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La “seconda guerra tra le Corti”: dalla sentenza costituzionale n 292 del 1998 alla sentenza Pezzella e alla sentenza costituzionale n 299 del 2005 L’affermarsi del valore soltanto

D) Il canone dell’interpretazione “conforme” o “adeguatrice” 1 Il canone dell’interpretazione conforme

9. L’efficacia delle decisioni interpretative di rigetto

9.3. La “seconda guerra tra le Corti”: dalla sentenza costituzionale n 292 del 1998 alla sentenza Pezzella e alla sentenza costituzionale n 299 del 2005 L’affermarsi del valore soltanto

“persuasivo” delle sentenze interpretative di rigetto verso la generalità dei giudici

La seconda vicenda da esaminare, inerente alla controversia sulle modalità di calcolo della durata dei termini di fase di custodia cautelare, ha inizio con la sentenza n. 292 del 1998867 della Corte costituzionale.

La questione riguardava, in particolare, l’ipotesi di nuovo inizio della decorrenza dei termini “intermedi” della custodia (previsti per ciascuna fase) per la regressione del procedimento penale, in seguito ad annullamento con rinvio da parte della Cassazione o per altra causa, ad una fase o a un grado di giudizio diversi, o di rinvio ad altro giudice.

Il giudice rimettente, Tribunale di Reggio Calabria, ha sottoposto al giudizio della Corte l’art. 303, comma 4, cod. proc. pen., <<nella parte in cui non prevede che, oltre al superamento del termine complessivo di durata massima della custodia cautelare, possa essere causa di scarcerazione anche il superamento del doppio del termine di fase, allorché si verifichi la situazione descritta nel comma 2 del medesimo articolo>>868, che dispone, in caso di regressione o rinvio ad altro giudice del procedimento, la decorrenza ex novo dei termini di fase (previsti dal comma 1 dell’art. 303 c.p.p), <<dalla data del provvedimento che dispone il regresso o il rinvio>>. In base alla lettera dell’art. 303, comma 2, cod. proc. pen. <<sembrava emergere, infatti, che in tali ipotesi potesse essere causa di scarcerazione solo il superamento del termine complessivo di durata massima, stabilito dal successivo comma 4, e non già, anche se più favorevole, il superamento dei c.d. termini massimi di fase (pari al “doppio” del termine di fase) previsto dall’art. 304, comma 6, ritenuto operante per i soli casi ivi disciplinati relativi alla sospensione dei termini (ossia per impedimento dell’imputato o del

865 Ibidem, pagg. 266-267. 866 Ibidem, pagg. 265-266.

867 Corte cost., sent. n. 292/1998, su giurcost.org. 868 § 1, Considerato in diritto.

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difensore, ecc.)>>869. Pertanto, la questione veniva sollevata sulla base della premessa che il legislatore avesse omesso di prevedere che il termine di cui all’art. 304, comma 6, c.p.p. (pari al doppio del termine di fase) si applicasse, oltre che alle ipotesi di sospensione dei termini, anche alle ipotesi, sostanzialmente analoghe, di regressione del procedimento ad altra fase o grado (art. 303, comma 2, c.p.p.): ponendosi perciò in contrasto con l’art. 3 della Costituzione.

Il giudice delle leggi dichiarava, innanzitutto, la questione infondata <<nei sensi di cui in motivazione>>. Esso procedeva, poi, ad una ricostruzione, storica e sistematica, della complessa normativa dei termini di custodia cautelare, analizzando le numerose modifiche ed interpolazioni subite negli anni precedenti dalle disposizioni esaminate, nonché le ragioni che hanno indotto il legislatore a porre in essere tali modifiche. All’esito di tale ricostruzione, la Corte concludeva che, essendo la ratio della disciplina volta ad attuare il canone di proporzionalità della misura custodiale rispetto alla pena prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza, <<il limite del doppio dei termini di fase>> (previsto dal comma 6 dell’art. 303), costituisce <<il limite estremo, superato il quale il permanere dello stato coercitivo si presuppone essere "sproporzionato" in quanto eccedente gli stessi limiti di tollerabilità del sistema>>870. Svolgendo la funzione di <<meccanismo di "chiusura" della disciplina dei termini>>, secondo la Corte, la previsione in esame è <<"autonoma" rispetto al corpo dell’articolo nel quale si trova inserita>>, che riguarda l’ipotesi di sospensione dei termini871. La Corte, poi, faceva richiamo ad un argomento di tipo letterale: <<l’avverbio "comunque", che contrassegna la disciplina sancita dal comma 6 dell’art. 304 cod. proc. pen., vale, del resto, a far superare ogni residuo dubbio in proposito: ritenere, infatti, che il limite finale operi solo per i casi di sospensione equivarrebbe a tradire non soltanto la storia e la funzione di quel limite, ma anche, e innanzi tutto, il più che esplicito dettato normativo>>872.

In base all’interpretazione della Corte, quindi, <<il periodo di custodia sofferto nello stadio del procedimento anteriore all’atto di annullamento deve ritenersi utile ai fini del decorso dei termini massimi di fase, sommandosi a quello che si continua a subire nella fase in cui il processo è regredito>>873. Tale soluzione è ritenuta dalla Corte <<aderente… alla stessa logica dell’art. 13 della Carta fondamentale, la quale impone di individuare, fra più interpretazioni, quella che riduca al minimo il sacrificio della libertà personale>>874.

La Corte, quindi, non solo considerava l’interpretazione da essa proposta come <<l’unica conforme a Costituzione>>, e quindi <<costituzionalmente obbligata>>875, ma anche l’unica compatibile con la ratio e la lettera della disciplina in esame.

La Corte, nella stessa decisione, a sostegno della sua tesi, faceva riferimento ad un ulteriore argomento di carattere <<logico-sistematico>>: innanzitutto, osservava che <<l’art. 304, comma 6, come si è già accennato, introduce un limite massimo per i termini di fase, stabilendo che "la durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio dei termini previsti dall’art. 303,

869 M. Ruotolo, La Cassazione penale e l’interpretazione delle disposizioni sulla custodia cautelare in carcere alla

luce del principio del minore sacrificio della libertà personale, in Interpretare. Nel segno della Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014, pagg. 134 e ss.

870 Sent. n. 292/1998, cit., § 4, Considerato in diritto. 871 Ibidem.

872 Ibidem.

873 M. Ruotolo, ult. op. cit., pag. 134.

874 Sent. n. 292/1998, cit., § 4, Considerato in diritto. 875 M. Ruotolo, ult. op. cit., pag. 135.

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comma 1, 2 e 3">>876. Poi precisava che <<mentre il comma 1 dell’art. 303 disciplina effettivamente la "durata" della custodia nelle varie fasi e gradi sino alla sentenza irrevocabile, i commi 2 e 3 non attengono alla durata in sé, ma alla decorrenza ex novo dei termini nella ipotesi di regressione del processo o di evasione>>877. Affermava, quindi, la Corte che, se fosse stato valido il ragionamento del giudice a quo, <<sarebbe bastato per il legislatore richiamare il comma 1 dell’art. 303, giacché in quella prospettiva i commi 2 e 3 non vengono assolutamente in discorso>>. Quindi, la Corte concludeva in tal modo la sua motivazione: <<Argomenti testuali e logico-sistematici impongono pertanto di assegnare a quel richiamo l’unico senso che ad esso può essere attribuito: vale a dire che il superamento di un periodo di custodia pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, determina la perdita di efficacia della custodia, anche se quei termini sono stati sospesi, prorogati o – per stare al caso che qui interessa – sono cominciati a decorrere nuovamente a seguito della regressione del processo>>. La propria interpretazione della disciplina veniva quindi considerata dalla Corte come l’unica conforme alla <<ratio di favor che ha ispirato il legislatore del 1995, ad un effettivo recupero della scelta di introdurre uno sbarramento finale ragguagliato anche alla durata dei termini di fase comunque modulata>>, e, inoltre, <<alla stessa logica dell’art. 13 della Carta fondamentale, la quale impone di individuare, fra più interpretazioni, quella che riduca al minimo il sacrificio per la libertà personale>>878.

La Corte, infine, affermava che accettare l’interpretazione del rimettente avrebbe portato ad <<esiti paradossali>>: infatti, <<l’eventuale condotta ostruzionistica e defatigatoria dell’imputato, comportante la sospensione a norma dell’art. 304, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., consentirebbe allo stesso di "beneficiare" del limite previsto dal comma 6 del medesimo articolo, l’identico limite non opererebbe, invece, nei casi di regressione o di rinvio ad altro giudice che l’imputato (del tutto "incolpevole") è costretto a subire, derivando di regola la regressione o il rinvio da un "errore" in cui è incorsa la stessa autorità giudiziaria>>879. Conclusione che, secondo la Corte, non era ricavabile né dall’intenzione del legislatore, né dal dettato letterale delle disposizioni sottoposte al sindacato di costituzionalità.

Come segnala E. Lamarque, la sentenza n. 292/1998 è stata variamente accolta e interpretata dai giudici comuni: dapprima vi sono state <<chiare prese di posizione dei giudici di merito nel senso di ritenere del tutto non vincolante l’interpretazione in essa contenuta>>880. Successivamente si sono formati, all’interno della Cassazione, due opposti orientamenti, <<uno conforme e uno difforme>> all’interpretazione del giudice delle leggi: <<secondo un primo orientamento, nel caso di regressione del procedimento, ai fini del calcolo della durata massima della custodia cautelare avrebbero dovuto computarsi anche i periodi di custodia cautelare sofferti in tutte le fasi e i gradi successivi a quello in cui il processo è regredito; per un secondo orientamento, invece, avrebbero dovuto sommarsi solo i periodi di custodia cautelare precedentemente subiti nella stessa fase o nello stesso grado del giudizio>>881. Le sezioni unite penali, dunque, sono state chiamate a dirimere tale conflitto interpretativo, decidendolo con la sentenza “Musitano”: con essa hanno aderito alla seconda interpretazione, contraria a quella della Corte costituzionale, ma lo hanno fatto <<dichiarando, in più passi della motivazione, di aderire alla soluzione preferita dalla Corte, ed anzi di dovervi aderire, in

876 Sent. n. 292/1998, cit., § 4 Considerato in diritto. 877 Ibidem.

878 Ibidem. 879 Ibidem.

880 E. Lamarque, Il seguito giudiziario alle decisioni della Corte costituzionale, op. cit., pag. 255 881 Ibidem.

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base al vincolo indiretto – adeguamento o riproposizione – che deriverebbe nei confronti dei giudici comuni dalle sentenze interpretative di rigetto, nell’ipotesi in cui la Corte abbia ritenuto la propria interpretazione come l’unica compatibile con le norme e con i principi della Costituzione>>882. Secondo E. Lamarque, in questa ipotesi, <<la proclamazione delle Sezioni unite circa l’efficacia indirettamente vincolante delle sentenze interpretative di rigetto nei confronti della generalità dei giudici ha l’esclusivo significato di un tributo formale – vuoto cioè di qualsiasi significato sostanziale, e privo di qualunque pratica conseguenza – all’autorità della Corte costituzionale da parte del giudice supremo di legittimità, escogitato per evitare che, in occasioni particolari, si arrivi ad aprire “ufficialmente” uno scontro istituzionale tra i due organi sull’interpretazione della legge>>883.

Ad avviso dell’Autrice, <<un uso disinvolto nel canone della totalità nell’interpretazione della decisione costituzionale>>, porta la Cassazione ad eludere in sostanza l’interpretazione avanzata dalla Corte costituzionale, pur prestandole formale ossequio. Quindi, la espressa proclamazione, da parte della Cassazione, della fedeltà alle interpretazioni della Corte costituzionale, può essere, secondo l’Autrice, un modo per scongiurare aperti conflitti istituzionali: sarebbe dovuta, insomma, ad esigenze, in senso lato, “diplomatiche”. I giudici di merito, invece, non sentendo questa esigenza, <<non hanno alcun motivo di rinunciare alla propria libertà ermeneutica, sia pure solo in una proclamazione di intenti, di fronte alle pronunce interpretative di rigetto della Corte costituzionale>>884.

A seguito di una serie di nuove ordinanze di rimessione, la Corte costituzionale, <<senza dare eccessivo rilievo all’intervento delle Sezioni unite>>, ribadiva con l’ordinanza di manifesta infondatezza n. 214 del 2000, che <<deve essere ritenuta costituzionalmente obbligata in forza del valore espresso dall’art. 13 della Costituzione, l’interpretazione secondo cui la custodia cautelare perde efficacia allorquando la sua durata abbia superato un periodo pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, anche se quel termine sia stato sospeso, prorogato o sia cominciato a decorrere nuovamente a seguito della regressione del processo>>885. In una successiva ordinanza (n. 529 del 2000), la Corte, ribadendo ancora la manifesta infondatezza della questione, citava la sentenza Musitano <<come esempio di erronea interpretazione della propria precedente sentenza interpretativa di rigetto>>, errore consistente nel <<presupposto interpretativo che ai fini del termine massimo di cui all’art. 304, comma 6, vadano calcolati soltanto i periodi di custodia cautelare subiti dall’imputato in fasi omogenee>>886.

Il dubbio interpretativo veniva poi nuovamente sottoposto alle Sezioni unite penali della Cassazione da parte della prima sezione penale887. Le sezioni unite, dunque, <<anche a fronte di delle significative oscillazioni registrate in giurisprudenza sulle modalità di calcolo del termine di fase>>, sollevavano una nuova questione di costituzionalità (ordinanza di rimessione n. 434 del 2002), con cui chiedevano alla Corte costituzionale di dichiarare illegittimo l’art. 303, comma 2, cod. proc. pen., <<nella parte in cui impedisce di computare, ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo art. 304, comma 6, i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in cui il procedimento è regredito>>.

882 Ibidem.

883 Ibidem, pag. 256. 884 Ibidem, pag. 257.

885 Corte cost., ord. n. 214/2000, su giurcost.org. 886 Ibidem.

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La Corte costituzionale, con ordinanza n. 243 del 2003, dichiarava la questione manifestamente inammissibile, per essere la motivazione perplessa e contraddittoria, affermando, in particolare, che <<che tanto meno può essere ritenuto ammissibile un simile approccio alla giustizia costituzionale se si considera che l’ordinanza delle sezioni unite, oltre ad apparire perplessa (in una motivazione tutta protesa, nella sostanza, a dimostrare l’infondatezza della questione, il denunciato contrasto si riduce ad un laconico "forse"), si chiude con l’esplicito invito al "rispetto delle reciproche attribuzioni", come se a questa Corte fosse consentito affermare i principî costituzionali soltanto attraverso sentenze caducatorie e le fosse negato, in altri tipi di pronunce, interpretare le leggi alla luce della Costituzione>>888.

A proposito, F. Modugno, ha osservato che, pur essendo certamente vero che la Corte costituzionale possa interpretare autonomamente le leggi sottoposte a controllo di costituzionalità anche attraverso decisioni diverse da quelle di accoglimento, tuttavia ciò <<non esclude affatto che la giurisdizione comune, di legittimità e di merito, possa, a sua volta, interpretare le leggi in modo diverso (e la giurisdizione di merito, pur in presenza dell’istituto della nomofilachia, anche in modo diverso da quella della legittimità) anche alla luce della Costituzione>>. In altri termini, il giudice delle leggi <<non potrebbe imporre la sua interpretazione delle leggi conforme a Costituzione come (…) interpretazione “costituzionalmente obbligata”>>889, e quindi pretendere che ad essa si debba conformare la generalità dei giudici comuni.

L’Autore ha affermato, dunque, che <<è bensì vero che la Corte può colpire anche una possibilità interpretativa (una norma) di un enunciato con la dichiarazione di incostituzionalità ad essa relativa e con effetti erga omnes; e può perfino con una sentenza aggiuntiva o con una sostitutiva dichiarare incostituzionale nella disposizione, rispettivamente, una omissione ovvero una asserzione al posto di un’altra (ciò che risulterà poi dall’aggiunta di un ulteriore enunciato o dalla sostituzione di un enunciato con un altro), ma non potrà mai – se non illegittimamente privando la giurisdizione della libertà interpretativa ad essa assicurata dall’art. 101 Cost. – imporre una qualsivoglia interpretazione delle disposizioni di legge e degli enunciati degli atti-testi normativi vigenti, neppure adducendo che essa sia la “sola” conforme a Costituzione: spetta, in definitiva, ai giudici stabilire (o convincersi) che essa sia la “sola” conforme>>890.

La tappa successiva della vicenda è rappresentata da una nuova sentenza delle Sezioni unite penali della Cassazione891, la quale, trovandosi a dirimere l’ennesimo dissidio interpretativo sull’art. 303, comma 2, c.p.p., precisava che ai fini della durata massima della custodia cautelare si dovessero calcolare solo i periodi di detenzione subiti nelle fasi o gradi omogenei, non potendo <<disapplicare, attraverso operazioni adeguatrici o manipolatrici, una disposizione tuttora vigente, neppure in nome di una più piena realizzazione dei principi e dei valori della carta fondamentale>>892. Si contrastava così la precedente interpretazione del giudice delle leggi, ma si contraddiceva anche il precedente orientamento sull’efficacia delle sentenze interpretative espresso dalla stessa Cassazione nella sentenza Alagni.

888 Corte cost., ord. n. 243/2003, su giurcost.org.

889 F. Modugno, Alcune riflessioni a margine della ricerca su “Il seguito delle decisioni interpretative e additive

di principio della Corte costituzionale presso le autorità giurisdizionali – anni 2000-2005”, in Scritti sull’interpretazione costituzionale, op. cit., pag. 282.

890 Ibidem, pag. 283.

891 Cass. sez. un. pen., 31 marzo 2004, n. 23016, Pezzella. 892 Ibidem, § 9.

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La sentenza Pezzella può essere definita, così come la precedente sentenza Alagni, una <<sentenza-trattato>>893, in quanto contiene un lungo excursus sul concetto, la funzione e l’efficacia verso i giudici delle sentenze interpretative di rigetto. Innanzitutto, le Sezioni Unite hanno affermato, richiamando pure la sentenza n. 3 del 1956, che la Corte costituzionale, nell’ambito del giudizio costituzionale, ha il potere-dovere di interpretare, non solo il parametro costituzionale, ma anche la disposizione legislativa, e tale potere è necessario ai fini del giudizio di costituzionalità delle leggi894. Inoltre, le sentenze interpretative di rigetto rappresentano una tecnica processuale cui la Corte ricorre legittimamente, ai fini di un’interpretazione adeguatrice della legge sottoposta al suo controllo. La Cassazione ha precisato, poi, che anche i giudici, a loro volta, dispongono (a norma dell’art. 101, comma 2, Cost.) di un autonomo e indipendente potere di interpretazione delle leggi e della Costituzione, e ha sottolineato inoltre la sua essenziale funzione nomofilattica895. La Cassazione poi ha precisato che <<l’interpretazione adeguatrice dei giudici ha possibilità di esplicazione soltanto quando una disposizione abbia carattere "polisenso" e da essa sia enucleabile, senza manipolare il contenuto della disposizione, una norma compatibile con la Costituzione attraverso l’impiego dei canoni ermeneutici prescritti dagli articoli 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale: di talché, nell’impossibilità di conformare la norma in termini non incostituzionali, il giudice non può disapplicarla, ma deve rimettere la questione di legittimità costituzionale al vaglio del Giudice delle leggi>>896. Dunque, l’interpretazione conforme del giudice non può operare in senso manipolativo, ma deve muoversi all’interno dei significati ricavabili dalla disposizione a mezzo degli artt. 12 e 14 delle <<preleggi>>.

Riguardo alle decisioni interpretative del giudice delle leggi, il giudice della nomofilachia ha affermato poi che <<le decisioni interpretative rappresentano normalmente una forma di attività della Corte qualificabile come "maieutica", per la ragione che tendono ad enucleare principi e regole che l’ordinamento già contiene e non ad introdurvene di nuovi. Esse sono state considerate “espressione del principio di unità sistematica dell’ordinamento, che richiede che alle leggi sia attribuito il significato che ne consenta l’armonica integrazione con i contenuti costituzionali, in funzione adeguatrice delle prime ai secondi”: con la conseguenza che soltanto l’impossibilità di operare un tale adeguamento rende inevitabile la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma impugnata>>897. Le decisioni in esame, insomma, per la Cassazione, <<costituiscono, perciò, una modalità della tecnica del sindacato di costituzionalità, attraverso la quale il Giudice delle leggi, nella sua insindacabile discrezionalità, ritiene preferibile reinterpretare la norma impugnata, plasmandone il contenuto in termini compatibili con la Carta costituzionale ed evitando, cosi, che una dichiarazione di incostituzionalità produca una lacuna nell’ordinamento>>898.

Venendo al tema dell’efficacia delle decisioni interpretative della Corte costituzionale, la Cassazione ha escluso innanzitutto, che la Corte costituzionale, attraverso le decisioni interpretative di rigetto, eserciti un potere di interpretazione autentica della legge. Infatti, ha dichiarato la Cassazione che <<è unanime in dottrina l’opinione che esclude il valore vincolante delle decisioni

893 E. Lamarque, Le sezioni unite penali della Cassazione “si adeguano” … all’interpretazione adeguatrice della

Corte costituzionale, op. cit.; v. R. Romboli, Qualcosa di nuovo … anzi d’antico: la contesa sull’interpretazione conforme della legge, op. cit., § 5.

894 Sent. Pezzella, cit., § 3. 895 Ibidem.

896 Ibidem. 897 Ibidem, § 4. 898 Ibidem.

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interpretative di rigetto, in quanto sprovviste dell’efficacia erga omnes attribuita dall’articolo 136, comma 1, della Costituzione alle sentenze che dichiarano l’illegittimità costituzionale di una norma di legge>>: infatti, <<se a dette decisioni dovessero riconoscersi effetti vincolanti per i giudici, la Corte