulsi dal contesto letterario, avevano acquisito valenza proverbiale.

Un nome importante nella tradizione paremiografica è quello del già citato Didimo, che, vissuto all’età di Augusto, costituì un importante serbatoio di conoscenze antiche e di molto materiale rielaborato in ambito alessandrino, sebbene il suo senso critico non sia molto apprezzato. Scrisse un Πρὸς τοὺς Περὶ παροιμιῶν συντεταχότας e nei suoi commentari e lessici usufruì dei materiali paremiografici.

L’opera di Zenobio, come ho detto al principio, può essere considerata un compendio della sua raccolta e a giudicare dal titolo, Ζηνοβίου ἐπιτομὴ ἐκ τῶν Ταρραίου καὶ Διδύμου παροιμιῶν, pare che tra i due ci sia stata l’intermediazione di un ulteriore epitomatore, Lucilio Tarreo, forse da identificare con il Lucilio di Tarre, di cui ci rimangono alcuni titoli, uno di carattere storico e due di tipo grammaticale.

La raccolta di Zenobio probabilmente aveva finalità scolastica e per tale finalità il materiale era corredato di indici che lo rendevano maggiormente fruibile. La versione che possediamo non è ovviamente quella genuina e originale, si trattava di un’opera aperta che poteva essere rielaborata da mani successive, per cui abbiamo stesure posteriori epitomate e interpolate: una redazione “atòa”, più o meno vicina all’originale, e una “vulgata” in cui il materiale è ordinato alfabeticamente (l’ordine alfabetico nella paremiografia è un’acquisizione strutturale tarda). Di questa ci è pervenuto un codice, il Parisinus graecus 3070, appartenente a una serie di opere bizantine le quali costituiscono un corpus di raccolte di proverbi in ordine alfabetico, corredati da spiegazioni e richiami ai testi classici24.

24 Tosi R., “La lessicografia e la paremiografia in età alessandrina ed il loro sviluppo successivo”, in La

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La lettera in ordine alfabetico che a noi interessa è il sigma e precisamente la voce Σαρδόνιος γέλως25

inserita all’interno del paragrafo 85 della quinta centuria: Σαρδονιος γέλως26 ·Αἰσχύλος ἐν τοῖς Περὶ παροιμιῶν περὶ τούτου φησὶν ὅτως·῏Οι τὴν Σαρδὼ κατοικοῦντες Καρχηδονίων ὄντες ἄποικοι τοὺς υπὲρ τὰ ἐβδομήκοντα ἔτη γεγονότας τῷ Κρόνῳ ἔθυον γελῶντες καὶ ἀσπαζόμενοι ἀλλήλους˙ αἰσχρὸν γὰρ ἡγοῦντο δακρύειν καὶ θρηνεῖν. Τὸν οὖν προσπποίητον γέλωτα Σαρδόνιον κληθῆναι. Τίμαιος δὲ φησιν αὐτοὺς ἱστάντας τοὺς γονεῖς ἐν οἷς μέλλουσι βάλλεσθαι βόθροις, παίειν σχίζαις καὶ κατακρημνίζειν· φθειρομένους δὲ αὐτοὺς γελᾶν διὰ τὴν ἀπὸ τῶν τέκνων ἀδικίαν καὶ δόξαν τοῦ μακαρίως καὶ καλῶς τελευτᾶν. Τινὲς δὲ ἀπὸ Σαρδόνος τῆς νήσου. Φύεται γάρ τις βοτάνη ἐνταῦθα, ἧς οἱ γευσάμενοι μετὰ σπασμοῦ καὶ γέλωτος ἀποθνήσκουσιν. Ἄλλοι δὲ τὸν καθ’ὑπόκρισιν γέλωτα, γινόμενον Σαρδόνιον καλεῖσθαι λέγουσιν, ἀπὸ τοῦ σεσηρέναι τοῖς ὀδοῦσι. Σιμωνίδες δέ φησι τὸν Τάλω πρὸ τῆς εἰς Κρήτην ἀφίξεως οἰκῆσαι τὴν Σαρδὼ, καὶ πολλοὺς τῶν ἐν ταύτῃ διαφφθεῖραι· οὓς τελευτῶντα ςσεσηρέναι, καὶ ἐκ τούτου ὁ Σαρδόνιος γέλως. Περὶ δὲ τοῦ Τάλῳ τοιόνδε μυθολογεῖται· φασὶν αὐτὸν τοῦ χαλκικοῦ γένους εἶναι· δοθῆναι δὲ Μίνωϊ παρ’Ἡφαίστου εἰς φυλακὴν τῆς νήσου Κρήτης. Οὗτος φλέβα μίαν εἶχεν ἀπὸ αὐχένος ἄχρι σφυρῶν κατατείνουσαν· κατὰ δὲ τὸ δέρμα τῆς φλεβὸς ᾗλος διήρειστο χαλκκοῦς. Τρὶς δὲ ἑκάστης ἡμέρας τὴν νῆσον περιερξόμενος ὁΤάλως ἐτήρει. Διὸ καὶ προσπλέουσαντὴν Ἀργὼ μετὰ Ἰάσονος, ὑποστρέφοντος ἀπὸ Κὸλχων, ἐκώλυε τῇ νήσῳ. προσορμισθῆναι. Ἀπατηθεὶς δέ ὑπὸ Μηδείας ἀπέθανεν […]

Sotto questa voce, Zenobio ricostruisce la tradizione culturale che ad essa si legava nel tentativo di risalire all’origine dell’espressione, ognuna delle versioni tuttavia, purtroppo per noi, non riporta una spiegazione univoca, ma, al contrario, rimanda a differenti tradizioni le quali a loro volta si intrecciano in un groviglio di mitologia, storia e racconti popolari.

La prima citazione è tratta dai Proverbi di Eschilo e Zenobio è il solo che attribuisce a costui (il tragediografo?) quella che sembra una forma corrotta di Demone27, che rende dunque il

25 Il riso sardonico è già presente nel XX v.269 e ss.dell’Odissea e si riferisce al riso sarcastico di Odisseo,

indirizzato minacciosamente verso i proci.

26 L’edizione di riferimento è Corpus Paroemiographorum Graecorum a cura di Ernst von Leutsch, Friedrich

Wilhelm Schneidewin, 1839, pp. 154-156.

27 Esch., fr. 455 Radt. = Demone, fr. 18 Jacoby: « “Proprio sardonico”: gli abitanti della Sardegna, Cartaginesi

d’origine, hanno un uso barbaro, molto diverso dagli usi greci. Essi sacrificano a Cronos, in giorni fissi, non soltanto i più belli tra i loro prigionieri, ma anche i vecchi che hanno superato i 70 anni. Tutte queste vittime ritengono vergognoso e indegno piangere, tanto che si stringono e ridere all’ultimo istante sembra loro

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passo poco credibile: o Zenobio traeva la citazione dall’opera di Demone oppure si deve identificare Eschilo, con Eschilo il giovane di Alessandria28. In base a quanto si evince dal testo, questo ignoto autore di proverbi lega l’espressione all’isola sarda, che definisce una colonia cartaginese. Aggiunge poi che i suoi abitanti sacrificano i genitori che abbiano più di 70 a una divinità ben precisa, Cronos. Non viene chiarito in che modo essi vengano sacrificati, ma costoro, invece di piangere, come dovrebbe essere, ridono, dato che lamentarsi non è considerato dignitoso.

Il secondo autore a cui si fa riferimento è Timeo29, la cui testimonianza, nell’ambito del geronticidio, viene ritenuta insieme a quella di Demone la più antica, dato che attesterebbero per primi il legame del riso sardonico con la pratica dell’uccisione degli anziani30. Nella versione riportata da Zenobio, Timeo tuttavia non fa riferimento né alla Sardegna, né all’appartenenza di questa pratica al mondo cartaginese, né a una divinità cui si sacrificava. Riporta che questi anziani (non viene specificata l’età) venivano fatti precipitare nelle fosse dai loro figli a colpi di bastone. In questa circostanza il riso sardonico fa riferimento al fatto che essi ridevano perché felici di morire in maniera nobile a fronte della spietatezza dei figli31. I successivi due temi della citazione non riportano nessun dato in particolare che si ricolleghi al sacrificio di esseri umani, ma introducono un nuovo elemento nella spiegazione dell’espressione che se prima era intesa come un sorriso finto, volontario, che in realtà dissimulava un dolore fisico atroce, ora è invece un sorriso che involontariamente si stampa

coraggioso e nobile. È questa la ragione per la quale si chiama precisamente “sardonico” il fatto di ridere giocoforza del proprio male. Questa storia viene da Demon». Demone è un attidografo, contemporaneo di Crisippo, che viene spesso citato in ambito paremiografico, la cui esegesi era essenzialmente di tipo storico.

28 Minunno G., “Geronticidio punico? L’uccisione degli anziani nelle più antiche tradizioni sulla Sardegna”,

SMSR 69, 2003, p.289.

29 Tim., fr. 64 Jacoby : « “Riso sardonico”: storia su coloro che ridono della propria morte. Secondo Timeo: gli

abitanti della Sardegna, quando i loro genitori sono invecchiati e ritengono che abbiano vissuto abbastanza, li spingono verso il luogo dove saranno sepolti. Là scavano delle fosse e installano i morituri ai bordi dell’apertura spalancata; poi ognuno di essi percuote il proprio padre a colpi di bastone e lo spinge nella fossa; i vecchi si rallegrano di andare a morire come se ne fossero lieti, e muoiono nel riso e nell’allegria. È per il fatto che veniva da ridere, senza che fosse affatto un riso di felicità, che tra i Greci si racconta questo aneddoto. »

30

Minunno G., op. cit., p. 286.

31 Sebbene, come ho detto, questa versione non specifichi l’età degli anziani, vi è tuttavia un frammento che

invece attribuisce a Timeo questo particolare, Fragm. 28 in FHG, I, p. 199 (di Tzetzes, Ad Lycophr., 796): Τίμαιος δέ φησιν ὡς ἐκεῖ τοὺς υπὲρ οʹ ἔτη γεγονότας γονεῖς αὐτῶν θύουσι τῷ Κρόνῳ, γελῶντες καὶ τύπτοντες αὐτοὺς τοῖς ξύλοις καὶ πρὸς ἀχανεῖς κρημνοὺς κατωθοῦντες (=Schol. ad Lucian., Asin., p. 365 Lehm., tranne le parole αὐτοὺς τοῖς). Dumézil G., Storie degli Sciti, Milano 1980, p. 279, nota 9 e Minunno G., op. cit., p.293, nota 42. Inoltre Dumézil nelle sue pagine (pp.261-262) parla di un viaggiatore britannico di fine XIX secolo, Charles Edwardes, il quale a sua volta, descrivendo le condizioni deprecabili in cui lavorano i medici in Sardegna, dice che fino all’unificazione d’Italia la popolazione sarda preferiva rivolgersi a stregoni e santi guaritori, aggiungendo infine la descrizione della pratica dell’accabadura: (the word) « comes from spanish accoppare, to knock on the head or from acabar, to finish. It was a costum with Sard sons and daughters in times past to release their parents from the care of the life when they became infirm from age or any other cause. Some say they beat out their brains with clubs and then cast the bodies over a precipice in honour of Saturne. ».

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sul viso delle persone morenti di dolore dovuto alla contrazione dei muscoli facciali; nel primo si dice infatti che alcuni credono che coloro che mangiano una pianta presente nell’isola (non si specifica quale isola) muoiano ridendo in mezzo a convulsioni. Il secondo invece dice “per altri” sarebbe il ridere per dissimulazione, inserendo una variante etimologica e facendolo derivare dal verbo greco σεσηρέναι, “digrignare i denti”. La pianta in questione potrebbe essere l’Oenanthe crocata, una pianta velenosa endogena della Sardegna, o meglio detta erba sardonia, che potrebbe essere stata confusa dagli autori antichi con il Ranunculus Sceleratus, nonché l’erba di Efeso, utilizzata per la cura dell’ischialgia che provocava ulcerazioni e infiammazioni.32

Per quanto riguarda la spiegazione etimologica, la più antica attestazione la troviamo in Soph., fr. 160 Radt, in cui compare il verbo σαίρειν con il significato di “contrarre la bocca e aprirla largamente”, che peraltro incontriamo uguale e tale anche in Clitarco (fr. 9 Jacoby). L’ultima citazione appartiene a Simonide ed è peraltro molto antica dato che bisogna risalire al VI a.C.; egli pure ricollega la voce all’atto di morire con la “bocca tirata”, ma il tutto inserito in un’antichissima tradizione mitologica greca che collega alla Sardegna, Talos, il mitico guardiano dell’isola di Creta, storia che non è escluso risalga addirittura al VII a.C. a Cinetone33 e a Ibico34. Seconda questa tradizione, Talos prima di recarsi a Creta al servizio di Minosse, visse in Sardegna provocando la morte di molti dei suoi abitanti e questi, morendo in preda a dolori atroci, digrignavano i denti in una smorfia da cui deriverebbe appunto l’espressione “riso sardonico”.

La versione di Simonide è stata ripresa successivamente nel X – XI secolo d.C. dal lessico della Suida (“Σιμονίδης δὲ Τάλον τὸν ἡφαιστότευκτον Σαρδάνιους (οὐ) βουλομένους περαιῶσαι πρὸς Μίνοα εἰς πῦρ καθαλλόμενον ὡς ἄν χαλκοῦν προστερνιζόμενον ἀναιρεῖν ἐπιχάσκοντας”), in cui si fa forzatamente riferimento all’isola di Creta e riportata negli scoli alla Repubblica di Platone (fr. 337a); in entrambi le testimonianze l’isola menzionata è la Sardegna ma non viene spiegata comunque l’origine dell’espressione. La questione è inoltre

32 È interessante a questo proposito lo studio di Paulis G., Le ghiande marine e l’erba del riso sardonico negli

autori greco-romani e nella tradizione dialettale sarda, in Quaderni di Semantica, XIV, 1993, pp. 9-23, a cui peraltro fanno riferimento Ruggeri P., “Talos, l’automa bronzeo contro i Sardi: le relazioni più antiche tra Creta e la Sardegna”, in ΛΟΓΟΣ ΠΕΡΙ ΤΗΣ ΣΑΡΔΟΥΣ, Atti del convegno di Studi – Lanusei 2004 p.65 e Minunno G., op. cit., pp.302-303. Tuttavia mi pare un poco forzata l’ipotesi secondo la quale questa versione mitologica si sia creata dal parallelo tra gli effetti provocati dall’erba di Efeso, che proprio per le infiammazioni che provocava, fu denominata καυτική, l’erba che brucia, ed Efesto, il dio che forgia Talos dal fuoco.

Vi è un’altra fonte antica che parla di questa pianta: Filosseno, fr. 591 Theodoridis (Cfr. anche Zen. Ath. I, 68), il quale dice invece che la pianta suddetta sia simile al prezzemolo (“[…] βοτάνη σελίνῳ παραπλησίᾳ […]”)

33 Cinaeth. fr. I Kinkel e Pausania VII, 53, 5: secondo questa antichissima versione Talos era un eroe figlio di

Kres, il fondatore dell’isola di Creta, padre di Hephaistos e nonno di Radamanthys.

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resa più difficile dall’annotazione dello scoliasta bizantino secondo il quale una simile spiegazione doveva trovarsi anche nel Dedalo di Sofocle35; più difficile perché questo ci spinge a un passo analitico ulteriore nel tentativo di incontrare «un punto di contatto tra Talos, Efesto e Dedalo»36.

Talos è inoltre protagonista di tutto il IV libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio (IV, 1638), in cui compare come un semidio superstite della razza degli uomini di bronzo nata dai frassini, offerto da Zeus a Europa come sentinella dell’isola di Creta; una versione questa che viene ripresa da Eustazio nel suo commento all’Odissea (ad Hom., XX 302) e che si discosta dall’antichissima variante in nostro possesso di Simonide37

.

Il perduto Dedalo di Sofocle38 attribuiva la nascita del gigante all’abilità di Dedalo e non di Efesto, entrambi personaggi mitici noti per l’aver permesso all’umanità di compiere il passo decisivo nel progresso delle arti e della metallurgia, tanto che la questione ha fatto pensare a una chiave d’interpretazione tendente a mettere in relazione il racconto proprio con il progresso che allora si vedeva nel mediterraneo sotto la dominazione della civiltà micenea e per quanto riguarda la linea di collegamento e soprattutto i commerci tra l’ambito miceneo-cretese e sardo, effettivamente abbiamo documentazioni di età romana di Posidonio di Apamea e di Plinio il Vecchio, oltre che naturalmente di fonti archeologiche39.

Tornando alla mitologia e al supposto tentativo di Sofocle di collegare Dedalo a Talos, se facciamo caso all’originaria tradizione ateniese (di cui è portatore Simonide) scopriamo che essi erano rispettivamente zio e nipote, e, secondo un’altra tradizione nota a Sallustio e Pausania, per cui Dedalo si sarebbe recato in Sardegna su invito di Aristeo, oppure di Iolao, secondo la versione timaica conservataci da Diodoro Siculo, egli avrebbe costruito numerosi edifici in Sardegna tra cui proprio i complessi nuragici che grazie a lui si chiamarono Δαιδάλεια40

.

Riassumendo un poco ciò che fin qui abbiamo esposto, possiamo dire che alla voce “riso sardonico” sono legate moltissime tradizioni, questo perché, come abbiamo detto, l’opera di Zenobio era un’edizione aperta passibile di modifiche e di rimandi a diverse origini e quindi racconti che probabilmente non avevano nulla a che vedere l’una con l’altra. Ben lungi dal

35 Soph. Fr. 159-162 Radt. e fr. LXXI Schneidew: eadem Sophocles in Daedalo [fr. 171 Dindf.] exposuerat.

Corpus Paroemiographorum Graecorum, p.155 e scoli a Platone, 337a: ὁμοίος καὶ Σοφοκλὴς ἐν Δαιδάλῳ.

36 Ruggeri P., op. cit., p.65.

37 La tradizione che lo vuole figlio di Efesto ritorna anche nell’opera del mitografo Apollodoro, Biblioth. Deor.,

I, 9, 26.

38 Probabilmente egli scrisse un’opera per noi perduta intitolata proprio Τάλος (Schol. ad Apollon. Rhod.) Annali

dell’istituto di corrispondenza archeologica, fascicolo primo, vol. VII, 1835, p.160.

39 Ruggeri P., op. cit., pp.66-67. 40

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pretendere di costruire una cronologia e un ordine di trasmissione delle fonti in maniera certa e sicura, possiamo dire che la spiegazione del riso sardonico da una parte, per il primo “nucleo” individuato, si lega al sacrificio umano (il geronticidio) in onore (Eschilo = Demone) o no (Timeo) di una divinità, dall’altra, per il secondo snodo, è sempre legato alla morte di essere umani ma non a una pratica particolare di sacrificio e fa piuttosto riferimento all’etimologia del nome che a sua volta introduce, come nel caso di Simonide, un mito.

V

ICENDE AFRICANE

:

M

INUCIO

F

ELICE

,

T

ERTULLIANO E LA PASSIO

P

ERPETUAE

È giunto ora il momento di trattare di due autori la cui origine geografica e il cui tempo storico sono di estrema rilevanza per i fini di questa ricerca. Il primo41 è Minucio Felice, riguardo al quale non abbiamo moltissime notizie biografiche; sappiamo da Lattanzio (Inst.Div. V,I), da S.Girolamo (De Viris Illustr. c. 3) e da un accenno contenuto nel capo secondo della stessa opera di Minucio che egli esercitava a Roma la professione di avvocato non senza successo. Date le analogie dello stile di Minucio con quello di Tertulliano, di Frontone, di Floro, e di Apuleio, sulle allusioni alle religioni locali42, sulla tradizione letteraria e manoscritta, possiamo ipotizzare che Minucio fosse originario dell’Africa, probabilmente di Cirta in Numidia43.

L’Ottavio è un dialogo apologetico a tre personaggi che si svolge sulla spiaggia di Ostia. La scena vede protagonisti Minucio stesso, il cristiano Ottavio (che dà il nome all’opera) e il pagano Cecilio. Minucio e Cecilio, liberi da occupazioni, decidono di recarsi ad Ostia in compagnia di Ottavio, giunto a Roma due giorni innanzi dall’Africa.

Un saluto di Cecilio alla statua di Serapide è la causa che dà origine al dialogo.

Ciascuno dei tre personaggi del dialogo è chiaramente rappresentante di un’ideologia religiosa: il profilo di Cecilio è quello di un conservatore, che difende, ma senza crederci, la religione pagana, pur scettico, sostiene il culto del paganesimo per un ossequio alla tradizione. Egli tuttavia è l’interprete fedele dei pregiudizi della società romana del tempo: nel corso del

41 Lo presento come primo autore tralasciando le questioni cronologiche che lo vedono ora anteriore, ora

posteriore a Tertulliano. Per cui rinvio a Minucio Felice, L’Ottavio, introduzione e versione di Umberto Moricca, Firenze, 1918 p.49 e ss.o Minucius Felix, Octavius, texte établi et traduit par Jean Beaujeu, Paris, 1964, p.44 e ss.

42 Cfr XXV, 9 allusioni al culto della Iunio Poena e Tanit, ibid. XXX, 3, allusione al culto di Saturno africano,

ibid. XXI,9 il Re Giuba adorato dai Mauri.

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dialogo da un’intonazione calma e pacifica del ragionamento filosofico, incarna repentinamente la satira più tagliente.

Come abbiamo visto nel capitolo dedicato a Giustino, il popolo accusava i cristiani dei più terribili delitti: orge, incesti, adulteri, sacrifici umani, adorazione di una testa d’asino, culto per uno scellerato e per una croce. In questo dialogo abbiamo ovviamente le due voci contrapposte e in effetti, Ottavio non tarda a contestare quanto affermato dal suo interlocutore, parlando successivamente di scienza umana, delle religioni di stato e delle accuse contro il cristianesimo.

Ottavio è un pagano convertitosi al cristianesimo e confessa anch’egli di essere caduto nella rete delle false credenze, di cui in parte erano colpevoli i demoni. Contesta l’accusa dell’adorazione di una testa d’asino, di un uomo colpevole e condannato al supplizio della croce e della venerazione della croce stessa.

Nel capitolo XXX44 di nostro interesse, Ottavio controbatte all’accusa di chi pensava che il loro rito d’iniziazione consistesse nel sacrificio di un fanciullo; nemo hoc potest credere nisi qui possit audere, sono difatti i pagani che compiono i più atroci delitti contro i bambini, li espongono a bestie e uccelli appena nati, li strangolano e le donne con l’assunzione di medicine uccidono il feto prima ancora di partorire.

Il cattivo esempio viene ovviamente dai loro dei: il primo ad essere nominato è ovviamente Saturno, emblema della crudeltà paterna, divoratore dei propri figli, a cui vengono sacrificati i bambini in Africa. Nella lista nera dei pagani sanguinari seguono poi gli abitanti della Tauride e l’egiziano Busiride che sacrificavano i propri ospiti, i Galli che immolavano a Mercurio vittime umane e infine i Romani, che ancora ai tempi del dialogo, secondo Ottavio, dedicavano il sangue di un delinquente a Iupiter Latiaris, degno figlio di Saturno.

In questo breve capitolo Minucio riporta due dati sui quali a mio parere vale la pena concentrare un poco della nostra attenzione, valutando ed elencando le potenziali ipotesi senza ovviamente la pretesa di giungere a conclusione.

Il primo dato d’interesse è quello relativo alle madri che praticano l’aborto ingerendo droghe.

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1Illum iam velim convenire, qui initiari nos dicit aut credit de caede infantis et sanguine. Putas posse fieri, ut tam molle, tam parvulum corpus fata vulnerum capiat? Ut quisquam illum rudem sanguinem novelli et vixdum hominis caedat, fundat, exhauriat? Nemo hoc potest credere nisi qui possit audere. 2 Vos enim video procreatos filios nunc feris et avibus exponere, nunc adstrangulatos misero mortis genere elidere; sunt quae in ipsis visceribus medicaminibus e[t] potis originem futuri hominis exstinguant et parricidium faciant, antequam pariant. 3 Et haec utique de deorum vestrorumdisciplina descendunt. Nam Saturnus filios suos non exposuit, sed voravit; merito et in nonnullis Africae partibus a parentibus infantes immolabantur, blanditiis et osculo comprimente vagitum, ne flebilis hostia immoletur.

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Minucio nell’esposizione delle sue tesi a difesa della religione cristiana dimostra di conoscere e di condividere le tesi degli altri apologisti, in particolare Tertulliano. Anch’egli parla dell’aborto nell’Apologeticum (IX, 8)45

in un contesto pressoché uguale a quella qui presente, appena dopo aver difeso i cristiani dall’accusa di infanticidio e dopo aver elencato i crimini dei pagani. A fronte di questo loci paralleli, non sono dunque certa che nel suddetto passo si possa mettere in relazione l’aborto con quanto afferma successivamente riguardo ai sacrifici in onore di Saturno. Per spiegarmi meglio, non mi è chiaro se, parlando in generale di infanticidio, condanni la pratica dell’aborto in sé46

o si riferisca alle donne puniche che abortivano proprio per dare in sacrificio a Saturno il figlio promesso. Mantenendomi a un livello superficiale di analisi testuale, azzardo l’ipotesi che qui l’aborto non venga messo in relazione con il sacrificio, mi sembra piuttosto che faccia l’elenco dei metodi utilizzati per uccidere i figli e che successivamente si ricolleghi al dio Saturno non come destinatario del sacrificio (di cui parla immediatamente dopo), ma come primo esempio divino negativo di uccisore della propria prole da contrapporre totalmente al dio cristiano che di certo non fomentava tali pratiche e che rappresentava tutt’altro esempio di umanità.

Tuttavia a sostegno del secondo modo di interpretare il passo, ossia relazionare l’aborto con il sacrificio al dio Saturno possiamo invece basarci su fonti dirette archeologiche, perché effettivamente esse ci testimoniano che bambini non ancora nati erano dedicati al dio. A tal proposito mi piacerebbe ora menzionare due articoli di particolare interesse: il primo è un articolo di Amadusi Guzzo47 riassuntivo ma molto chiaro ove viene riportato il dilemma che attanagliava gli studiosi di come interpretare i resti contenuti nelle urne, ossia il motivo per cui si trovassero li, se per motivi funerari o sacrificali; per le interpretazioni a tal riguardo rimando all’articolo, ma ai fini della nostra ricerca è necessario dire che i primi studi condotti dal dottor P. Pallary nel 1922 sui resti rinvenuti all’interno delle urne rivelarono che per la maggior parte si trattava di bambini prematuri, neonati e piccoli animali.

45 [8] Quanto a noi, essendoci interdetto l’omicidio una volta per tutte, non ci è consentito di distruggere neanche

la creatura concepita nel grembo, l’embrione che si sta trasformando in un essere umano. E’ un omicidio affrettato impedire di nascere, e non importa se si soffoca una vita formata o se si sopprime una vita nascente. E’ uomo anche chi sta per diventarlo; anche ogni frutto esiste già nel seme.

46 Condannato dalla legge, l’aborto era largamente praticato nell’Impero e condannato da ebrei e cristiani. Cfr.

Sen., Ad Helv. De consol. 16, 3: […] nec intra viscera tua conceptas spes liberorum elisisti; De ira I 15, 2; Gioven., Sat. VI 595 ss.: Tantum artes huius, tantum medicamina possunt, quae sterilis facit atque homines in ventre necandos conducit. Cfr. Minucius Felix, Octavius, testo curato e tradotto da Jean Beaujeu, Paris 1974, p. 141.

47 Amadasi Guzzo M. G., “Il tofet. Osservazioni di un’epigrafista” in Atti del convegno internazionale

“SEPOLTI TRA I VIVI / BURIED AMONG THE LIVING”, Evidenza ed interpretazione di contesti funerari in abitato, Roma, 26-29 aprile 2006

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Messo in evidenza questo dato, il secondo articolo da citare è di Xella48, il cui intento è quello di mettere chiarezza sul tanto discusso sacrificio infantile nel mondo fenicio-punico accompagnato dalla smentita che il tophet fosse una necropoli infantile, data l’incontrovertibile natura votiva delle stele ritrovate in loco. Partiamo quindi dal dato che le famiglie si recavano in questa sede sacra in situazioni eccezionali per chiedere la grazia al dio e che per ottenerla promettevano quanto di più sacro avevano, ovvero il figlio. Poste queste premesse, un’osservazione con cui mi trovo pienamente d’accordo è che il numero di urne deposte non corrisponde all’alta mortalità infantile, se ne deduce dunque che quelle presenti fossero frutto di una selezione e quindi di una promessa e i feti ritrovati dunque come altrettanti doni per il dio. Ammesso e non concesso che il tofet fosse davvero un luogo sacro in cui si sacrificavano in occasioni puntuali ed eccezionali i bambini49, la notizia riportata da Minucio Felice potrebbe effettivamente confermare un’evidenza materiale.

Rimane tuttavia dubbio se i feti ritrovati fossero legati ad una pratica abitudinaria qualora si fossero presentati momenti di estrema urgenza o se la loro presenza fosse dovuta all’alto tasso di mortalità infantile, dato che l’aborto poteva essere sì effettivamente indotto ma è altrettanto plausibile e molto probabile che fosse naturale, viste le obbiettive difficoltà della gravidanza. Per quanto riguarda il resto della notizia, non viene precisato il luogo né tantomeno il tempo, anche se ipotizzo che si riferisca al passato dato che per il rito di Jupiter Latiaris fornisce invece un dato temporale che rimanda alla sua contemporaneità e suppongo che egli non avesse notizie dirette.

Il secondo dato rilevante è invece la descrizione del rituale. Già Plutarco50, per fare un esempio, che aveva riportato alcuni particolari dello svolgimento del rito, narra che lo spazio di fronte alla statua era riempito col suono di flauti e tamburi perché non si sentissero le urla dei bambini, Minucio al contrario dice che i bambini venivano accarezzati e baciati proprio perché non piangessero dato che il dio non poteva ricevere in dono una creatura piangente. Questo tipo di descrizione è interessante perché ci fa capire che in realtà il rito doveva svolgersi in totale felicità, col suono della musica e soprattutto erano proprio i genitori a dover essere felici di sacrificare il proprio figlio al dio. Sempre Plutarco ci racconta che le persone senza figli li compravano dalle persone povere come animali per sacrificarli al dio, e la madre

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Xella P., “Il tophet,un’interpretazione generale” in MEIXIS DINAMICHE DI STRATIFICAZIONE CULTURALE NELLA PERIFERIA GRECA E ROMANA, Atti del Convegno Internazionale di Studi “Il sacro e il profano” Cagliari, Cittadella dei Musei 5-7 maggio 2011.

49 Amadasi Guzzo, op. cit. pp. 349-350 50

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naturale non poteva né piangere né gemere assistendo al rito e qualora lo avesse fatto, avrebbe perso l’importo della vendita e il bambino sarebbe stato sacrificato ugualmente51

.

Il secondo autore di cui ora invece parleremo, Tertulliano, è certamente il più importante e il più originale. Sono due le affermazioni di Girolamo52 (l’unica fonte autorevole che dedica alcune righe della propria opera alla biografia di Tertulliano) la cui validità e origine rimangono indimostrate: che Tertulliano fosse un prete e suo padre un “centurio proconsularis”. Tertulliano non parla mai di sé come un prete e che suo padre fosse un “centurio proconsularis” è un dato improprio e che non riscontra prove. Le truppe che erano al servizio del proconsole in Africa nel II secolo a.C. erano una coorte urbana permanente stazionata a (o vicino) Cartagine e un distaccamento inviato annualmente dalla legione III Augusta a Lambaesis. Nessun centurione in nessuna delle due truppe ebbe mai il titolo di “proconsularis” né altrove alcun centurione ebbe mai questo titolo in nessun rango dell’esercito romano53

.

La questione della veridicità della notizia riguardante il padre e riportata da Girolamo non investe solo il piano storico, ma anche e soprattutto quello filologico dato che ci guida direttamente all’analisi dell’Apologeticum di Tertulliano in cui compare nuovamente questo dato. L’opera è un libello composto nel 197, in occasione delle prime persecuzioni dei cristiani in Egitto e indirizzato al senato di Cartagine; da avvocato qual era, Tertulliano adoperò un forte e violento stile apologetico la cui struttura retorica doveva fare da cornice al problema centrale, che consisteva nel ribattere all’accusa del sacrificio rituale che ancora una volta vedeva i cristiani come i principali accusati.

Prima di discorrere sul testo dell’Apologeticum è bene segnalare che Tertulliano parla della questione dell’infanticidio sacrificale in altri due passi, appartenenti a due opere distinte. Il primo si trova nell’opera Ad nationes a difesa del cristianesimo contro i pagani, nel capitolo VII, del secondo libro in cui Tertulliano sminuisce l’autorità degli dei e dei poeti pagani: Cur Saturno alieni liberi immolantur, si ille suis pepercit?. Come già abbiamo potuto vedere in Minucio Felice, ancora una volta Saturno appare qui come l’esempio negativo, divoratore dei propri figli. È invece misteriosa l’espressione “figli estranei”, per la quale mi viene da pensare alla già citata testimonianza di Plutarco e a quella di Diodoro Siculo che racconta che i Cartaginesi, tralasciando i propri doveri religiosi nei confronti degli dei di Tiro, avevano

51 Plutarco, op. cit., 13, 171 C. 52 Girolamo, De virisi illustribus, 53. 53

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iniziato a comprare bambini allevati per essere sacrificati e quindi a sminuire il reale valore del rito.

Il secondo cenno alla pratica appartiene invece a Scorpiace, un’opera scritta durante il periodo delle persecuzioni, probabilmente nel 202/203, in cui il sacrificio viene menzionato nelle sue consuete caratteristiche di calmante per l’ira divina54.

Tornando invece al testo dell’Apologeticum, la testimonianza riportata al riguardo è per noi molto importante, dato che Tertulliano era nativo di Cartagine e da quanto emerge dal testo sembra avesse avuto diretta o comunque una sicura conoscenza della questione. Ed è nel capitolo IX che parla esplicitamente del sacrificio dei bambini in onore di Saturno.

1Haec quo magis refutaverim a vobis fieri ostendam partim in aperto, partim in occulto, per quod forsitan et de nobis credidistis.2 Infantes penes Africam Saturno immolabantur palam usque ad procosulatum Tiberii, qui ipsos sacerdotes in eisdem arboribus templi sui obumbratricibus scelerum votivis crucibus vivos exposuit, teste militia patris nostri, quae id ipsum munus illi procunsuli functa est.3 Sed et nunc in occulto perseveratur hoc sacrum facinus. Non soli vos contemnunt Christiani, nec ullum facinus in perpetuum eradicatur, aut mores suos aliquis deus mutat. 4 Cum propriis filiis Saturnus non pepercit, extraneis utique non parcendo perseverasset, sed quos quidem ipsi parentes sui offerebant, et libentes respondebant et infantibus blandiebantur, ne lacrimantes immolarentur. Et tamen multum homicidio parricidium differt.

Il testo è stato molto studiato, messo in discussione e ancora non si è giunti a una conclusione per varie questioni testuali, soprattutto perché l’opera ci è giunta in due recensioni, la Fuldense e la Vulgata. Entrambe le versioni sono concordi nel riportare che fino al proconsolato di Tiberio in un non precisato luogo venivano sacrificati pubblicamente i bambini in onore di Saturno.

Innanzitutto qui Tertulliano parla di infantes. Se vogliamo dare retta all’etimologia del termine, la parola significherebbe “che non parla” ossia “che non ha ancora l’uso della parola”

54

Tert., Scorpiaco, VII 6-7: 6 […] Sed enim Scytharum Dianam aut Gallorum Mercurium aut Afrorum Saturnum hominum victima placari apud saeculum licuit, et Latio ad hodiernum Iovi media in urbe humanus sanguis ingustatur, nec quisquam retractat aut non rationem praesumit aliquam aut inaestimabilem dei sui voluntatem. 7 Si noster quoque deus propriae hostiae nomine martyria sibi depostulasset, quis illi exprobasset finestam religionem et lugubres ritus et aram rogum et pollinctorem sacerdotem, et non beatum amplius reputasset quem deus comedisset

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e quindi neonati compresi nella fascia d’età tra gli 0 e i 2 anni. Se invece prendiamo in considerazione la parola, per “infanti” si possono intendere bambini fino ai 10 anni di età. Non sappiamo nulla, né tantomeno possediamo altre testimonianze che attestino la carica di proconsole di un certo Tiberio in Africa. Siamo di fronte a uno dei passi più discussi dell’opera, di cui certamente non mancano le ipotesi per la risoluzione. Mantenendoci ad un livello superficiale di analisi, si può escludere che qui l’autore si riferisse all’imperatore, poiché Tiberio non ricoprì mai la carica di proconsole55. Il nome può essere corrotto56 o può esserlo “proconsulatum”, per cui si è cercato di risolverla con diverse congetture57

, tra le quali, credo che la migliore, la meno invasiva per il senso del testo e dal significato più immediato e meno forzato sia quella che prevede la correzione di “proconsulatum” in “proconsulem”, così da consentire la traduzione del testo con “un proconsole di Tiberio/al tempo di Tiberio”58

.

Questo ostacolo testuale si ricollega direttamente al seguito del passo in cui Tertulliano prosegue dicendo che questo proconsole fece esporre i sacerdoti del dio Saturno agli alberi del tempio che con la loro ombra ricoprivano i crimini e che di questo evento furono testimoni i soldati del padre che eseguirono proprio l’ordine del proconsole.

È a questo punto che la Fuldense e la Vulgata riportano due lezioni diverse che hanno creato non pochi problemi, la prima riporta infatti “teste militia patris nostri”, la seconda “teste militia patriae nostrae”.

Proseguendo in ordine e con il tentativo di stabilire un quadro cronologico verosimile, se scegliamo il testo della Fuldense, rendiamo impossibile la scelta sia della congettura sia di un qualsiasi riferimento all’epoca di Tiberio. Si pongono infatti dei problemi cronologici: sappiamo che l’imperatore Tiberio governò fino al 37 d.C. e che Tertulliano nacque più o meno nel 155, che l’Apologeticum fu scritto nel 197 e che dunque Tertulliano, al momento della composizione, doveva avere verosimilmente 40 anni. Abbiamo questi tre termini ante

55

RUGGIERO F.,“La testimonianza di Tertulliano, Apologeticum 9, 2-4 sul sacrificio dei bambini nell’ambito del culto di Saturno”, in Annali di storia dell’esegesi 18/1, Bologna 2001, p.321.

56 X

ELLA P., “Sacrifici di bambini nel mondo fenicio e punico nelle testimonianze in lingua greca e latina – I”, SEL 26, 2009, p.82.

57

Ruggiero F., op. cit., p.320: « A tale riguardo sono state proposte quattro soluzioni: a) interpretare l’espressione “proconsulatum Tiberii” nel senso di “un proconsolato del tempo di Tiberio”; b) ritenere che Tertulliano qualifichi così l’imperatore per sottolineare il potere proconsolare proprio del suo “status” di sovrano; c) assegnare a “proconsulatus” il significato di “proconsul”, in accordo con l’uso tertullianeo di impiegare l’astratto per il concreto e interpretare “un proconsole di Tiberio” : una tale soluzione esegetica rende inoltre superfluo correggere “proconsulatum” in “proconsulem”; d) reputare che Tertulliano abbia per errore attribuito a Tiberio un’azione in realtà compiuta da un proconsole che operò in Africa sotto il regno di questo sovrano.

58 Ruggiero F., op. cit., p.321, Martelli F., “Aspetti di cultura religiosa punica (il molk) negli autori cristiani”, in

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