Capitolo I VOCI DI DONNE NELLA POESIA ITALIANA CONTEMPORANEAITALIANA CONTEMPORANEA
4. Che senso ha parlare di poesia femminile? Pregiudizi ed entusiasmi
Il femminile come categoria negativa e subalterna.
Le parole che usiamo hanno una loro storia e quella della parola “femminile” è fatta di numerose stratificazioni che si sono depositate nel corso di secoli. Il problema è vasto e complesso, qui sarà sufficiente ricordare alcuni empirici punti di riferimento per capire per quali ragioni l'uso dell'aggettivo femminile provochi aspri dibattiti se riferito al concetto di poesia. Si potrebbe partire proprio dall'analisi di alcune definizioni contenute nel Grande Dizionario della Lingua Italiana diretto da Salvatore Battaglia. Il termine “femminile” vi si definisce in contrapposizione alla parola “maschile” o “virile”. Nella storia linguistica registrata dal dizionario, la voce “femminile” non indica solo, dal punto di vista referenziale, qualcosa che appartiene alle donne, ma è anche ciò che “rivela in modo spiccato le doti caratteristiche dell'indole femminile; che è tipico della psicologia, del modo d'essere, della sensibilità o delle funzioni della donna”. Ed è proprio questa definizione più generale e classificatoria a risultare oggi problematica. La specificità femminile è infatti identificata nel vocabolario con ciò che “che ha grazia, squisitezza, dolcezza di forme, di modi e di tono (un componimento poetico, un modo di parlare, un paesaggio, ecc.) che rivela debolezza, incertezza”.120 Queste idee vengono confermate anche dalla definizione dell'aggettivo “femmineo” definito come “ciò che ha la dolcezza la delicatezza la fragilità propria delle donne”,121
118 Ivi, p. 7.
119 Maria Pia Quintavalla, Sulla scrittura femminile (e dintorni), cit., p. 17 (Il corsivo è mio).
120 GDLI, vol. V 1968, p. 807.
ciò che è “debole, fragile, poco virile”.122 E certo è necessario precisare che il volume comprendente queste voci risale al 1968.
Nel 1975 esce il nono volume di questo stesso dizionario comprendente il termine “maschile” definito come ciò “che rivela le doti caratteristiche dell'indole virile, che è tipico della psicologia, del modo di essere, della personalità o delle funzioni dell'uomo: energico, costante, coraggioso”.123 Nello stesso volume sotto la voce “maschilità” si sottolinea che il termine in senso figurato può indicare il “vigore espressivo”.124 Nell'ultimo volume pubblicato nel 2002 il termine “virile” viene definito come ciò che “si addice all'uomo, alla forza, alla fermezza, all'autorità che gli sono tradizionalmente attribuite considerandolo nel pieno vigore dell'età adulta, e che sono poste in antitesi ai caratteri riconosciuti peculiari della donna e, anche, del fanciullo e del vecchio”.125
È necessario rilevare come in tutte queste definizioni i concetti di “femminile” e “maschile” vengano definiti come coppia antitetica, dove il femminile coincide con la polarità negativa indicante debolezza, incertezza e paura, mentre i valori giudicati positivamente, ossia la forza, la costanza e il coraggio, sono ritenuti tipici degli uomini. Alcuni elementi appartenenti al piano fisiologico, la maggior forza muscolare degli individui di sesso maschile, sono stati isolati e trasposti sul piano ideologico e culturale. Non andrà dimenticato che alcune di queste voci sono state redatte quando i movimenti femministi iniziavano a diffondersi, mentre altre risalgono ad una fase nettamente successiva. Si osserverà così come nell'ultima definizione riguardante l'aggettivo “virile” le medesime idee presenti nella voce maschile quasi trent'anni prima siano state riproposte con l'inserimento di una mediazione: vigore e costanza sono caratteristiche che vengono “tradizionalmente attribuite” all'uomo in opposizione “ai caratteri riconosciuti peculiari della donna e, anche, del fanciullo e del vecchio”. La mediazione introdotta nella definizione più recente riconosce come i concetti di specificità “femminile” e “maschile” abbiano un'origine culturale e non corrispondano a dati universali e ontologici. Anche nelle definizioni più recenti non si accenna però a una rivisitazione della relazione oppositiva e gerarchica tra i due termini. Ieri come oggi il significato della coppia di aggettivi sembra restare invariato.126
122 Ibidem.
123 GDLI, vol IX 1975, p. 877.
124 Ibidem.
125 GDLI, vol XXI, 2002, p. 906.
126 Nei dizionari d'uso contemporaneo i termini “femminile” e “maschile” vengono definiti in modo generale come caratteristiche delle donne e degli uomini senza ulteriore specificazione, mentre “virile”
Su questo dualismo gerarchicamente orientato si innestano una serie di giudizi più precisi e significativi. Gli esempi letterari riportati nel Grande Dizionario della Lingua Italiana per ovvie ragioni di spazio non possono essere citati puntualmente. Vale però la pena di ricordare come riferendosi al “femminile” gli esempi presenti nel dizionario specifichino cosa nelle donne possa essere giudicato debole e subalterno: la mancanza di controllo delle emozioni, l'incapacità di affermarsi socialmente, la tendenza alla confessione e allo sfogo sentimentale, la refrattarietà all'astrazione. Alcune di queste categorie, sono spesso state usate per descrivere la scrittura delle donne, in particolare nel passaggio tra Otto e Novecento. Si veda per esempio come Benedetto Croce pure attento alle voci femminili a lui contemporanee consideri la predominanza della sfera sentimentale e la trascuratezza formale un limite della scrittura delle donne. Che allora l'analisi letteraria fosse o meno corretta, ciò che è interessante è che tali idee, in modo più o meno esplicito, hanno continuato ad agire anche successivamente, in altri periodi del Novecento.127
Non si può non ricordare come nel 1948, nella prefazione all'edizione accresciuta di Parole di Antonia Pozzi, Eugenio Montale si riferisca alla poetessa in questi termini:
“Anima musicale e facile a perdersi nell'onda sonora delle sensazioni, la Pozzi stava già superando lo scoglio della poesia femminile, l'incaglio che fa dubitare tanti della possibilità stessa di una poesia di donna: e alludiamo appunto ai rischi della cosiddetta “spontaneità”.128
Come riconosce il poeta, Antonia Pozzi è estremamente consapevole del lavoro artigianale che richiede la scrittura.129 Tuttavia Montale aggiunge anche che, se una
continua ad essere utilizzato per alludere a caratteristiche come la risolutezza e il coraggio. Lo Zingarelli continua a definire come virile anche il linguaggio, qualora lo stile sia forte e deciso, “lontano da effiminatezze e sdolcinature” (Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, Zanichelli, 2005, p. 2022).
127 Clotilde Barbarulli, Luciana Brandi, La biografia di un'idea, in Anna Maria Crispino (a cura di),
Oltrecanone. Per una cartografia della scrittura femminile, Manifestolibri, Roma 2003, pp. 83-112. “Il
termine femminilità concretizza, tra Ottocento e Novecento, quel concetto chiave che definisce e imprigiona la donna stabilendone simultaneamente confini esterni e limiti interni: in quanto emanazione diretta del “naturale”, la diversità femminile si connota naturalmente come inferiorità rispetto al maschile. Nell'opposizione femminile / maschile, infatti, la sinonimia tra diversità e inferiorità acquista valore assiomatico. [...] Il canone non è ancora oggetto di revisione critica per il sistema letterario accademico e anche nella seconda metà del Novecento, fino ai giorni nostri, lo schema concettuale “natura / femminilità / diversità / inferiorità” sotterraneamente continua ad agire sulla lettura critica delle scritture di donne.” (Ivi, p. 105)
128 Eugenio Montale, “Parole” di Antonia Pozzi (1948), in Id., Sulla poesia, Mondadori, Milano 1997, p. 49.
129 Nonostante la giovane età, Antonia Pozzi dimostra di una profonda consapevolezza del lavoro artigianale che accompagna il fare poetico: “Che in principio tutti debbano attraversare un lungo – a volte molto lungo- periodo di convenzionalità, di retoricità, ecc. è un fatto: ma è anche un fatto che questa convenzionalità e retoricità non si superano se non con la pratica, con l’esercizio quotidiano, assiduo della penna. La massa inerte, spessa, grigia, delle frasi già fatte, delle parole già dette, va traforata
donna accede alla poesia, può farlo solo discostandosi dall'ostacolo della “spontaneità”, che costituisce lo “scoglio” tipico della poesia femminile. Il famoso prefatore di Antonia Pozzi si dimostra ancora più avveduto quando corregge il tiro precisando che:
“Verso le nebbie e i pericoli della poesia pura probabilmente Antonia non si sarebbe mai avviata; ma si avverte ch'è in lei il desiderio di ridurre al minimo il peso delle parole, e che tale desiderio la faceva già in parte uscire da quella generica gratuità femminile ch'è il sogno di tanti critici maschi.”130
Che la preparazione culturale delle donne sia stata a lungo scarsa è un dato di fatto. Questa mancanza ha certo influenzato negativamente i risultati letterari ottenuti. Forse però, come indica anche Montale, anticipando alcune analisi più recenti, la spontaneità e la gratuità cui spesso è stata ricollegata la poesia femminile è in parte anche una proiezione di convinzioni rassicuranti degli stessi critici.
Questi luoghi comuni sulla femminilità continuano talvolta ad essere presenti anche negli ultimi trent'anni. Per molte donne che scrivono rifiutare la categoria di “poesia femminile” significa non voler essere giudicati secondo categorie riservate al femminile, inteso come luogo della spontaneità e degli affetti, secondario rispetto a quello delle astrazioni formali maschili. Nel 1976, Armanda Guiducci (1923-1992)131 rispondeva così al questionario di Biancamaria Frabotta:
“Io non credo alla poesia maschile e alla poesia femminile. In questa distinzione, adusata, si cela una discriminazione razzistica della donna. Infatti, per “poesia femminile” si intende correntemente una sottopoesia, destrutturata o debole, patetica o sentimentale. Questa poesia di rose e cartapesta viene normalmente opposta alla poesia “virile”, cui si attribuisce empito di petto, potenza di astrazione, ecc. Esiste certamente una sottopoesia femminile come ne esiste una maschile (la quale non spira affatto, in tal caso, forza alcuna). Per la buona poesia non vedo distinzione alcuna possibile.”132
pazientemente, come una dose di calcare indigesto, vinta a poco a poco con la costanza e con l’astuzia, perché alla fine se ne liberi, se ne svincoli un principio, una forma di personalità. [...] quante volte la cosiddetta primitività, ingenuità, spontaneità coincide con la più spaventosa retorica, con la banalità più corrente! E quante volte invece la pagina che ci sembra più spontanea, più pura e più essenziale, scritta con le parole più semplici ed universali, è il frutto non di uno ma di mille elementi, ispirazione, tecnica, scaltrezza, gusto, fusi in mirabile gioco di equilibrio. [...] io non credo ai miracoli, alle improvvisazioni letterarie: credo al lavoro, alla dura fatica di lima e di scalpello, alla lotta continua, sanguinosa contro sé stessi, contro i propri “cancri” giovanili, contro l’estasi, contro l’involuzione, contro l’eccessivo lirismo”. (Antonia Pozzi, Lettera a Dino Formaggio dell’agosto 1937, citata in Dino Formaggio, La vita più che
vita in Antonia Pozzi, in Gabriele Scaramuzza (a cura di), La vita irrimediabile: un itinerario tra estetica, vita e arte, Allinea editrice, Firenze 1997, pp. 163-166). Se le Parole di Antonia Pozzi non sono sempre
allo stesso livello di perfezione, andrà naturalmente ricordato che il suo libro che avrebbe potuto essere un bell'inizio poetico, ne fu soltanto l'unico e per di più pubblicato postumo.
130 Eugenio Montale, “Parole” di Antonia Pozzi (1948), cit. pp. 50-51. (Il corsivo è mio).
131 Armanda Guiducci è nata a Napoli nel 1923. Ha compiuto degli studi di Filosofia all'Università di Milano dove è sta allieva di Antonio Banfi. Fortemente impegnata in campo politico e letterario, ha diretto il giornale Ragionamenti (1955-1957), lanciato assieme a Roberto Guiducci, Franco Fortini e Luciano Amodio. Armanda Guiducci ha pubblicato due raccolte di versi Poesie per un uomo (Mondadori, Milano 1965) e A colpi di silenzio (Lanfranchi, Milano 1982). Ha scritto alcuni libri sulla condizione femminile tra cui si ricorda in particolare La donna non è gente (Rizzoli, Milano 1977).
Alla paura di essere definite in modo aprioristico si aggiunge il timore di essere rinchiuse in una sorta di ghetto:
“Che senso ha dunque mettere insieme un certo numero di poetesse diverse per generazione, correnti letterarie, misura stilistica? Non si finisce così per discriminare ulteriormente la poesia femminile, istituzionalizzando quasi un suo destino alla separatezza come subalternità? [...] La resistenza che spesso una poetessa ha di fronte una definizione che la esclude dal novero dei poeti per collocarlo in quello delle poetesse è evidentemente giustificata e può suscitare simpatia. Perché esporsi tutte insieme come in un umiliante circo-ghetto all'interno della cultura del re? Non è dunque possibile superare una volta per tutte questa assurda discriminazione?”133
Timore ben presente negli anni Settanta quando Elsa Morante rifiuta di essere inclusa nell'antologia curata da Biancamaria Frabotta minacciando di adire le vie legali. D'altro canto la compilatrice dell'antologia amareggiata le dedica una pagina bianca.134 Il rischio della secondarietà è avvertito anche nel corso degli anni Ottanta e Novanta e continua a essere presente anche oggi nella coscienza collettiva, se è vero come ha sottolineato Loredana Magazzeni che:
“Le prime a diffidare dell'etichetta “scrittura femminile” sono le donne stesse, quelle però cui sfugge il senso totalmente politico e culturale di tale sottolineatura di genere, e che temono, giustamente, nel pronunciarla di scavarsi automaticamente la fossa, una voragine, di firmare la propria autocondanna a una deportazione di massa e di serie B”135
La separetezza viene percepita come un pericolo, un rischio di svalutazione della propria attività di scrittura. È quello che emerge dal questionario distribuito nel corso di questa indagine:136
“E poi, francamente, farebbe un questionario per i poeti di genere maschile? Li metterebbe nelle gabbie delle scimmiette?” (Jolanda Insana)
133 Biancamaria Frabotta, ivi, p. 10.
134 Un caso particolare è quello di Elsa Morante: “Quando nel 1976 chiesi alla Morante l'autorizzazione di pubblicare alcuni suoi versi in un'antologia programmaticamente intitolata Donne in
poesia mi folgorò con un bruciante rifiuto recapitatomi, per di più dal suo potente agente letterario. Il
colpo non fu lieve e la passione tradita mi consigliò non so quanto a ragione, di dedicare all'opera della Morante, la lacuna di una pagina interamente bianca.”(Biancamaria Frabotta, Fuori dall'harem: l'alibi di
Elsa Morante, in Les femmes écrivains en Italie aux XIX et XXè siècle, Actes du colloque international
Aix-en-Provence 14-15-16 novembre 1991, Publications de l'Université de provence, p. 172). Biancamaria Frabotta ricorda però che un'intervista del 1960 Elsa Morante affermava che “il concetto generico di scrittrici come di una categoria a parte, risente ancora della società degli harem”. La studiosa precisa quindi che: “Se nel 1976 la Morante avesse accompagnato il suo diniego con questa obiezione non mi sarebbe stato difficile rispondere che nella genesi della scrittura, sia maschile che femminile, la forma della sessualità non corrisponde affatto a una categoria fisiologica, ma appunto culturale. E la sua stessa prosa il cui lussureggiante barocco è insieme allegoria del trompe d'oeil e carnale labirinto nascosto fra le pieghe della mistica rosa della femminilità, ne offriva un esempio più che probante. In secondo luogo avrei opposto la convinzione, in me allora assai ferma che spesso la Storia, soprattutto quella che muove le coscienze, inverte a sorpresa il segno delle sue invenzioni e ciò che una ingiusta discriminazione ha connotato al negativo, può diventare emblema e impulso di una differenza vitale alla stessa sopravvivenza del genere umano” (Ivi, p. 173).
135 Loredana Magazzeni, Difesa semiseria di una letteratura invisibile, in Alessandro Broggi, Carlo Dentali, Stefano Salvi (a cura di), I mondi creativi femminili, cit. p. 35.
“Non esiste una poesia femminile, mi andrebbe stretta. Sarebbe un’offesa al senso ultimo della Persona.” (Marina Pizzi)
“Direi fastidio. È un perfetto modo per ghettizzare la poesia scritta da creature di sesso femminile. Io voglio stare in classe mista, è più rassicurante per il mio senso di parità.[...] Io non vedo differenze che non siano stereotipi.” (Valeria Rossella)
“Poetessa viene dal greco poetria, da cui il poetry inglese, ma era un termine già confuso. Oggi si usa, ma non è affatto bello e non mi piace. La Morante insorgeva indignata a sentire parlare di poetessa. E anche la Rosselli. E tuttavia è perfino preferibile alla locuzione “poesia femminile”, davvero restrittiva per la poesia e per chi la scrive, come se ci fossero argomenti femminili e maschili o una lingua femminile e maschile, cosa davvero assurda.” (Gabriella Sica)
“Se l’espressione è da intendere come categoria letteraria a parte, come spesso storicamente è stata intesa, allora la trovo ridicola e maschilista a livello basso, poco interessante.” (Paola Turroni)
Che questi pericoli siano oggi ancora vivi è chiarito anche da un'antologia curata da Davide Rondoni intitolata Poeti con nome di donna.137 Il volume raccoglie una scelta di importanti poetesse di tutti i secoli, italiane e straniere. L'iniziativa è molto interessante sia per l'editore (BUR) che per il suo intento divulgativo, proprio per questo però sarebbe stata apprezzata una schedatura precisa delle pubblicazioni più importanti di ogni autrice. La cosa più interessante però è che l'introduzione dell'antologia si apre dichiarando che l'opera comprende:
“poesie scritte da donne. Ma non prendetela come una scelta di belle poesie scritte da signorine di forti sentimenti per signorine in cerca di emozioni. O da feroci signori per signore in cerca di riscatti. Non si vede in questo libretto fantastico niente che accomuni le autrici se non, appunto, una più comoda e generica distinzione.”138
E alla fine della prefazione in modo ancora più esplicito sottolinea come i testi:
“resisteranno dal farsi ridurre a florilegio di poesie scritte da gentili signorine o da rabbiose signore per un genere che si distingue con il nome femminile. No, sono scritte da poeti con il nome di donna.”139
Il femminile dal quale Davide Rondoni, ma anche molte poetesse vogliono prendere le distanze è definito da quelle due semplici espressioni “gentili signorine” e “rabbiose signore”, che allineano accanto a un'allusione alla debolezza espressiva e al carattere melenso dello stile poetico il richiamo a una irrefrenabile rabbia, che poi non è altro che il rovesciamento del primo stereotipo della coppia. Per Rondoni non c'è specificità diversa da quella di queste abusate visioni del femminile. Ma la crociata di questo poeta contro la parola “femminile” viene subito sconfessata dalla stessa copertina del libro, non tanto per il colore rosa, ma per quella riga al mezzo e quella scritta argentata in 137 Davide Rondoni (a cura di), Poeti con nome di donna, postfazione di Francesca Cadel, BUR, Milano 2008.
138 Ivi, p. 5.
corsivo che ricorda, dal punto di vista grafico, tanta letteratura rosa di consumo. Alcune parole in grassetto messe in evidenza nel retro: “Non avrebbero dovuto” evocano invece un gusto del proibito, utilizzato per incuriosire il lettore.
Alla ricerca di madri e sorelle culturali?
Accanto alla paura di essere interpretate attraverso griglie di lettura riduttive vi è però anche l'esigenza delle donne che scrivono di confrontarsi con una tradizione letteraria formata anche da scritture femminili. Questo bisogno di ricercare dei modelli femminili esplode a livello sociale negli anni Settanta, ma è presente anche prima, in diverse scrittrici. Si può considerare ad esempio l'antologia progettata da Cristina Campo nel 1953, che indica il bisogno di ricostruire un rapporto di filiazione anche a partire da scritture femminili. Margherita Pieracci Harwell, amica di Cristina Campo ha affermato che:
“I primi anni Cinquanta sono dedicati a un lavoro di traduzione in prosa e in versi assai vasto per chi amò dir di sé: “Scrisse poco e vorrebbe aver scritto ancor meno”. Cristina prepara per l'editore Casini il Libro
delle Ottanta Poetesse, alcune delle quali traduce lei stessa. Di questa opera mai pubblicata ci resta, oltre
alla presentazione che ne faceva l'editore nel catalogo del 1953, qualche frammento: poesie di Christina Rossetti e della Dickinson (introvabili invece altre, che Cristina Campo elenca come pubblicate, di Maria Stuarda). Il rapporto con queste donne fu intenso e durevole. Mi prestò anni dopo libri di Louise Labé e di Marceline Desbordes Valmore, mi regalò i sonetti della Browning, La Princesse de Clèves, Wuthering Heights. Le due Emily le restarono vicine tutta la vita, come la sua Gasparina (che a un certo punto si incarnò in una umanissima gatta).”140
La descrizione del Libro delle ottanta poetesse pensato per l'editore Casini è affidata a una scheda anonima, forse, come suggerisce Anna Nozzoli,141 attribuibile alla stessa Vittoria Guerrini (nome anagrafico di Cristina Campo):
“Una raccolta mai tentata finora delle più pure pagine vergate da mano femminile attraverso i tempi. Versi, prose, lettere, diari, scritti rari o mal conosciuti, nuove scelte e traduzioni di testi famosi. L'incomparabile forza e semplicità della voce femminile, sempre nuova nella sua freschezza, sempre identica nella sua passione, vibra da un capo all'altro di questo vasto e pure intensamente raccolto panorama di poesia, dalla scuola di Saffo alla Cina classica, dal Giappone dei Fujiwara al deserto premaomettano, da Bisanzio al Medioevo, dal Rinascimento al secolo XVIII, dal grande Romanticismo