• Non ci sono risultati.

Il federalismo fiscale: evoluzione storica e caratteristiche del fenomeno nell'ordinamento italiano

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Il federalismo fiscale: evoluzione storica e caratteristiche del fenomeno nell'ordinamento italiano"

Copied!
109
0
0

Testo completo

(1)

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

Laurea Magistrale in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni

IL FEDERALISMO FISCALE: EVOLUZIONE STORICA

E CARATTERISTICHE DEL FENOMENO

NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

CANDIDATO RELATRICE

GIANMARIA PRESTIGIOVANNI CHIAR.MA PROF.SSA ELETTRA STRADELLA

ANNO ACCADEMICO 2017–2018

¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

(2)

INDICE

INTRODUZIONE Pag. 1

Capitolo 1: L’AUTONOMIA FINANZIARIA NELLA

COSTITUZIONE DEL ’48 Pag. 9

1. Regioni e autonomie regionali nell’Assemblea Costituente “ 9 2. L’originario articolo 119 della Costituzione: dalle origini ai profili

generali del testo approvato nel ’48 “ 12

3. I punti principali dell’originario articolo 119 della Costituzione “ 15

3.1. L’autonomia finanziaria “ 16

3.2. L’attività tributaria “ 18

3.3. I contributi speciali “ 21

3.4. La legge statale di coordinamento “ 22

Capitolo 2: ALLE ORIGINI DEL FEDERALISMO FISCALE

ITALIANO Pag. 27

1. La riforma finanziaria degli anni ’70 “ 27

1.1. La situazione della finanza comunale alla vigilia della riforma

tributaria degli anni ’70 “ 28

1.2. Il disegno di legge delega per la riforma “ 31

1.3. Gli aspetti negativi della riforma tributaria “ 34

2. Gli interventi legislativi in materia finanziaria degli anni ’90 “ 37 2.1. La finanza locale nel nuovo ordinamento delle autonomie

locali “ 38

2.2. I problemi di attuazione: la legge delega n. 421 del 1992 “ 39

2.3. L’attuazione della legge delega “ 40

2.4. Gli interventi della fine degli anni ’90 “ 41

Capitolo 3: LA REVISIONE COSTITUZIONALE DEL TITOLO V

DELLA COSTITUZIONE E IL NUOVO ART. 119 Pag. 45

1. I principi guida della riforma costituzionale “ 46

1.1. Il principio di equiordinazione “ 46

1.2. Differenziazione ed uniformità “ 48

1.3. Separazione, responsabilità e cooperazione “ 49

1.4. Il principio di sussidiarietà “ 50

2. La disciplina dell’autonomia finanziaria nel nuovo articolo 119

della Costituzione “ 52

2.1. I soggetti dell’autonomia finanziaria “ 52

2.2. L’autonomia di entrata e di spesa prevista dal comma 1 del

(3)

2.3. Le risorse ordinarie degli enti territoriali: i tributi propri Pag. 54 2.4. La compartecipazione al gettito dei tributi erariali “ 56

2.5. Il fondo perequativo “ 57

2.6. Le risorse aggiuntive e gli interventi speciali dello Stato “ 60 2.7. Il patrimonio delle Regioni e degli Enti locali e il ricorso

all’indebitamento “ 62

3. Verso un federalismo “ 63

Capitolo 4: L’ATTUAZIONE DELL’ART. 119 DELLA COSTITUZIONE E LA LEGGE DELEGA SUL

FEDERALISMO FISCALE Pag. 65

1. Federalismo fiscale: la legge n. 42 del 2009 “ 66

1.1. I contenuti della legge e i nodi da sciogliere “ 66

1.2. La Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del

federalismo fiscale “ 68

1.3. La Conferenza permanente per il coordinamento della finanza

pubblica “ 69

1.4. La Commissione parlamentare per l’attuazione del

federalismo fiscale “ 70

1.5. L’aspetto procedimentale della legge delega e la formazione

dei decreti delegati “ 72

2. I principi e i criteri direttivi generali di attuazione del federalismo

fiscale: la potestà tributaria delle Regioni e degli Enti locali “ 74

2.1. Le Regioni “ 76

2.2. Comuni, Province e Città metropolitane “ 77

2.3. Ulteriori disposizioni “ 79

3. La legge e i profili di rilievo costituzionale “ 80

4. I tentativi di attuazione della legge delega: i decreti legislativi “ 82 Capitolo 5: L’ALTERAZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE

ITALIANO: DALLA CRISI FINANZIARIA ALLA

LEGGE COSTITUZIONALE DEL 2012 Pag. 88

1. La paralisi finanziaria degli enti territoriali: l’(in)attuazione del

federalismo di fronte la crisi economica “ 90

2. Le modifiche apportate dalla legge costituzionale n. 1 del 2012 “ 93 2.1. La legge n. 243 del 2012 e gli effetti sugli enti territoriali “ 95 2.2. L’attuazione delle regole previste dalla legge n. 243 del 2012 “ 98

(4)

INTRODUZIONE

Con l’approvazione della legge n. 42 del 5 Maggio 2009 “di delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione”, in vigore dal 21 Maggio 2009, avrebbe dovuto prendere vita il federalismo fiscale, che avrebbe dovuto costituire una svolta epocale nel sistema dei rapporti istituzionali in tema di entrate, gestione delle risorse e conseguenti responsabilità. Prima di affrontare il tema e di passare ad una prima ed introduttiva analisi circa la legge delega n. 42 del 2009, occorre soffermarsi sul termine “federalismo fiscale” per alcune introduzioni riflessive.

Il termine “fiscal federalism” è stato usato per la prima volta da un gruppo di studiosi americani per indicare la teoria del decentramento di alcuni compiti pubblici negli Stati Uniti d’America, e nello specifico è stato coniato da R. Musgrave nel 1959, nell’opera Public Finance in Theory and Practice, per designare quegli studi diretti a riconsiderare i modelli di riparto delle competenze in materia finanziaria fra centro e periferia in funzione di una maggiore giustizia ed equità nella produzione e distribuzione dei beni pubblici. In particolare, il “fiscal federalism” faceva parte di quell’imponente costruzione teorica diretta ad attribuire allo Stato compiti di allocazione, distribuzione e stabilizzazione dell’economia. La prima osservazione è che il termine ha origine economiche, non giuridiche. La propensione della scienza economica a superare i confini degli Stati ha fatto sì che la teoria del federalismo fiscale si diffondesse in un primo momento in tutti gli ordinamenti liberal-democratici1.

In breve tempo l’espressione ha acquistato un significato più ampio ed è stata usata per descrivere le “relazioni finanziarie intergovernative”2 negli ordinamenti caratterizzati da più livelli di governo3. In questo senso, il federalismo fiscale ha

costituito una chiave di lettura per lo studio dei rapporti tra centro e periferia e ha

1 Sull’estensione a tutti gli ordinamenti decentrati del concetto si vedano L. Greco, Federalismo

fiscale: una nozione economica, in Federalismo fiscale, 2007, pp. 39 e ss.; D. Fausto, Note sulla teoria economica del federalismo fiscale, in D. Fausto, F. Pica (a cura di), Teoria e fatti del federalismo fiscale, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 103 e ss.

2 R. Bifulco, Le relazioni intergovernative finanziarie negli Stati composti tra Costituzione,

politiche costituzionali e politiche di maggioranza, in V. Atripaldi, R. Bifulco (a cura di), Federalismi fiscali e Costituzioni, Giappichelli, Torino, 2001, pp. 16 e ss.

3 G. G. Carboni, Federalismo fiscale comparato, in Studi di Federalismi.it, Rivista di diritto

(5)

contribuito alla elaborazione dei modelli di funzionamento degli Stati composti4. Un secondo aspetto è che esso è connotato da esigenze di armonizzazione del sistema fiscale ovvero di accentramento degli strumenti della finanza pubblica. Il “Federalismo fiscale” designa, all’origine, un processo di senso inverso/opposto a quello che sta investendo il nostro Paese, di progressivo spostamento di competenza finanziaria dalla periferia al centro in funzione di una più efficace ed equa ripartizione delle risorse pubbliche5.

Il concetto di federalismo è stato spiegato molto bene da Carl Joachim Friedrich, che lo ha definito un processo dinamico, “federalizing process”, attraverso il quale le comunità politiche di un territorio tendono a ripartire il potere tra livelli di governo6. Ci sono delle “invarianti”, ovvero dei criteri e requisiti costituzionali

senza i quali non si può nemmeno parlare di federalismo: l’autonomia legislativa residuale in capo al singolo territorio; un assetto dei poteri centro-periferia equilibrato, dove l’uno non tracima sull’altro; una giustizia costituzionale arbitro dei conflitti fra il Governo centrale e il Governo periferico; una camera parlamentare espressione ovvero rappresentativa delle singole realtà territoriali; una giustizia decentrata sul territorio; una costituzione locale che sia in armonia con quella nazionale; la possibilità di consentire il distacco/aggregazione di Enti locali da un macroterritorio a un altro. E poi c’è l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa in capo ai singoli territori.

Ecco, il federalismo si completa o, se piace di più, non può prescindere, dal suo aspetto fiscale. Il federalismo o è (anche) fiscale o non è. Soprattutto qui, vale ancora di più la dottrina di Friedrich: il federalismo, anche nella sua declinazione fiscale, è dinamico. L’attribuzione delle funzioni operata dalla finanza pubblica dipende dalla tradizione costituzionale dello Stato, ma anche dalla contingenza economico-finanziaria in cui versa lo Stato. Come è stato correttamente scritto da Giuliana Giuseppina Carboni in un saggio dedicato al federalismo fiscale “La possibilità di applicare i principi del fiscal federalism a Stati con

4 I rapporti finanziari hanno costituito un modelli di “attrazione” per tutti i rapporti centro-periferia

(amministrativi, normativi, politici), che sono stati denominati e descritti con parole e concetti propri dell’economia: federalismo competitivo, cooperativo, concorrente, ecc.

5 G. Bizioli, L’attuazione dell’art. 119 Cost.: prime riflessioni sul c.d. “federalismo fiscale”,

Università di Bergamo, in www.salviamolacostituzione.bg.it.

(6)

un’organizzazione costituzionale molto diversa, che spesso riflette un diverso spirito del costituzionalismo che ne ha accompagnato la nascita, non implica il conseguimento di risultati equivalenti. In presenza di rilevanti differenze istituzionali e di una concezione dello Stato distante da quella in cui la teoria ha avuto origine, i principi del fiscal federalism possono essere intesi, e saranno interpretati, in modo assai diverso. Dato il contesto istituzionale diversificato al quale è stata applicata, la teoria del federalismo fiscale è divenuta una teoria del decentramento fiscale, che ha l’obiettivo di indagare i costi e i benefici della distribuzione del potere finanziario tra più centri di decisione”7.

Le ragioni che hanno indotto i legislatori di diversi Stati a promuovere il decentramento fiscale sono le stesse utilizzate dagli economisti per sostenere la teoria del federalismo fiscale: la possibilità di soddisfare al meglio le aspettative dei cittadini di un territorio, i vantaggi per essi che derivano dalla competizione (orizzontale e verticale), il controllo del potere attraverso la responsabilità politico-finanziaria8.

Da questa analisi introduttiva si può pertanto dedurre come il federalismo fiscale sia diventato un modello capace di comprendere ordinamenti con diverse istituzioni, differenti sistemi politici e elettorali, che possano essere organizzati su due o più livelli, avere una diversa distribuzione di poteri, quale che sia la dinamica delle relazioni intergovernative9.

La questione del federalismo fiscale, e la sua attuazione, come anticipato, ha assunto rilevanza in Italia in seguito alla emanazione della legge delega n. 42 del 2009.

Quella delineata dal legislatore del 2009 è una struttura di grande complessità e assai impegnativa sul piano concettuale. Anzitutto è stato osservato come la legge sul federalismo fiscale possa costituire, in un certo senso, sia un punto di arrivo di

7 T. E. Frosini, Paese che vai, federalismo (fiscale) che trovi …, in Rivista dell’Associazione

Italiana dei Costituzionalisti, N. 00, 2 Luglio 2010.

8 L’analisi empirica ha dimostrato che nei paesi OECD c’è la tendenza degli Stati con elevato

livello di decentramento fiscale a ridurre lo stesso, mentre i Paesi che hanno un forte accentramento vanno nella direzione opposta, alla ricerca di un livello ideale. Promuovere la crescita economica attraverso il decentramento fiscale ha i suoi limiti, ed uno di essi è la necessità di intervento del governo per controllare gli effetti dell’allocazione delle risorse nel territorio. U. Thießen, Fiscal Decentralisation and Economic Growth in High-Income OCED Countries, in

Fiscal Studies, 24 Marzo 2003, pp. 237 e ss.

(7)

un importante ciclo di riforme istituzionali in tema di decentramento politico iniziato negli anni Novanta, sia, nello stesso tempo, il punto di partenza per la costruzione di un nuovo assetto delle relazioni, non solo finanziarie e fiscali, tra Stato, Regioni ed Enti locali ancora in larga misura da tracciare. Un punto di partenza che potrebbe condurre (questo il principale motivo di interesse e, nello stesso tempo, di perplessità suscitato da tale legge) ad un assetto di relazioni di tipo “quasi federale”, intendendo con tale definizione un sistema di decentramento politico quantitativamente molto intenso, o comunque molto più di quanto non lo sia l’attuale; ovvero ad un assetto del tutto simile all’attuale, che mantiene saldamente al centro il timone delle politiche pubbliche del Paese, e rispetto al quale l’unica novità consisterebbe nell’introduzione di qualche strumento di “premialità” atto a consentire una maggiore responsabilizzazione delle classi politiche regionali e locali nella determinazione delle loro politiche di spesa. A causa di questa ambiguità di fondo sui suoi possibili esiti, tipica delle leggi delega ma che nel caso della legge n. 42 del 2009 assume dimensioni insolitamente vistose, risulta più facile descrivere il primo aspetto circa le ragioni e gli intendimenti che sottendono alla suddetta legge delega; mentre risulta più difficile, se non impossibile, immaginare quale sarà l’assetto delle relazioni tra Stato, Regioni ed Enti locali risultante dalla piena attuazione della legge delega sul federalismo fiscale.10

Circa la legge delega n. 42 del 2009, si può ritenere che essa svolga una duplice funzione; in primis la legge coglie l’urgenza dell’attuazione specifica dell’art. 119 Cost., sottolineata a più riprese dalla Corte costituzionale “al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo Titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove disposizioni; inoltre, la permanenza o addirittura la istituzione di forme di finanziamento delle Regioni e degli Enti locali contraddittorie con l’art. 119 della Costituzione espone a rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali” (sent. 370/2003). Pertanto essa rappresenta un punto di arrivo; soprattutto perché, dando finalmente compiuta attuazione al nuovo articolo 119

10 P. Carrozza, La legge sul federalismo fiscale: delega in bianco o principi - decalogo per una

laboriosa trattativa?, in Il Foro Italiano, V, L’attuazione dell’art. 119 Cost. e la legge delega sul federalismo fiscale (l. 5 maggio 2009 n. 42), Roma, 2010, pp. 1-3.

(8)

della Costituzione e delineando una autonomia finanziaria e fiscale delle autonomie, con il Titolo V riformato nel 2001 detta legge completa il processo di decentramento avviato dalle riforme Bassanini e culminato, per l’appunto, nel nuovo Titolo V.11

Molti studiosi infatti hanno osservato che quello in esame è il più importante provvedimento di attuazione del riformato Titolo V della seconda parte della Costituzione dopo la c.d. legge La Loggia (l. 131/2003) che recava le “disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 Ottobre 2001, n. 3”.

Quest’ultima legge però evitò di dare attuazione all’art. 119 Cost., in quanto la specificità e la delicatezza della materia finanziaria rendevano necessario un intervento ad hoc, come lo è stato effettivamente quello applicato con l’emanazione della legge delega n. 42 del 5 Maggio 2009, la quale per l’appunto ha proprio tale finalità, volendo pertanto colmare una lacuna considerata come un vero e proprio impedimento di fatto alla piena realizzazione della revisione costituzionale del 200112. Il nuovo sistema delle autonomie territoriali ha effettivamente inizio solo se vi è una disciplina sulla loro autonomia di entrata. Ma la legge sul federalismo fiscale può altresì essere considerata un punto di partenza, in quanto una effettiva autonomia finanziaria e fiscale delle autonomie regionali e locali appare verosimilmente in grado a sua volta di modificare il nostro ordinamento, conferendo alle autonomie nel loro complesso una forza ed un peso che il Titolo V riformato ha lasciato soltanto intravedere.13

Oltre al completamento di quanto previsto dal nuovo Titolo V della Costituzione, allo stesso tempo quindi la legge delega rilancia direttamente il completamento dell’attuazione complessiva del Titolo V stesso. Non a caso fin dalle sue origini il progetto di legge delega sul federalismo fiscale era accompagnato da altri d.d.l. governativi in tema di autonomie14; ma anche i nuovi statuti regionali dovranno

11 P. Carrozza, La legge sul federalismo fiscale: delega in bianco o principi - decalogo per una

laboriosa trattativa?, cit., p. 3.

12 A. Ferrara, G. M. Salerno, Il “federalismo fiscale”. Commento alla legge 42 del 2009, Jovene,

Napoli, 2010, p. 1.

13 P. Carrozza, La legge sul federalismo fiscale: delega in bianco o principi - decalogo per una

laboriosa trattativa?, cit., p. 3.

14 Tra cui un d.d.l. di “delega al governo per l’adeguamento delle disposizioni in materia di Enti

(9)

essere rivisti, soprattutto per quel che riguarda il nuovo potere impositivo regionale.

Più in generale, qualora i tanti decreti di attuazione previsti dalla legge n. 42 del 2009 siano attuati con la ratio del Titolo V della Costituzione, dovremmo vedere un assetto finanziario e fiscale dello Stato, ma altresì delle Regioni e degli Enti locali più stabile, con la fine di leggi finanziarie che dettano occasionalmente e congiunturalmente le politiche pubbliche regionali e locali, determinandone annualmente la spesa così da non consentire neppure alle Regioni più virtuose la possibilità di impostare una serie di programmazioni delle proprie politiche pubbliche negli ambiti di competenza affidati15.

Come detto in precedenza, in breve la legge delega n. 42 del 2009 costituisce la prima attuazione “organica” del riformato art. 119 della Costituzione (ma anche dell’originario art. 119 Cost., rimasto di fatto, come vedremo, inattuato per oltre cinquant’anni), e proprio per tale motivo mostra tutte le ambiguità e le contraddizioni di una norma costituzionale che, affermando in maniera ancora più netta rispetto alla sua precedente disposizione l’autonomia di entrata e di spesa di Regioni ed Enti locali, ha l’intenzione di coniugare i principi di unità e differenziazione (tensione caratteristica di ogni forma di decentramento politico su base territoriale) senza dare indicazioni ben precise circa le modalità con cui si dovrebbe raggiungere tale obiettivo16.

Il fatto è che il nuovo articolo 119 Cost., pur riprendendo nella forma e nell’articolazione la sua precedente versione del ’48, ha un contenuto più articolato e complesso nonché diverso: esso disciplina, come vedremo nel corso di tale elaborato, non più solamente l’autonomia finanziaria delle Regioni, bensì l’autonomia finanziaria (di entrata e di spesa) di Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane.

delle autonomie”, un d.d.l. recante “disposizioni in materia di individuazione ed allocazione delle funzioni fondamentali, di conferimento delle funzioni amministrative statali alle Regioni e agli Enti locali e norme di principio per la legislazione regionale”, un d.d.l. recante misure per i piccoli Comuni e un d.d.l. di delega per le Città metropolitane: di tutte queste proposte sembra essere sopravvissuto solo un d.d.l. relativo alle funzioni fondamentali di Comuni e Province, in buona parte calato con un emendamento governativo nel testo della finanziaria 2010.

15 P. Carrozza, La legge sul federalismo fiscale: delega in bianco o principi - decalogo per una

laboriosa trattativa?, cit., pp. 3-4.

(10)

Pertanto alla equiordinazione costituzionale di Stato, Regioni e Province previste dall’art. 114 della Costituzione, si affianca una autonomia finanziaria e fiscale costituzionalmente garantita a tutte le autonomie. Ma in nessun Paese di derivazione liberale a struttura decentrata è stato possibile realizzare un assetto istituzionale che fosse caratterizzato dalla presenza contemporanea di uno Stato forte, di Regioni forti, e di poteri locali forti, nel quale tutti gli enti garantiti costituzionalmente godano contemporaneamente di un’ampia autonomia finanziaria (di risorse, fiscale e di spesa). Quindi la domanda posta da alcuni studiosi è se riuscirà il nostro Paese a realizzare un simile assetto istituzionale, come vorrebbero il nuovo art. 119 Cost. e la nuova legge delega sul federalismo fiscale17.

Oltre ai complessi problemi sia di tipo politico che tecnico posti da tale quesito, vi sono anche quelli posti in essere dal nuovo art. 119 Cost., il quale aumenta come già anticipato la tensione tra esigenze di unità e di autonomia, di differenziazione18. Inoltre il coordinamento finanziario e tributario deve oggi rispondere non solo ad esigenze di equilibrio interno, quanto soprattutto a un imperativo di equilibrio di sistema rispetto ai vincoli comunitari, specie al patto di stabilità, e deve assicurare che il prelievo fiscale complessivo si assesti sulla media europea, al fine di mantenere alta la concorrenzialità delle imprese e dei servizi rispetto ai partners europei19.

A tutte queste esigenze la legge delega n. 42 del 5 Maggio 2009 risponde mediante due principi chiave, tramite i quali è riuscita ad ottenere, in sede di approvazione, un vasto consenso di tipo “bipartisan”: il superamento del criterio della “spesa storica” come strumento di determinazione dei fabbisogni finanziari

17 P. Carrozza, La legge sul federalismo fiscale: delega in bianco o principi - decalogo per una

laboriosa trattativa?, cit., p. 4.

18 Infatti l’articolo, da un lato, al suo 3° comma, ultimo inciso, riferisce ora la compartecipazione

delle autonomie ai tributi erariali al territorio di riferimento, alimentando i timori di chi vede nel federalismo fiscale un fattore di ulteriore distacco tra aree ricche ed aree povere del Paese; ma, dall’altro lato, sempre il 3° comma prevede che il coordinamento dell’autonomia tributaria di Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane riguardi non solo la finanza pubblica ma anche il sistema tributario: l’autonomia di ben quattro potenziali soggetti impositori di tributi impone, dunque, un coordinamento non solo in termini finanziari, ma altresì tributari, per far si che la sete di risorse di tutti questi soggetti impositori non sommerga i cittadini in un sistema tributario che finirebbe per far crescere oltremodo il peso dell’imposizione, sottraendolo da qualsiasi controllo e rendendolo molto più gravoso di quanto non accada negli altri Paesi europei.

19 P. Carrozza, La legge sul federalismo fiscale: delega in bianco o principi - decalogo per una

(11)

in favore delle autonomie, sostituito con il principio del “costo e fabbisogno standard”; ed il principio di “responsabilità” che vuole la massima corrispondenza possibile tra responsabilità finanziaria e responsabilità amministrativa oltre all’introduzione di efficaci strumenti di premialità, per i comportamenti virtuosi delle autonomie, e di sanzione, per chi non rispetta gli equilibri economico-finanziari o non assicura i livelli essenziali di cui all’art. 117, comma 2, lettera m) Cost.20 Per portare avanti un’analisi più approfondita sui contenuti della legge delega n. 42 del 2009 e, di conseguenza, sul federalismo fiscale, risulta necessario percorrere alcune tappe precedenti alla emanazione di detta legge.

Il lavoro pertanto tende ad illustrare l’autonomia finanziaria di Regioni ed Enti locali prevista dall’originario testo della Costituzione del 1948, analizzando le disposizioni previste dal vecchio articolo 119 della Costituzione; nel secondo capitolo verranno illustrate quelle che possono essere definite le origini del federalismo fiscale italiano, ci si soffermerà nello specifico sulle riforme degli anni ’70 e ’90 del 1900 che hanno portato modifiche al sistema finanziario nazionale e locale; nel terzo capitolo ci si sofferma sulla riforma operata alla parte seconda del Titolo V della Costituzione, avvenuta con la legge costituzionale n. 3 del 2001, analizzando i principi base della riforma stessa e, in particolare, il contenuto del nuovo art. 119 Cost., che, tra le altre, ha introdotto una maggiore autonomia finanziaria di entrata e di spesa non solo per le Regioni, ma anche per gli Enti locali sub-regionali; nel quarto capitolo verrà analizzata la legge delega n. 42 del 2009 di attuazione del riformato art. 119 Cost. e del federalismo fiscale, evidenziando in particolar modo gli istituti previsti dalla legge stessa, l’iter procedimentale di attuazione della legge e dei decreti legislativi, i principi e i criteri su cui devono basarsi questi ultimi affinché venga data corretta attuazione al federalismo fiscale, ed infine i tentativi di attuazione della legge delega da parte dell’esecutivo attraverso l’emanazione dei decreti legislativi; infine nel capitolo cinque si analizzerà l’impatto che la recente crisi economico-finanziaria e la legge costituzionale n. 1 del 2012, la quale ha introdotto nel nostro ordinamento il principio del pareggio di bilancio, hanno avuto sul processo di attuazione e applicazione del federalismo fiscale in Italia.

20 P. Carrozza, La legge sul federalismo fiscale: delega in bianco o principi - decalogo per una

(12)

CAPITOLO 1

L’AUTONOMIA FINANZIARIA NELLA

COSTITUZIONE DEL

’48

1. REGIONI E AUTONOMIE REGIONALI NELL’ASSEMBLEA COSTITUENTE

All’Assemblea Costituente del 194621l’ipotesi di un vero e proprio federalismo fu

scartata quasi subito22. I costituenti, infatti, temevano che una scelta decisa in

21 Il decreto legge luogotenenziale n. 151 del 25 Giugno 1944, adottato dal Governo Bonomi a

pochi giorni di distanza dalla liberazione di Roma, stabiliva che alla fine della guerra sarebbe stata eletta a suffragio universale, diretto e segreto, un’Assemblea Costituente per scegliere la forma dello Stato e dare al Paese una nuova Carta costituzionale. Successivamente il decreto legislativo luogotenenziale del Governo De Gasperi (16 Marzo 1946, n. 98) integrava e modificava la normativa precedente, affidando ad un referendum popolare la decisione sulla forma istituzionale dello Stato, mentre il decreto luogotenenziale n. 99, sempre del 16 Marzo, fissava le norme per la contemporanea effettuazione delle votazioni per il referendum e l’elezione dei membri dell'Assemblea Costituente, quest’ultimi da eleggersi con sistema proporzionale (decreto legislativo luogotenenziale 10 Marzo 1946, n. 74). La legge elettorale suddivideva l'Italia in 32 collegi elettorali, nei quali eleggere 573 deputati (ma non vennero effettuate le elezioni nella provincia di Bolzano e nella Circoscrizione Trieste-Venezia Giulia-Zara: i costituenti eletti furono dunque 556). La campagna elettorale fu molto vivace, e l'affluenza alle urne fu altissima: votò circa l'89,1% dei 28.005.449 aventi diritto. Il referendum istituzionale vide una decisa prevalenza della scelta repubblicana nelle Regioni del Centro-Nord (68,86%), contro una vittoria netta della monarchia in quelle Centro-meridionali (62,17%) [Fonte: Istituto centrale di statistica e Ministero dell’Interno, “Elezioni per l’Assemblea costituente e referendum

istituzionale”, Poligrafico dello Stato, Roma, 1948, p. LXV]. I risultati nazionali, proclamati il 10

Giugno 1946 dalla Corte di cassazione, videro tuttavia la vittoria della Repubblica (54,3%) e subito dopo il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato. Nelle elezioni per l'Assemblea costituente la Democrazia cristiana ottenne la maggioranza relativa dei voti (8.083.208 pari al 37,2%), seguita dal Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup: 4.744.749 voti pari al 20,7%), dal Partito comunista (Pci: 4.342.722 voti pari al 18,9%), dall’Unione democratica nazionale (Udn: 1.560.638 voti al 6,8%) e dal Fronte dell’Uomo qualunque (Uq: 1.211.956 voti pari al 5,3%). Nessun altro partito superò il 5% dei voti: i Repubblicani, il Blocco nazionale della libertà, il Partito d’azione, il Movimento per l’indipendenza della Sicilia e Partito sardo d’azione ottennero comunque dei seggi nell’assise costituente. L’Assemblea Costituente, presieduta dal socialista riformista Giuseppe Saragat, nominò al suo interno una Commissione di 75 membri (indicati dai partiti e scelti dal presidente Meuccio Ruini, dell’Udn), la quale era incaricata di elaborare un progetto di Carta costituzionale. Fu pure eletto il Capo provvisorio dello Stato, il giurista liberale Enrico De Nicola (Udn). La discussione in Assemblea sul progetto presentato si svolse da Marzo a Dicembre 1947. La Costituzione fu promulgata il 27 Dicembre dello stesso anno ed entrò in vigore il 1° Gennaio 1948 (XVIII disposizione transitoria e finale Cost.). Molto interessante, per la sua decisa presa di posizione contro l’accentramento delle funzioni amministrative e delle istituzioni dello Stato, fu l’intervento di Luigi Einaudi, divenuto poi Presidente della Repubblica nel 1948, il quale scrisse un famoso un articolo-invettiva che denunciava alla pubblica opinione quali erano gli organi centralisti che avrebbero dovuto essere rimossi dalla Costituente al fine di rendere più libero, democratico e federale il Paese. Se ne riporta di seguito uno stralcio particolarmente intenso: "Via i

(13)

quella direzione avrebbe potuto compromettere l’unità nazionale23. Inoltre si temeva che le riforme economiche e sociali non sarebbero state realizzate

25 Aprile 1945 “Via tutti i suoi uffici e le sue ramificazioni. Nulla deve più essere lasciato in piedi

di questa macchina centralizzata. Il prefetto se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde. Per fortuna, di fatto oggi in Italia l'amministrazione centralizzata é scomparsa. Non accadrà nessun male se non ricostruiremo la macchina oramai guasta e marcia. L'unità del Paese non é data da prefetti e da provveditorati agli studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari comunali e dalle circolari ed istruzioni romane. L'unità del Paese é fatta dagli italiani".

22 Fra i consiglieri dell’Assemblea costituente, corre l’obbligo di segnalare nomi illustri quali

quelli dei segretari politici dei principali partiti dell’epoca e alcuni membri del Comitato di liberazione nazionale(Cln, compresi gli operativi del Comitato di liberazione per l’Alta Italia), fra i quale Alcide De Gasperi (Dc), Pietro Nenni (Psiup), Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Mauro Scoccimarro (Pci), Ugo La Malfa e Ferruccio Parri (Pri), Ivanoe Bonomi (Socialriformista – indipendente) e Guglielmo Giannini (Uq). Erano presenti pure illustri costituzionalisti del calibro di Gaspare Ambrosini e Costantino Mortati (Dc) e Vittorio Emanuele Orlando o personaggi di alta levatura morale quale Benedetto Croce (filosofo liberale moderato). Non mancarono neppure le voci dell’autonomismo separatista e federalista di Andrea Finocchiaro Aprile (Mis) e di Emilio Lussu (PSd’Az). Così si esprime G. Maranini, Il mito della Costituzione, Ideazione, Roma, 1996, p. 86, “…si temeva in modo particolare che la lotta politica, o meglio la guerra civile già

delineatasi fra le forze legate allo stalinismo e i partiti che almeno a parole si dichiaravano leali alla Costituzione e ai suoi valori liberali, inducesse gli avversi schieramenti a considerare le regioni come baluardi nei quali arroccarsi”.

23 E’ utile riportare il dibattito creatosi attorno alla questione nell’Assemblea Costituente del ’46.

Ben chiarisce la situazione al riguardo A. Truini, Federalismo e Regionalismo in Italia e in

Europa – Centro e periferie a confronto, Volume II, Il Processo autonomistico in Italia dall’unità ad oggi, Cedam, Padova, 2003, pp. 31 e ss.: “… nella gran parte del territorio nazionale il sistema delle autonomie locali avrebbe ben potuto tornare a ispirarsi al regime di decentramento amministrativo di stampo liberale, fatta, eventualmente, salva una forma di amministrazione di area vasta, in corrispondenza delle cosiddette “regioni storiche”, da realizzarsi sotto stretto controllo degli organi statali [le Regioni, specifica l’autore nella nota, furono “inventate sia

“geograficamente, sia politicamente”]. Questa era la soluzione preferita dalla gran parte della

burocrazia romana, abituata da tempo a legare al dogma dell’unità statale la tutela dei privilegi acquisiti e l’attesa di privilegi futuri, e, nel contempo, dall’intera “sinistra politica”, che considerava le Regioni niente più di un impiccio alla realizzazione di ampie riforme sociali ed economiche (per la cui attuazione sarebbe stato necessario il mantenimento di un forte potere centrale), nonché dai partiti della “destra” (ivi compresa la parte preponderante del partito liberale, guidata da Croce), uniti in una intransigente difesa del centralismo statale. Se, alla fine, la soluzione prescelta ebbe ben altri contenuti, lo si deve al fatto che, contro l’ipotesi di un progetto di regionalismo politico, che avrebbe dovuto mutuare dal progetto siciliano i più importanti istituti di autonomia (ivi compresa la potestà esclusiva), con, in aggiunta, altri presidi di autonomia (tra i quali una seconda Camera parlamentare, costituita, per una parte, di rappresentanti degli enti territoriali), si schierò, in Assemblea costituente, sia la gran parte della Democrazia cristiana (seppure con qualche dissenso interno, alimentato da chi, come i “Cisalpini”, spingeva per una riforma in senso francamente federale), sia una porzione ampia dei membri dei Partiti repubblicano e azionista, guidati dai loro leader. I cattolici alzarono la bandiera della tradizione autonomistica, gli altri vi aggiunsero il blasone di una altrettanto storica inclinazione ai principi del decentramento e, talora, del federalismo. Non mancò il sospetto […] che, dietro gli schieramenti, giocassero ragioni pratiche (o meglio, di “lotta politica”). Gli enti di area vasta avrebbero potuto facilmente trasformarsi in baluardi da occupare e difendere grazie a un “portafoglio” di poteri adeguato al bisogno, una volta che si fosse realizzato quello che allora era ritenuto come un evento probabile, ossia il consolidamento nelle istituzioni del primato politico delle sinistre. Bocciato il federalismo (che avrebbe, se non interrotto del tutto, quantomeno gravemente ostacolato il progetto di uso politico del centralismo, di cui erano portatori), i comunisti si mostrarono molto tiepidi, se non del tutto ostili quando fu loro presentato il progetto di decentramento regionale elaborato dai democristiani e dai loro

(14)

ovunque e con la stessa intensità. Ciononostante, è da rilevare che, dopo il ventennio fascista, istanze regionalistiche si erano intensificate soprattutto in ragione di un particolare motivo: un più esteso e rafforzato pluralismo territoriale avrebbe costituito un serio ostacolo all’eventuale ritorno di tentazioni dittatoriali. A preparare il terreno in favore dell’istituzione delle Regioni vi era poi il fatto che, al momento dell’elezione dei membri dell’Assemblea Costituente (2 Giugno 1946), in particolar modo in Sicilia e Sardegna, l’istanza regionalistica non solo s’era già strutturata sulla base d’un esteso consenso dell’opinione pubblica locale, ma in alcune importanti manifestazioni tenutesi in quegli anni aveva mostrato esplicitamente l’intento di secedere da Roma e dall’Italia.

Sebbene quanto appena detto aiuti a meglio comprendere il contesto nel quale operò l’Assemblea Costituente, è giusto dire che al suo interno la questione regionale, poiché avvertita come di estrema rilevanza, fu oggetto di un approfondito ed appassionato dibattito. Rispetto ad un orientamento maggioritario decisamente favorevole all’istituto regionale, molto diverse ed articolate furono le proposte per la sua concreta configurazione. Scartata l’ipotesi, sostenuta da poche e coraggiose voci fuori dal coro, di attribuire alle Regioni poteri tali da renderle simili agli Stati membri di uno Stato federale e quella ancora più radicale della realizzazione di una Confederazione di Stati24, passò la proposta, sostenuta con forza dai democristiani, che intendeva attribuire alle Regioni autonomia politica,

sodali. Il vento del regionalismo attraversò, almeno all’inizio, il programma del Partito socialista italiano di unità proletaria; tra il ’45 e il ’46 anche la spinta autonomistica socialista subì, però, un forte rallentamento, del tutto funzionale alla linea politica adottata dal partito a riguardo dei grandi temi socio-economici”.

24 I cattolici lombardi, raccolti attorno al settimanale Il Cisalpino, giornale che aveva ripreso il

titolo della testata fondata da Cattaneo quasi un secolo prima erano apertamente schierati a difesa della scelta repubblicana e federale e contrari al disegno di decentramento politico che introduceva le cosiddette “18 Regioni storiche”, in quanto ritenute sottodimensionate, per lo meno sotto l’aspetto economico-sociale. In alternativa veniva proposta la costituzione di un grande Cantone Cisalpino, con capitale a Milano, esteso dalle Alpi “al crinale dell’Appennino tosco-emiliano”, da affiancare ai cantoni che i “fratelli peninsulari” avessero deciso di costituire [Vedasi l’articolo intitolato Il nostro programma a firma T. Zerbi su Il Cisalpino del 12 Agosto 1945 e l’articolo dello stesso autore intitolato Cantoni, non regioni ne Il Cisalpino del 27 Aprile 1947, pubblicato a Como]. Nell’immaginario cisalpino il Cantone padano avrebbe dovuto essere affiancato dai due Cantoni insulari (siculo e sardo) e da un Cantone del Mezzogiorno, ovvero in alternativa da un Cantone umbro-marchigiano con capitale a Firenze e da un cantone laziale gravitante su Roma. Ai Cantoni, nonché ai minori enti territoriali da essi controllati, avrebbero dovuto esser trasferiti “gran parte del potere tributario, l’assistenza d’igiene, la polizia ecclesiastica,

l’amministrazione della giustizia”. Allo Stato federale sarebbero stati affidati “polizia doganale, politica estera e monetaria, difesa nazionale ed opere pubbliche ad essa connesse, servizi pubblici di primario rilievo (poste e ferrovie)”.

(15)

costituzionale, legislativa, amministrativa e finanziaria. Tale proposta, che fu il frutto di un difficile compromesso fra la Dc e il Partito comunista italiano, mirava ad un riconoscimento di tali potestà regionali all’interno della Costituzione, al fine di differenziare la posizione della nuova istituzione rispetto a quelle degli Enti locali (Province e Comuni), i poteri e le funzioni dei quali venivano invece rimessi alla determinazione della legge ordinaria. Tale differenziazione è di fatto rilevabile all’interno dell’articolo costituzionale che più ci interessa in questo esposto, ovvero l’articolo 119.

2. L’ORIGINARIO ARTICOLO 119 DELLA COSTITUZIONE: DALLE ORIGINI AI PROFILI GENERALI DEL TESTO APPROVATO NEL ’48

Di autonomia fiscale in Italia si parla sin dal dettato del 1948, il cui articolo 119 introduceva l’idea che il decentramento dell’ordinamento dovesse spingersi sino al riconoscimento di uno spazio di manovra tributaria in capo alle Regioni, senza però, d’altra parte, fornire le coordinate necessarie perché di questa autonomia potessero essere riconosciuti l’essenza e i confini.

L'autonomia finanziaria regionale era regolata dall’art. 119 della Costituzione tramite la previsione di un sistema di finanziamento delle Regioni che faceva leva su tributi propri, su quote di tributi erariali, e sui contributi speciali, indirizzati principalmente al Mezzogiorno, alle Isole, e alle aree svantaggiate del Paese. In questo modello i tributi propri avrebbero dovuto ricoprire la parte preponderante delle risorse regionali, coerentemente con l'idea che la possibilità di istituire tributi propri, e quindi di utilizzare la leva fiscale per finanziare le proprie politiche di intervento, fosse inscindibilmente connessa al concetto di autonomia, ossia alla autonoma capacità delle Regioni di attuare un programma politico nell'ambito delle proprie competenze, pur coordinato con quello dello Stato centrale, assumendosi la responsabilità nei confronti dell'elettore chiamato a sopportarne e finanziarne le spese.

Tale modello costituzionale è stato in gran parte inattuato o, quanto meno, ha avuto un'attuazione legislativa diversa da come se la erano figurata i costituenti, o

(16)

dalle potenzialità che esprimeva. La finanza regionale italiana si è infatti affermata come finanza di trasferimento e derivata25.

Significativo a tale proposito è quanto disposto dal vecchio testo dell’art. 119 della Costituzione26; nonché va anche ricordato il primo comma dell’art. 120 Cost. il quale dice: “La Regione non può istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le Regioni” dal quale si potrebbe desumere che la Regione possa istituire tutti i rimanenti tributi27. Ma tale norma non sembra riguardare in modo diretto l’attività finanziaria, piuttosto sembra dare risposta ad una preoccupazione politica del costituente e ciò lo si evince in maniera più chiara dalla lettura dei restanti commi dell’articolo 120, che prevedono che la Regione “non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni. Non può limitare il diritto dei cittadini di esercitare in qualunque parte del territorio nazionale la loro professione, impiego o lavoro”.28

Tornando all’originario articolo 119 Cost., risulta utile illustrare i lavori parlamentari che ne hanno portato alla approvazione.

Dal progetto alla approvazione del testo dell’articolo 119 vi sono state diverse modifiche che evidenziano cosa il costituente volesse conservare nella disciplina finanziaria prevista dalla Costituzione. Sicuramente l’art. 119 non brilla per chiarezza ed univocità e pertanto risulta difficile da interpretare. Detto articolo risulta essere il risultato di diverse modifiche, nonché il compromesso tra spinte anti regionaliste, da una parte, e a favore del regionalismo, dall’altra. Quanto detto fu confermato durante un dibattito sull’articolo stesso dall’onorevole Ruini29, il

25 M. Gorlani, L’autonomia finanziaria delle Regioni, in www.forumcostituzionale.it, 2006, pp.

1-2.

26 Il testo originario dell’articolo 119 della Costituzione prevedeva che “Le Regioni hanno

autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti dalle leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni. Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali. Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali. La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica”.

27 G. Ingrosso, I tributi nella nuova Costituzione italiana, in Archivio finanziario, 1950, p. 171. 28 L. Paladin, La potestà legislativa regionale, Cedam, Padova, 1958, p. 50.

29 Meuccio Ruini (Reggio nell'Emilia, 14 Dicembre 1877 – Roma, 6 Marzo 1970), è stato

un politico italiano. Fu ministro nel 1920 e nel 1944-45, presidente del Senato nel 1953 e senatore a vita dal 1963. Entrato nell’amministrazione dei Lavori pubblici, fu nominato Consigliere di Stato

(17)

quale disse: “Abbiamo dato alle Regioni funzioni e poteri limitati, in modo che non vi sia il pericolo di perturbamenti dell’ordinamento unitario30. […] Fra la tendenza di chi non voleva la Regione e l’altra, prevalentemente, per un più acceso regionalismo, si è affermata la soluzione di far sorgere le Regioni con funzioni e poteri limitati in modo che non sconcertino la struttura dello Stato e si prestino ad un seria gradualità”31.

Fu proprio in gente come Ruini, disposta al compromesso, che fu più tenace la resistenza su un punto irrinunciabile dell’art. 119, la cui salvaguardia e conservazione fu indispensabile per la modifica e la stesura delle altre parti del testo dell’articolo; tale punto è quello dell’autonomia finanziaria. In merito a quest’ultima, lo stesso Ruini disse alla Costituente “Non si può sopprimere la dichiarazione di autonomia finanziaria che, per quanto di principio, ha un significato, nel formare anche sotto tale aspetto il volto della Regione”.32 Inoltre

l’importanza di tale punto venne ribadita da Ruini quando pose le condizioni necessarie affinché si accettassero emendamenti al progetto dell’art. 119; tali condizioni furono ribadite in due punti: che si affermasse, per l’appunto, l’autonomia finanziaria delle Regioni, e che si stabilisse nella Costituzione qualche criterio sulla finanza delle Regioni. L’assetto tributario non doveva essere lasciato in bianco33.

nel 1913. Nello stesso anno, candidato radicale, fu eletto deputato. Favorevole alla guerra a fianco delle potenze dell’Intesa, durante il conflitto fu sottosegretario al ministero del Lavoro (1917-19) e fu poi ministro delle Colonie (1920). Negli anni seguenti svolse un’intensa attività pubblicistica, sforzandosi di dare una base dottrinale al radicalismo. Contrario al fascismo, partecipò alla secessione dell’Aventino (1924); messo a riposo come Consigliere di Stato (1926), si ritirò a vita privata, dedicandosi agli studi storici. Dopo il 1942 riprese l’attività politica e partecipò alla lotta clandestina contro il regime. Esponente del Partito democratico del lavoro, fu ministro senza portafoglio (Giugno-Dicembre 1944), dei Lavori pubblici (Dicembre 1944-Giugno 1945) e poi Presidente del Consiglio di Stato (1945-48). Il 2 Giugno 1946 fu eletto deputato all’Assemblea Costituente e nel 1947 presiedette la Commissione dei 75 incaricata di redigere la Costituzione della Repubblica. Gli fu riconosciuta, da presidente della Commissione dei 75, la dote di mediatore tra le diverse istanze politiche e sociali che si manifestarono durante la stesura della Costituzione. Fu inoltre Senatore di diritto (1948-53), presidente del Senato (Marzo-Giugno 1953), presidente del CNEL (1958-59) e dal 1963 senatore a vita.

30 Atti Assemblea Costituente, p. 2657.

31 E. De Mita, Le basi costituzionali del “federalismo fiscale”, Giuffrè, Milano, 2009, p. 6. 32 Atti Assemblea Costituente, p. 2561.

(18)

3. I PUNTI PRINCIPALI DELL’ORIGINARIO ARTICOLO 119 DELLA COSTITUZIONE

Esposti brevemente i lavori che hanno portato l’Assemblea Costituente all’adozione dell’art. 119, tale paragrafo si focalizzerà su quelli che sono considerati i punti, le enunciazioni fondamentali presenti nelle disposizioni contenute nell’originario testo del suddetto articolo costituzionale.

Torna utile prima però analizzare la caratteristica tecnica delle disposizioni stesse; esse sono norme ad efficacia differita, come le definisce la dottrina.34 Non sono cioè delle semplici norme programmatiche, anche se con queste hanno una analogia, ovvero entrambe non potranno spiegare la loro efficacia fin quando non intervengono ulteriore leggi che le mettano in grado di ricevere effettiva applicazione. A differenza delle norme programmatiche però, le quali dipendono del tutto dalla natura giuridica delle successive formazioni che pertanto assumono carattere essenziale, le norme costituzionali ad efficacia differita contengono di per sé una disciplina di massima della materia che ne sarà oggetto; la loro efficacia si estende sin da subito nei confronti della comunità, ed è solo per ragioni tecniche se esse non possono, senza l’intervento di apposite leggi strumentali, disciplinare effettivamente le materie che ne formano oggetto. Le disposizioni contenute nel Titolo V della Costituzione sono disposizioni di questo tipo35.

Quello della distinzione tra queste due tipologie di norme è un tema sul quale la nostra dottrina si è soffermata a lungo, soprattutto per distinguere tra attuazione e applicazione della Costituzione. Tale questione ebbe una tale rilevanza pratica, oltre che un’evidente centralità teorica, che la nostra Corte costituzionale è stata costretta ad occuparsene subito, sin dalla sentenza n. 1 del 1956. In quella decisione la Corte prese posizione sulla nozione di “norma programmatica”, evidenziando che tra le “norme che si dicono programmatiche [...] sogliono essere comprese norme costituzionali di contenuto diverso: da quelle che si limitano a tracciare programmi generici di futura ed incerta attuazione, perché subordinata al

34 V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano, 1962, pp.

46-47.

(19)

verificarsi di situazioni che la consentano; a norme dove il programma, se così si voglia denominarlo, ha concretezza che non può non vincolare immediatamente il legislatore, ripercuotersi sulla interpretazione della legislazione precedente e sulla perdurante efficacia di alcune parti di questa”. In questo modo la differenza concettuale dell’attuazione e dell’applicazione della Costituzione è definita con puntualità: per attuazione di una fonte normativa si intende il portare ad effetto il suo contenuto prescrittivo (il contenuto prescrittivo delle sue disposizioni), mentre l’applicazione di quella fonte (delle sue disposizioni) costituisce una forma della sua attuazione36. L’attuazione in senso proprio, dunque, si può distinguere dalla

semplice applicazione solo se e quando è proprio il contenuto precettivo delle disposizioni da attuare a richiedere qualcosa di più della semplice applicazione37.

Tornando all’analisi delle enunciazioni fondamentali dell’art. 119 della Costituzione del 1948, possiamo anzitutto evidenziarle e focalizzarle nelle seguenti: l’autonomia finanziaria; il coordinamento della finanza regionale con quella dello Stato, delle Province e dei Comuni; il sistema tributario regionale; i contributi speciali per le Regioni. I primi due si riferiscono a tutta l’attività prettamente finanziaria della Regione. Per poter dare una coordinazione logica a tali punti, risulta necessario spiegare anzitutto che cosa si intenda per autonomia finanziaria; definire la portata della legge statale di coordinamento; stabilire il rapporto tra il tipo di attività tributaria e finanziaria.

3.1. L’AUTONOMIA FINANZIARIA

L’autonomia finanziaria è strettamente collegata all’autonomia della Regione: senza la prima è inutile parlare di autonomia amministrativa e legislativa della Regione. Essa è una delle potestà che concretizzano di fatto la situazione giuridica attiva della Regione38. L’autonomia finanziaria della Regione di cui all’originario

36 M. Luciani, Dottrina Del Moto Delle Costituzioni E Vicende Della Costituzione Repubblicana,

in www.rivistaaic.it, 1 Marzo 2013, pp. 5-6.

37 V. Angiolini, Costituente e costituito nell’Italia repubblicana, Cedam, Padova, 1995, p. 148. 38 G. Balladore Pallieri, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 1963, n. 304. Le funzioni

fondamentali della Regione si riducono sotto quattro capi: 1) la capacità di darsi uno statuto; 2) la potestà legislativa riguardo ad una serie di materie; 3) la potestà amministrativa (p. 315); 4) l’autonomia finanziaria indispensabile alle autonomie citate, rigorosamente limitata ad evitare che la politica finanziaria delle Regioni si svolga in contrasto e si sovrapponga a quella dello Stato (p. 318).

(20)

art. 119 Cost. non è comunque assoluta; essa è limitata né più né meno di quanto non lo sia in generale l’autonomia riconosciuta alla Regione stessa. Ciononostante una autonomia limitata non va confusa con una “non autonomia”; va comunque intesa come sufficienza di mezzi affinché la Regione possa espletare le proprie funzioni, come autonomia strumentale utile al conseguimento dei fini autonomamente determinati. C’è da osservare poi come la Costituzione, che ha riconosciuto l’autonomia anche di Province e Comuni, attribuisca però autonomia finanziaria solo alle Regioni, il che, secondo alcuni studiosi e giuristi, ha significato qualcosa di più di una semplice sufficienza di mezzi, ma altresì l’attribuzione alle Regioni “del potere di determinare gli strumenti, oltre che i fini; potere, cioè di creare un proprio bilancio, come espressione della propria volontà politica di perseguire fini propri nel modo ritenuto più rispondente ai propri bisogni e con l’impiego di strumenti ritenuti più idonei”39. Di questo stampo è

anche il pensiero del giurista Costantino Mortati, secondo cui l’autonomia finanziaria va intesa come autonoma gestione di entrate proprie e “come necessità di provvedere da sé ai propri bisogni, curando la corrispondenza tra entrate e spese”40.

Nonostante le linee di pensiero appena espresse, l’autonomia finanziaria riconosciuta alle sole Regioni dal vecchio testo dell’art. 119 Cost. era, come anticipato, non assoluta, ma limitata dalla legge dello Stato, la quale svolgeva la funzione di limite nella disciplina di due oggetti: quello del coordinamento e quello della perequazione fra Regioni ricche e Regioni povere.

Da quanto sin qui detto possiamo rilevare quindi come l’autonomia finanziaria affermata nel primo comma dell’originario art. 119 è garantita da una serie di principi sanciti dai commi restanti (demanio e patrimonio proprio, tributi propri)41, ma il tutto entro i limiti della legge statale di coordinamento42. Inoltre, sempre entro tali limiti, la Regione ha potestà legislativa per quanto attiene ai problemi finanziari. Il fatto che tale attività non sia inclusa nell’elenco di cui

39 G. Balladore Pallieri, cit., p. 319. Sebbene nulla vi sia nella Costituzione, non vi è dubbio che il

bilancio, preventivo e consuntivo debba essere annualmente approvato dalla Regione per mezzo di una legge formale pari a quella che in analoga materia emana il Parlamento.

40 C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova, 1962, p. 767. 41 G. Balladore Pallieri, cit., p. 319.

(21)

all’art. 117 della Costituzione, non esclude tale potestà. L’attribuzione ad una competenza legislativa alla Regione infatti non avviene obbligatoriamente mediante un elemento di natura formale, come può essere un elenco tassativo di materie nel quale rientra quel tipo di competenza, ma tale attribuzione può essere anche dedotta dalla sola indicazione del criterio materiale, nel senso che il contenuto della competenza è tale che, per il suo esercizio, necessita della veste formale della legge43.

3.2. L’ATTIVITÀ TRIBUTARIA

L’attività tributaria non è un tipo di attività a sé stante, ma può essere considerata come il tipo più importante di attività finanziaria. In linea di principio, secondo l’interpretazione dell’originario art. 119 Cost., la Regione ha, per la materia tributaria, le stesse competenze e gli stessi poteri che ha in generale nella materia finanziaria. Anche questa materia ritrova quindi dei limiti nel rinvio alla legge statale, ma questo è richiesto solo nei casi di esigenze di armonizzazione con il sistema tributario nazionale e di perequazione fra Regioni ricche e Regioni povere, al di fuori di tali esigenze, qualsiasi limitazione dell’autonomia tributaria non risponderebbe allo spirito della Costituzione44.

Pertanto, al di fuori dei casi sopra esposti, ogni sostituzione degli organi legislativi dello Stato alla Regione nell’istituire un nuovo tributo regionale, o nel regolare diversamente un tributo regionale già precedentemente istituito con legge regionale, comporta una invasione della competenza della Regione ad istituire tributi propri e a regolarli; la legge statale in questi casi è pertanto impugnabile per illegittimità costituzionale45. La competenza della Regione a legiferare deriva direttamente dalla Costituzione e costituisce un limite per la stessa legge statale46. Nell’ambito della attività finanziaria, andando ad analizzare il vecchio testo dell’art. 119 Cost., questo attribuisce “tributi propri”. Preso singolarmente, tale termine è davvero generico, in quanto può significare sia tributi inventati dalla

43 E. De Mita, cit., p. 13.

44 Ivi, p. 14.

45 O. Ausiello, Studi sull’ordinamento e la legislazione regionale, Giuffrè, Milano, 1954, p. 83. 46 G. Balladore Pallieri, cit., p. 303.

(22)

Regione, sia tributi di cui la Regione è oggetto attivo, o ancora tributi il cui gettito sia comunque devoluto alla Regione47.

Ma interpretando complessivamente l’articolo, è possibile ricavare da esso qualche senso circa la potestà legislativa della Regione in materia tributaria, la quale troverebbe fondamento non tanto nella interpretazione letterale del termine tributi propri, quanto nel comma 1 del vecchio art. 119, cioè nello spirito dell’intera disciplina finanziaria che la Costituzione riservava alle Regioni48.

Ciononostante tale attività legislativa seppur esclusiva non è piena, ma limitata all’osservanza di principi generali. Infatti l’attività della Regione si svolge secondo principi fissati nel vecchio testo della Costituzione, nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato (artt. 11549, 11750, 11851 V. T.52 Cost.); il vecchio art. 119

47 M. S. Giannini, Sulla potestà normativa in materia tributaria delle Regioni, in Giur. Compl.

Corte Cass., 1949, p. 1226.

48 E. De Mita, cit., p. 15.

49 Art. 115 v. t. “Le Regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i

principî fissati nella Costituzione” (articolo abrogato con la riforma del Titolo V del 2001).

50 Art. 117 v. t. ”La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principî

fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni:

- ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione;

- circoscrizioni comunali;

- polizia locale urbana e rurale;

- fiere e mercati;

- beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria ed ospedaliera;

- istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica;

- musei e biblioteche di enti locali;

- urbanistica;

- turismo ed industria alberghiera;

- tranvie e linee automobilistiche di interesse regionale;

- tranvie e linee automobilistiche di interesse regionale;

- viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale;

- navigazione e porti lacuali;

- acque minerali e termali;

- cave e torbiere;

- caccia;

- pesca nelle acque interne;

- agricoltura e foreste;

- artigianato;

- altre materie indicate da leggi costituzionali.

Le leggi della Repubblica possono demandare alla Regione il potere di emanare norme per la loro attuazione”.

51 Art. 118 v. t. “Spettano alla Regione le funzioni amministrative per le materie elencate nel

precedente articolo, salvo quelle di interesse esclusivamente locale, che possono essere attribuite dalle leggi della Repubblica alle Provincie, ai Comuni o ad altri Enti locali.

Lo Stato può con legge delegare alla Regione l’esercizio di altre funzioni amministrative.

La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni o ad altri Enti locali, o valendosi dei loro uffici”.

(23)

non fa che ribadire per quel che riguarda l’attività finanziaria quanto detto da questi articoli, ovvero ribadisce i principi di autonomia per la materia finanziaria ma altresì i criteri che devono informare la legge-limite statale53. Tuttavia nell’ambito nel quale la Regione ha competenza, la legge regionale costituisce l’atto giuridico supremo, così come lo è la legge emanata dal Parlamento negli ambiti di sua competenza. La legge regionale è quindi legge allo stesso titolo di quella emanata dal Parlamento, ha analogo valore formale e pertanto merita la stessa qualifica di legge formale54.

Da quanto detto sin qui, dal vecchio art. 119 Cost. è possibile estrarre un sistema tributario “misto”55, che prevede: da un lato l’attribuzione alla Regione di una

potestà legislativa in materia tributaria propria che le permette di creare con proprie leggi tributi, sempre nei limiti di legge dello Stato, ma anche di svolgere attività amministrativa propria, o tramite delega di imposizione di tali tributi; dall’altro la previsione di tributi comuni, ripartiti secondo una percentuale nella cui determinazione, da effettuarsi in base ai vari bisogni nelle diverse zone, trova largo margine di applicazione l’intento perequativo tra Regioni ricche e Regioni povere56.

Continuando l’analisi del secondo comma del vecchio art. 119 Cost., vediamo come il sistema tributario è posto in essere in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro “funzioni normali”. Quest’ultima espressione è il risultato di un emendamento, infatti prima si parlava di “funzioni essenziali”, ma tale espressione sembrò troppo stretta alla Costituente. Il termine “normalità” non va inteso in senso statico, di conservazione e manutenzione, ma in senso dinamico e di sviluppo: funzione normale è funzione autonoma intesa

53 E. De Mita, cit., p. 17.

54 G. Balladore Pallieri, cit., p. 309.

55 I sistemi tipici di coordinamento tra il sistema tributario dello Stato federale e quello degli Stati

membri sono: a) sistema della separazione; b) sistema del collegamento; c) sistema misto. Da un esame condotto sulla finanza pubblica di alcuni Stati federali risulta un processo di evoluzione dal primo, al secondo e al terzo sistema. Si veda in merito Cenni orientativi sui rapporti finanziari in

alcuni Stati federali, a cura dell’I.S.A.P., in Commissione Di Studio Per L’Attuazione Delle Regioni A Statuto Normale, Studi sulla finanza regionale e sulla legislazione comparata, Istituto

poligrafico dello Stato, Roma, 1962, p. 198.

(24)

alla soddisfazione dei bisogni propri della Regione che essa scopre e risolve, di volta in volta, secondo proprie valutazioni politiche57.

Tutto questo deve comunque sempre avvenire nei limiti delle risorse finanziarie della Regione, ma c’è da fermarsi un attimo a ragionare su questo limite: non si può fissare una volta per tutte fini e strumenti in maniera arbitraria e allo stesso tempo continuare a parlare di autonomia e di funzioni normali. Il limite deve esserci, ma dopo aver dato alla Regione una certa elasticità di movimento58. Il difetto centrale della leggi finanziarie fu proprio quello di aver fissato i trasferimenti di risorse da destinare alle Regioni in una cifra statica, fissa che risulta essere inadeguata rispetto alle spese delle Regioni stesse, tale inadeguatezza è ancor di più evidente se si pensa che vi sono delle spese che tendono ad aumentare in maniera molto rilevante da un esercizio finanziario all’altro59. I preventivi globali di spesa si dovrebbero basare pertanto sulle

prospettive di spesa riguardanti le singole materie, non può infatti nascere una finanza regionale basata su trasferimento di spese e tributi basati sul solo bilancio statale, senza considerare le effettive esigenze di spesa di ogni Regione.

Quanto detto ci porta a dire che, qualunque possa essere stata la bontà tecnica del modello di leggi scaturita dal progetto di materia finanziaria determinata dall’Assemblea Costituente, esso si è dimostrato decisamente lontano dal consentire alle Regioni di esercitare le proprie funzioni normali60.

3.3. I CONTRIBUTI SPECIALI

Il terzo comma del vecchio art. 119 Cost. prevede che lo Stato assegni alle Regioni “contributi speciali” al fine di provvedere a scopi determinati e in particolare per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole. Da un confronto con il precedente secondo comma, si nota subito l’uso della diversa dizione “lo Stato assegna” piuttosto che “Alle Regioni sono attribuite …”, inoltre occorre chiarire il significato di “scopo determinato”: contrapposto a funzione normale, di scopo

57 E. De Mita, cit., p. 23.

58 Ibidem.

59 Finanza locale e Regioni a statuto Normale, in Riv. prov., 1962, p. 441. 60 E. De Mita, cit., p. 24.

(25)

determinato è ogni evenienza, ogni circostanza di particolare importanza61. Il legislatore inoltre sembra aver esemplificato tali circostanze con il riferimento alla situazione delle Isole e del Mezzogiorno62. C’è allora bisogno di distinguere tra la considerazione del dislivello economico fra le Regioni in generale, ragione per cui è stato istituito lo strumento della perequazione ai tributi erariali in ragione ai bisogni, di cui al secondo comma del precedente art. 119 Cost., e la considerazione particolare della situazione del Mezzogiorno e delle Isole, per cui il legislatore ha pensato a provvedimenti contingenti, ovvero i contributi speciali previsti dal terzo comma dello stesso articolo, anche se nella forma della legge63.

3.4. LA LEGGE STATALE DI COORDINAMENTO

Riportiamo infine alcune precisazioni della legge statale di coordinamento, il cui contenuto deve essere, sulla base di quanto disposto nel primo comma del vecchio testo dell’art. 119 Cost., di mero limite all’autonomia finanziaria delle Regioni. Il suo oggetto principale è il “coordinamento della finanza regionale con quella dello Stato e degli enti minori, Comune e Provincia”.

Quella affermata dal primo comma dell’originario art. 119 Cost., è una vera e propria riserva di legge, la quale deve assicurare il coordinamento di una pluralità di ordinamenti finanziari e contabili e in pari tempo garantire64 lo status che la Costituzione riserva a Regioni, Province e Comuni. Il che equivale a ritenere che il coordinamento deve essere attuato innanzitutto con legge dello Stato nel rispetto delle esigenze che fanno capo a quest’ultimo in quanto ente esponenziale della collettività generale e delle esigenze che sono proprie delle diverse comunità regionali, provinciali e comunali65.

61 G. Miele, La Regione nella Costituzione italiana, Barbera, Firenze, 1949, p. 136.

62 C. Arena, Note provvisorie sul decentramento finanziario, in Commissione Di Studio Per

L’Attuazione Delle Regioni A Statuto Normale, Relazioni e monografie a carattere generale,

Istituto poligrafico dello Stato, Roma, 1962, p. 82.

63 E. De Mita, cit., p. 25.

64 Della riserva di legge si sono fornite varie ricostruzioni concettuali; è indubbio, tuttavia, che in

nessun caso ne è stata disconosciuta la generale funzione di garanzia che nel caso considerato si manifesta nelle forme della tutela attribuzioni costituzionalmente sancito a favore del complesso sistema delle autonomie (sulla concezione garantista delle autonomie locali si veda G. Volpe,

Autonomia locale e garantismo, Milano, 1972).

65 M. Bertolissi, Lineamenti costituzionali del “Federalismo Fiscale”, in Ricerche Di Diritto

Riferimenti

Documenti correlati

mediante un atto avente forza di legge (riserva di legge); tutti i tributi sono dovuti in ragione della propria capacità contributiva; tutti sono tenuti a concorrere alle

La pro- piedad jurídica ocupa una posición central en cualquier modo de producción, siendo uno de los rasgos fundamentales del feudalismo la propiedad privada (vin- culada) y

Uno dei più notevoli documenti cii finanza comunale, cbe siano stati da molti anni pubblicati in Italia, è la Relazione della Commissione nominata dal Par- tito

è la regola; per i secondi il fitto è l' eccezione, sicchè dalle eccezioni non si saprebbero ricavare regole per la determinazione del fitto della mag- gior parte

Un altro aspetto del collegamento tra la riserva di legge, dettata in materia tributaria e il nuovo riparto di competenza legislativa fra lo Stato e le Regioni concerne

Al riguardo, come anche già osservato dal CNDCEC, va evidenziato come sull'ambito di applicazione della disposizione siano intervenute recentemente le Sezioni Unite della Corte

 di fare ripartire il sistema economico interno, essendo in grado di dare soluzione, finalmente in modo equo, progressivo e strutturale, al tema del reperimento

La ricevuta di pagamento della suddetta quota dovrà essere allegata alla domanda di iscrizione corredata dei documenti utili. Il mancato pagamento della quota di iscrizione