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LA SITUAZIONE DELLA FINANZA COMUNALE ALLA VIGILIA DELLA RIFORMA TRIBUTARIA DEGLI ANNI ’

ALLE ORIGINI DEL FEDERALISMO FISCALE ITALIANO

1. LA RIFORMA FINANZIARIA DEGLI ANNI ’

1.1. LA SITUAZIONE DELLA FINANZA COMUNALE ALLA VIGILIA DELLA RIFORMA TRIBUTARIA DEGLI ANNI ’

Il periodo che precedette la riforma tributaria degli inizi degli anni Settanta può essere definito di autonomia degli Enti locali. Il problema della riforma tributaria era stato affrontato già nel 1950-51 dal Ministro Vanoni con l’introduzione dell’obbligo della dichiarazione unica annuale. La riforma rimase a metà strada, poiché poggiava su presupposti quali la riorganizzazione degli uffici delle imposte e la relativa stabilità nella pressione tributaria, che erano quasi del tutto mancati. Il Ministro per le finanze dell’epoca, sen. Trabucchi, nominò, nel 1962, un’apposita commissione composta da 16 membri altamente qualificati, oltre il segretario, per lo studio preparatorio della riforma tributaria e dallo stesso insediata il 28 Settembre 1962. La commissione, sotto l’impulso del vice presidente prof. Cosciani, stabilì nel Maggio del 1963 in un’apposita relazione i punti basilari dello studio.

Il progetto di sistema tributario di Cosciani partiva dall’identificazione di alcuni elementi di grave inefficienza dell’allora sistema tributario, tra i quali: un’eccessiva pluralità di imposte e tasse, anche sullo stesso oggetto dello Stato e degli Enti locali, che rendevano quasi impossibile al cittadino comune conoscere, in pratica, i tributi dovuti e pertanto occorreva rendere trasparente il sistema tributario, riducendo drasticamente il numero delle imposte e tasse; una pluralità di enti tassatori, mentre la capacità contributiva del cittadino è unica, ossia delimitata da una “sola tasca” e risultava, di conseguenza, probabile che il cittadino si trovasse economicamente danneggiato irrazionalmente dalla irruenza scoordinata di più enti pubblici su di lui, occorreva, quindi, istituire un sistema fiscale nazionale unitario; l’accertamento fiscale, da parte dei Comuni, risultava precario e corrotto: precario, perché la dimensione territoriale dei Comuni, come ereditata storicamente, era, nella generalità dei casi, inadeguata, rispetto al

79 S. Bartole, L. Vandelli, F. Mastragostino, Le autonomie territoriali: ordinamento delle

territorio attraversato dalle attività economiche delle aziende e delle persone, e poi era corrotto perché, nella ristrettezza dell’ambiente locale, le autorità locali erano troppo condizionate da rapporti di amicizia, parentela, piccoli interessi con la gente del posto, così da non poter fare l’accertamento con il necessario distacco personale, occorreva, ancora, accentrare presso lo Stato l’accertamento e la riscossione; la capacità contributiva risultava dualistica, soprattutto tra nord e sud, cosicché il Paese palesava una dotazione di infrastrutture e servizi sociali molto diversa tra le diverse Regioni, per cui occorreva, infine, centralizzare il potere fiscale presso lo Stato per permettere una politica di riequilibrio territoriale della spesa pubblica.

Nel Settembre del 1964, il Ministro per le finanze nominò un Comitato di studio per l’attuazione della riforma, ma a causa di forti discussioni sul contenuto della riforma e sui modi e tempi della sua attuazione, il prof. Cosciani fu indotto a chiedere al nuovo Ministro per le finanze Preti di essere esonerato dall’incarico. Il Comitato continuò i suoi lavori sotto la vice presidenza del prof. Visentini succeduto al prof. Cosciani e finalmente fu predisposto il disegno di legge che, corredato da una esauriente ed approfondita relazione, venne presentato alla Camera dei Deputati nei primi giorni dell’anno 1967.

Come detto, fino ai primi anni Settanta, gli Enti locali avevano pertanto goduto di una certa autonomia finanziaria, in quanto più dei due terzi delle entrate correnti erano di origine tributaria, di cui oltre la metà costituita da imposte e da risorse proprie. Il sistema di finanza locale che precedette la riforma degli anni Settanta fu, infatti, caratterizzato da numerose imposte, che pur non procurando singolarmente un gettito elevato, riuscivano a coprire la maggior parte delle entrate di tali enti. Si è stimato, infatti, che, nel periodo 1970-1972, le entrate dei tributi propri rappresentavano circa il 55% delle entrate correnti totali per i Comuni, mentre le entrate extratributarie oscillavano intorno al 30%: di conseguenza solo il 15% delle entrate correnti totali dei Comuni derivava da trasferimenti a carico del bilancio statale80. Nell’ambito delle entrate tributarie

allora vigenti ricordiamo queste tre grandi componenti: a) le quote di compartecipazione al gettito di alcuni tributi erariali; b) le sovrimposte e le

80 M. Leccisotti, P. Marino, L. Perrone, L’autonomia finanziaria degli enti locali territoriali,

addizionali ai tributi erariali; c) i tributi propri. La prima categoria era rappresentata da una quota del gettito ottenuto dal fisco centrale e da una quota dell’I.G.E., l’imposta generale sull’entrata. Le sovrimposte e le addizionali consistevano, invece, in aliquote aggiuntive a quelle statali applicate dagli enti minori sull’imponibile già accertato per i tributi erariali, come la sovraimposta sul reddito dei terreni e dei fabbricati, e l’addizionale del 5% sui redditi agrari. I tributi locali rivestivano importanza in chiave psicologica, nonché chiaramente sotto quello della responsabilità di amministrazione, sebbene il loro gettito non sia mai stato molto consistente in termini relativi81.

Uno degli obiettivi dichiarati della riforma tributaria degli anni Settanta fu quello di fornire al Governo centrale un maggior numero di strumenti per il controllo dell’economia: è in tal senso che va letta la drastica riduzione dell’autonomia tributaria locale. Il principio di attribuire al Governo centrale la quasi totalità delle entrate tributarie, rendendo la finanza dei Comuni una finanza di trasferimenti, si affermò soprattutto in conseguenza della situazione economica che si andò profilando in quegli anni82: il tasso di sviluppo subì un rallentamento; si accrebbe la spesa statale, mentre le entrate si mantennero stazionarie; si manifestò una crisi fiscale dello Stato ed in questa situazione venne varata la riforma tributaria che, per quanto riguarda gli Enti locali, prevedeva interventi di natura transitoria tendenti a disciplinare i rapporti finanziari tra i singoli enti e lo Stato. Nel 1972, la maggior parte dei Comuni aveva perso ogni margine di manovra delle aliquote, inoltre la realizzazione della riforma causò la scomparsa di due tributi e cioè l’imposta di famiglia e quella sui consumi che costituivano l’ossatura delle finanze comunali. L’imposta di famiglia era un tributo personale che diventava

81 Tale gettito infatti è cresciuto da 168,2 miliardi, nel 1951, a 1215,6 miliardi nel 1972, pari,

rispettivamente, all’1,5% e all’1,6% del prodotto interno lordo (Pil). Il grado di copertura delle entrate tributarie globali sulle uscite effettive scese dal 59%, del 1951, al 46,8% del 1972 e la quota delle uscite correnti garantita dalle entrate correnti diminuì dall’81,7% al 66%, incrementando il disavanzo di parte corrente. L’indebitamento aumentò dai 157,1 miliardi, pari all’1,5% del Pil, della fine del 1951 ai 10523,4 miliardi, pari al 15,2% del Pil, di fine 1972, i due terzi dei quali per spese correnti ed il resto per spese d’investimento.

82 E’ utile richiamare in merito le affermazioni di uno studioso favorevole ad una finanza locale

accentrata o di mero trasferimento, A. Pedone, che nella sua opera Note sulla finanza regionale, in

Politica ed Economia, 1976, p. 32, scrive: “questa crisi, che si manifestava con l’insufficienza delle entrate a coprire un volume rapidamente crescente di spese, era una delle tante facce nascoste del rapido sviluppo di questo secondo dopoguerra, riflettendo i problemi creati dai massicci spostamenti territoriali e settoriali della popolazione, dal processo di concentrazione urbana e dalle conseguenti pressanti domande di servizi pubblici locali”.

incompatibile con la centralità che avrebbe assunto l’imposta erariale sul reddito delle persone fisiche, mentre le altre imposte sui consumi furono sostituite con l’imposta sul valore aggiunto83.

Fu quindi abolita la maggior parte dei tributi che caratterizzavano l’ordinamento precedente, i Comuni e le Province furono espropriati delle imposte con le quali riuscivano ad autofinanziarsi e compensati con trasferimenti sostitutivi da parte dello Stato, il quale contemporaneamente istituì due nuove imposte locali: l’ILOR, imposta locale sui redditi, e l’INVIM, imposta sull’incremento di valore degli immobili84. E’ da evidenziare tuttavia che la fissazione degli originari

“contributi sostitutivi dei tributi soppressi” cristallizzava una situazione di evidente squilibrio: gli enti che avevano un gettito elevato ottenevano contributi superiori rispetto agli enti che per povertà del territorio o, assai più diffusamente, per una certa leggerezza nell’applicare l’imposizione avevano incassi minori.

1.2. IL DISEGNO DI LEGGE DELEGA PER LA RIFORMA

Il disegno di legge delega per la riforma tributaria sottolineava con vigore la volontà di apportare delle innovazioni alle finanze dei Comuni e delle Province. In particolare, la relazione che accompagnò tale disegno, nella parte dedicata alla finanza locale, richiamava tutte le novità, i vecchi tributi locali aboliti, i nuovi tributi introdotti, le quote di entrate erariali assegnate, i tributi rimasti in vigore, il Fondo speciale e il Fondo di risanamento85.

Con la legge delega n. 825 del 9 Ottobre 1971, fu conferita la delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria: scomparvero diverse imposte, mentre furono istituiti, come anticipato, l’ILOR86e l’INVIM87. L’art. 4 della citata legge delega dettò i principi ed i criteri guida per la disciplina dell’imposta

83 G. Marongiu, Storia dei tributi degli enti locali (1861-2000), Genova, 2001, pp. 289-290. 84 L’imposta sull’incremento di valore degli immobili venne prevista in seguito all’abolizione

dell’imposta sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili che fu istituita, in un periodo di intensissima speculazione edilizia, con la legge n. 246 del 5 Marzo 1963, con lo scopo di colpire il cosiddetto “utile senza merito” che i proprietari di aree fabbricabili conseguivano per il solo fatto che gli abitati si estendevano e gli enti pubblici provvedevano alle opere di urbanizzazione primaria. Venuti meno i motivi contingenti, si decise di introdurre nell’ordinamento tributario italiano un’imposta destinata a colpire tutti gli incrementi di valore immobiliare.

85 G. Marongiu, cit., p. 291.

86 L’ILOR, l’imposta locale sui redditi, venne istituita con il D.P.R. n. 599 del 29 Settembre 1973. 87 L’istituzione dell’INVIM (imposta sugli incrementi di valore degli immobili) avvenne con il

locale sui redditi, un tributo reale e proporzionale su tutti i redditi, tranne quelli da lavoro, accertato dallo Stato, ma il cui gettito doveva essere attribuito ai Comuni, alle Province, alle Regioni, alle camere di commercio e alle aziende autonome.

L’articolo 6 disciplinava l’imposta sugli incrementi di valore degli immobili,

stabilendo che doveva trattarsi di un tributo solo comunale, accertato dallo Stato e per il quale ai Comuni era concessa la possibilità di determinare le aliquote. Si trattava di due nuovi grossi tributi a cui si accompagnò, come si disse, l’impegno di stabilire “entro il 31 Dicembre 1977, con legge ordinaria, la disciplina delle entrate tributarie delle Province e dei Comuni, diverse da quelle previste nei precedenti articoli 4 e 6, in relazione alla riforma tributaria e alle funzioni e ai compiti che con nuovo ordinamento risulteranno assegnati, per legge, agli enti medesimi”88.

Prima ancora che la riforma entrasse a regime, cioè nel 1972, venne già stabilito relativamente all’imposta locale sui redditi che tale imposta si sarebbe applicata con aliquota massima e quindi uniforme e che il relativo gettito sarebbe stato acquisito allo Stato: ciò fu sancito per il quadriennio 1974-197789. Ma, in seguito, con diversi provvedimenti, l’aliquota venne stabilita in modo uniforme con legge dello Stato al cui bilancio continuò ad essere acquisito il gettito90. La riforma tributaria non mantenne il primitivo disegno e non attribuì agli Enti locali l’ILOR, come era previsto in origine. Questa imposta fu applicata e rimase sempre in capo allo Stato, cosicché Comuni e Province rimasero senza una forma razionale di autonomia finanziaria. Possiamo perciò affermare che il sistema di parziale autonomia, così come delineato dalla legge delega e dal decreto che la disciplinò91, non fu mai applicato. La stessa sorte ebbe, relativamente alle aliquote, anche l’imposta sugli incrementi di valore degli immobili92.

L’approvazione della riforma tributaria, nel 1971, e la sua graduale entrata in vigore, nel 1973 e nel 1974, ha rappresentato un radicale cambiamento del sistema delle entrate locali. Infatti, per far fronte al mancato gettito derivante dalla

88 Ciò era quanto stabiliva l’art. 12 della legge delega n. 825 del 9 Ottobre 1971. 89 Si rinvia all’art. 21 del D.P.R. n. 633 del 26 Ottobre 1972.

90 Con l’art. 121 del TU delle imposte dirette del 1986, l’aliquota dell’imposta venne fissata, in via

definitiva, al 16,2%.

91 D.P.R. 29 Settembre 1973, n. 599.

92 Aliquote uniformi per tutti i Comuni furono disposte dall’art. 22 del d.l. n. 786 del 22 Dicembre

soppressione delle principali imposte amministrate autonomamente dai Comuni, si procedette alla devoluzione di fondi statali (compartecipazioni) commisurati, per ogni ente, al gettito incassato nell’anno precedente all’entrata in vigore della riforma93. I trasferimenti erariali, però, non furono adeguati alle funzioni dei Comuni e non riuscirono a tenere il passo con l’inflazione esplosa di lì a pochi mesi dall’entrata in vigore della riforma stessa, tanto che si ebbero addirittura problemi per reperire i fondi necessari a pagare gli stipendi dei dipendenti. Per far fronte alle spese correnti, i Comuni ebbero la possibilità di far ricorso all’indebitamento considerato come fonte normale di finanziamento, tanto da causarne uno sviluppo rilevante e anomalo che fece innescare un circolo vizioso di crescenti deficit e crescenti indebitamenti94.

Il risultato è stato la pratica soppressione dell’autonomia tributaria locale, visto che, nel 1972, i tributi soppressi costituivano il 92,2% degli incassi per entrate tributarie dei Comuni e il 98,9% per le Province.

La riforma tributaria rappresentò comunque uno strumento di razionalizzazione dell’amministrazione del sistema economico. C’è da evidenziare inoltre che in genere, gli amministratori locali non si opposero a tale riforma, in quanto videro in quei provvedimenti un alleggerimento delle proprie responsabilità politiche e amministrative connesse alla gestione dei tributi. Inoltre il nuovo sistema di finanziamento aveva un carattere transitorio e sembrava garantire, per l’immediato futuro, una certa espansione della capacità di spesa. Queste erano le motivazioni generali su cui convergevano le posizioni delle varie parti politiche nell’accettare la riforma95. La situazione divenne, però, sempre più difficile poiché

gli amministratori locali, con la sostanziale abolizione dell’autonomia impositiva, si preoccuparono sempre meno della copertura delle spese deliberate. Cominciarono, così, le richieste di provvedimenti urgenti a favore degli Enti locali; vi fu un consenso unanime nel riconoscere la necessità di risanamento dei bilanci come premessa indispensabile per attuare la riforma della finanza locale.

93 G. Brosio, D. Hyman, W. Santagata, Gli enti locali fra riforma tributaria, inflazione e

movimenti urbani. Un contributo all’analisi del dissesto della finanza locale, Torino, 1978, p. 6.

94 G. Marongiu, cit., p. 29.