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CAPITOLO 2: L'INTERPRETAZIONE WITTGENSTEINIANA DEL CONCETTO D

3 Schwartz e Jacobs, ivi, p 2.

4 Harold Garfinkel, op. cit. in Pier Paolo Giglioli e Alessandro Dal Lago (a cura di), E tn o m e to d o lo g ia , op. cit., p, 64.

deittici, il cui significato non è indipendente dal contesto; esempi elementari di questi

indicatori della deissi sono i pronomi personali (io, tu, ecc.), e quei dimostrativi,

avverbi e aggettivi che organizzano le relazioni spaziali e temporali intorno al soggetto

del discorso (questo, quello, qui, lì, ora, ieri, ecc.). In generale, il senso di

un’espressione indicale "non può essere deciso senza avere informazioni sulla

biografia e i compiti di chi usa l'espressione, le circostanze in cui essa è formulata, il

previo corso della conversazione, la particolare relazione che esiste tra gli

in te rlo cu to ri".1 Gli etnometodologi affermano che tutte le produzioni linguistiche,

discorsi sociologi compresi, sono indicali, e abbandonato il concetto filosofico di

"espressioni indicali", Garfinkel introduce l'espressione "particolari indicali" per

riferirsi a tutti quegli aspetti concreti di una situazione (parole, racconti, azioni o

eventi) grazie ai quali gli attori coinvolti cercano di interpretarla; indicale è tutto

l’agire sociale, linguistico e non linguistico. "Il concetto di indicalità si riferisce al

fatto che il significato di ogni azione sociale (e quindi anche di ogni enunciato

comunicativo, verbale o meno) è legato al contesto della sua produzione. Di conseguenza

qualsiasi atto o enunciato indica molto più di quanto esprima 'letteralmente', la sua

comprensione è sempre problematica e il suo senso non può essere delineato

pienamente e oggettivamente astraendo dai particolari contestuali della situazione".2

Gli esperimenti di disgregazione di situazioni normali compiuti da Garfinkel,

rappresentano tra le altre cose altrettante dimostrazioni dell'indicalità delle pratiche

sociali e del fatto che tale indicalità nel mondo della vita quotidiana non crei alcun

problema, e che al contrario i tentativi di eliminarla creino sconcerto, irritazione,

anomia.3

La riflessività degli account, nel senso di Garfinkel, consiste nei numerosi modi

in cui gli account relativi alla società e al suo funzionamento sono parti essenziali delle

ì Pier Paolo Giglioli, "Introduzione", in Pier Paolo Giglioli (a cura di), Linguaggio e s o c ie tà , il Mulino, Bologna, 1973, p. 19.

2 Pier Paolo Giglioli e Alessandro Dal Lago, "Considerazioni sull’etnometodologia" in A. Izzo e C. Mongardini (a cura di), C o n trib u ti d i sto ria d e lia s o c io lo g ia , Voi. I, Franco Angeli, Milano, 1983, p. 245.

3 Per un esempio di un esperimento di disgregazione della normalità, si veda Harold Garfinkel, S tu d ie s in E th n o m eth o d o lo g y, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1967, pp. 47-49.

cose stesse che descrivono. Questo significa che qualsiasi descrizione o spiegazione di

una situazione è anche parte della situazione stessa, e in quanto tale la modifica nel

tentativo di comprenderla e di ordinarla. Come suggerisce Garfinkel nella sua prosa

non esattamente cristallina, riflessive sono le spiegazioni tanto dei profani che dei

sociologi di professione: "...ogni genere di spiegazione da parte dei membri - qualunque

ne sia il tipo logico, l'uso e il metodo con cui sia stata messa insieme - [è] una

caratteristica costitutiva della situazione che essa rende osservabile. I membri

conoscono questa riflessività del produrre, realizzare, riconoscere e dimostrare

l'adeguatezza-razionale-a-tutti-gli-effetti-pratici delle loro procedure, contano su

di essa, la richiedono e ne fanno uso".1 In maniera molto sintetica, e tralasciando tutti

i problemi estremamente complessi riguardanti la riflessività che la prospettiva

teorica presenta, potremmo dire che gli etnometodologi ci propongono di studiare in

ogni situazione sociale concreta quei metodi di accounting, ipotizzabili come

invarianti, che gli attori sociali impiegano per comprendere (a situazione stessa e, più

in generale, per dare un senso al mondo in cui vivono: da risorse utilizzate

inconsapevolmente nelle spiegazioni sociologiche, le pratiche e le procedure di

spiegazione devono diventare oggetto di studio. In quanto fenomeni, agli account e alle

procedure che li rendono possibili non è possibile attribuire alcun valore di verità;

questa posizione teorica viene definita "indifferenza etnometodotogica": "Gli studi

etnometodologici delle strutture formali [delle attività quotidiane] ... cercano di

descrivere i resoconti dei membri delle strutture formali dovunque e da chicchessia

siano forniti, astenendosi da ogni giudizio sulla loro adeguatezza, valore, importanza,

necessità, praticità, successo o consequenzialità."2

All'inizio di un loro saggio sul mondo quotidiano, Zimmerman e Pollner

dichiarano programmaticamente: "In contrasto con l'eterno argomento secondo cui la

sociologia si accanisce sull'ovvio, noi proponiamo che la sociologia deve ancora trattare

1 Harold Garfinkel, "Che cos'è l'etnometodologia", in Pier Paolo Giglioli e Alessandro Dal Lago (a cura di), E tn o m e to d o lo g ia , op. cit., p. 62.

2 Harold Garfinkel e Harvey Sacks, "On Formal Structures of Practical Actions", citato in Pier P aolo Giglioli, Linguaggio e so c ie tà , op. cit., p. 18.

l’ovvio come fenomeno".1 Come è noto, il senso comune non ha mai goduto di grande

favore in sociologia ed è anzi stato avvertito come un elemento decisamente minaccioso

dalla sociologia positivista. Nella prima pagina della prefazione alla prima edizione del

suo testo sulle regole del metodo sociologico, Durkheim scrive: "Tuttavia, se esiste una

scienza della società, si può ritenere che essa non consista in una semplice parafrasi

dei pregiudizi tradizionali, ma che ci faccia vedere le cose diversamente da come

appaiono al volgo. [...J Siamo ancora troppo avvezzi a decidere tutte queste questioni in

base ai suggerimenti del senso comune per poterlo facilmente tenere a distanza nelle

discussioni sociologiche. Proprio quando crediamo di essercene liberati, esso ci impone

i suoi giudizi senza che ce ne accorgiamo."2 Impegnato a legittimare dal punto di vista

scientifico la sociologia perché venisse accolta tra le discipline accademiche, è evidente

che Durkheim cercasse di separare nettamente la sociologia dalla "chiacchiera" di

senso comune. Tuttavia, nonostante l'avvenuta istituzionalizzazione della disciplina,

non è mai venuto meno il sospetto che la sociologia non faccia altro che rivestire con un

linguaggio vagamente specialistico dei contenuti perfettamente ovvi, che ribadire

quello che tutti già sanno. La strada maestra per controbattere tale obiezione e per

preservare la scientificità della sociologia, è stata classicamente costituita dal ricorso

ai metodi quantitativi (al "metodo delle variazioni concomitanti", nella terminologia di

Durkheim) a cui, almeno alla fine del secolo scorso, la gente comune non faceva

riferimento: "Cosi vi sono certe correnti d'opinioni che ci spingono, con intensità

diseguale, secondo i tempi ed i paesi, runa al matrimonio, l'altra al suicidio o ad una

natalità più o meno forte ecc. Si tratta evidentemente di fatti sociali. A prima vista,

sembrano inseparabili dalle forme che prendono nei casi particolari. Ma la statistica

ci fornisce il mezzo desolarli. Sono, infatti, materializzati, non senza esattezza; dal

tasso della natalità, della nuzialità, dei suicidi...".3

^ Don H. Zimmerman e Melvin Pollner, "Il mondo quotidiano come fenomeno" in Pier Paolo Giglioli e Alessandro Dal Lago (a cura di), E tn o m e to d o lo g ia , op. cit., p. 90.

2 Emile Durkheim, Le regole d e l m e to d o sociologico. Edizioni di Comunità, Milano, 1963, p.