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Il panorama linguistico italiano è certamente di natura complessa e frammentaria. Non si può parlare di “lingua italiana” in senso stretto, senza far riferimento a tutte le varietà che co-occorrono nel repertorio linguistico italiano, così come non si può pensare univocamente a un italiano “standard”, se non presupponendo l’esistenza di varietà regionali e dialetti che, agendo sia da sostrato linguistico7 che da lingue di contatto8, influenzano su tutti i livelli la varietà standard di entità ufficiale9.

Nel concetto di repertorio linguistico, applicato al caso italiano, vengono inclusi di fatto due macro-sistemi linguistici, l’italiano lingua nazionale e i dialetti: si parla di un diasistema10, ovvero della coesistenza di più sistemi linguistici con tratti comuni ma subordinati l’uno l’altro.

Escludendo a priori la possibile esistenza di un pan-italiano, come lo definisce lo stesso Berruto, valido per tutti gli italiani, la lingua nazionale è difatti a sua volta contraddistinta dalle molteplici varietà assunte a livello regionale, per cui ciascun parlante utilizzerà concretamente una specifica varietà d’italiano, con molta probabilità quella strutturatasi nella propria regione o area di provenienza. Da questa prospettiva, è chiaro che la lingua standard venga percepita come una varietà fantasma e artificiale, divenuta modello normativo e ufficiale, pur non essendo concretamente appresa da alcun parlante come lingua materna. Non condivide per giunta diversi dei tratti della varietà di base tosco-fiorentina da cui discende11, ma gode del prestigio associato a tutte le lingue ufficiali/nazionali12.

I dialetti italiani vengono riconosciuti a tutti gli effetti come sistemi linguistici a se stanti, trattandosi di varietà romanze evolutesi contemporaneamente alla varietà regionale toscana la quale, seguitamente a vicende di carattere storico, politico e

7 Con riferimento specifico ai dialetti rispetto alle varietà regionali, cfr. Telmon (in Sobrero, 2007). 8 Berruto (1974).

9 Cfr. Berruto (op. cit.; 2001).

10 Concetto introdotto da Weinreich (1954).

11 Galli de’ Paratesi dimostrò, ad esempio, che molti tratti della varietà di italiano standard sono in realtà

più vicini a quelli caratterizzanti la varietà regionale lombarda, piuttosto che riprendere la varietà toscana madre (si veda Galli de’ Paratesi, 1984).

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culturale, fu poi assunta come lingua nazionale tra il XIV e il XVI sec. d.C.13 Le altre varietà dialettali godono pertanto delle stesse caratteristiche formali della varietà d’origine dello standard, costituendo dei dialetti primari14, coesistenti e strettamente

imparentati ad esso.

Pertanto, la comunità linguistica italiana, intesa come gruppo accomunato “dagli stessi atteggiamenti sociali nei confronti della lingua”15 e dalla “condivisione di regole per

produrre e interpretare il parlare”16, afferisce contemporaneamente a più sistemi

linguistici, lingue in contatto le cui distribuzioni d’uso vengono necessariamente ripartite in base ai diversi contesti, alle distribuzioni geografiche e alle convenzioni e i comportamenti sociali.

Risulta necessario comprendere che tipo di relazione si instauri fra lingua e dialetti italiani, e come questo contatto determini inevitabilmente una variazione d’uso plasmata da molteplici fattori. Risulta, poi, fondamentale allo scopo di spiegare il perché non si possa prescindere dalla conoscenza delle influenze reciproche esercitate da e fra i sistemi, prima di poter parlare di acquisizione, apprendimento o insegnamento della lingua italiana, poiché appare già chiaro quanto possa risultare ambiguo e al contempo riduttivo riferirsi genericamente alla lingua italiana, omettendone le possibili differenziazioni e i concreti modi d’uso.

La variazione linguistica è determinata congiuntamente da fattori di tipo funzionale, contestuale, geografico e sociale. Tuttavia questi fattori non agiscono sulla lingua in maniera indipendente o disconnessa gli uni dagli altri, bensì intervengono spesso in modo sinergico, così da rendere ardua una possibile differenziazione netta di tutti gli stili o i registri d’uso di una qualsivoglia comunità linguistica, non meno nel caso italiano. La prima grande bipartizione del repertorio riguarda la presenza di una varietà di tipo alto, destinata agli usi formali e scritti, quindi alla lingua cosiddetta standard e

13 Grassi, Sobrero e Telmon (2003).

14 Coseriu E. (1980) suddivide i dialetti in primari, secondari e terziari: i primi, come enunciato, sono

le varietà sviluppatesi prima o accanto alla varietà da cui nacque la lingua standard, i dialetti secondari e terziari sono invece varietà diatopiche formatesi per differenziazione areale dello standard o nate dallo standard stesso. Nel panorama linguistico internazionale, è generalmente la definizione di dialetto secondario o terziario quella che si sottintende parlando comunemente di dialects, riferendosi pertanto a varietà linguistiche sottese allo standard riconosciuto e appreso da tutti i parlanti.

15 Labov (1972).

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di una varietà bassa per gli usi parlati e informali, destinata alle varietà dialettali. Sebbene questo quadro rappresenti l’esempio più lampante di diglossia17, ci sarebbero

diverse precisazioni da fare, prima di poter definire la varietà di repertorio tipica della comunità italiana. Partendo da una definizione classica:

la diglossia è una situazione linguistica relativamente stabile in cui, in aggiunta ai dialetti originari della lingua (che possono comprendere una varietà standard o standard regionali), vi è una varietà sovrapposta molto divergente ed altamente codificata (spesso grammaticalmente più complessa), veicolo di un vasto e rispettato corpus letterario, sia di un periodo precedente, sia di un’altra comunità linguistica, che viene appresa in larga parte per mezzo dell’istruzione formale e viene usata per lo più per scopi formali e nella forma scritta, ma che non è mai usata da nessun settore della comunità per la comune conversazione.18

La definizione fergusoniana nasce dallo studio congiunto di più casi, fra cui quello dell’arabo de Il Cairo, del creolo di Haiti, il greco e lo svizzero-tedesco e ben rappresenta la situazione vigente in Italia fino agli anni precedenti all’industrializzazione, periodo storico a seguito del quale si assistette tanto a una maggiore diffusione dell’uso della lingua italiana, quanto a una fortissima riduzione del numero di italiani che continuavano ad utilizzare il dialetto come lingua primaria. Nonostante la cristallizzazione di una varietà standard elevata e dotata di prestigio, a partire dagli anni ‘70/’80 del secolo scorso la stratificazione d’uso del dialetto è andata via, via affievolendosi, facendo sì che quest’ultimo non venga più percepito in tutte le sue accezioni come varietà secondaria ed inferiore e che la sua diffusione abbia a poco a poco intersecato i domini d’uso un tempo esclusivamente destinati alla lingua. Di norma, la lingua standard rimane lingua di socializzazione secondaria, affiancata all’italiano o il dialetto italo-romanzo in uso nella socializzazione primaria. Le varietà

17Il concetto di diglossia, inteso come compresenza di più lingue o varietà linguistiche con funzione

sociale complementare, organizzate e strutturate secondo usi e occorrenze, è generalmente contrapposto a quello di bilinguismo, caso in cui non esiste gerarchizzazione né differenziazione d’uso fra le lingue coinvolte, ma all’interno della medesima comunità linguistica esse rivestono la stessa importanza e gli stessi ruoli, essendo entrambe riconosciute come ufficiali. Cfr. Ferguson (in Giglioli & Fele, 2000) e Berruto (1977, 2001, 2007).

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di riferimento saranno raggruppabili in A (intesa come varietà standard dominante), M (varietà media identificabile nel dialetto) e B (varietà inferiore intesa come alloglotta locale). È possibile distinguere, inoltre, casi di macro-diglossia da altri di micro-diglossia, ovvero di contrapposizione contesa fra standard e varietà dialettali forti e vitali (macro) e compresenza di dialetti deboli e altamente circoscritti (micro), tuttavia la definizione di repertorio che forse meglio rappresenta l’attuale realtà italiana è quella proposta da Berruto, ossia bilinguismo endogeno a bassa distanza strutturale

con dilalia: in primis si parla di bilinguismo, dato l’uso simultaneo e indifferenziato

dei due sistemi (ovviamente si fa riferimento prettamente all’uso orale della lingua, e alle varietà regionali di sostrato dialettale che permeano l’uso dell’italiano); si tratta di bilinguismo endogeno (comp. di endo- e -geno; cfr. gr. ἐνδογενής «nato in casa, indigeno»: in genere, che nasce, che ha origine nell’interno19) poiché non nato dal

contatto linguistico avvenuto a seguito di fenomeni di colonizzazione o migratori, ma generatosi all’interno della stessa comunità dei parlanti; nel concetto di diasistema è intrinseca la vicinanza strutturale delle lingue a contatto, pienamente riscontrabile nel caso in esame; infine, le varietà sono spendibili in contesti d’uso simili o indifferenziati, lasciando spazio ad un’ampia sovrapposizione, che definisce il concetto ultimo di dilalia20.

Come anticipato, il suddetto repertorio si muove a livello sincronico lungo più assi di variazione, che non dipendono solo dal tipo di sistema di cui i parlanti scelgono di fare uso, ma anche da fattori esterni al parlante legati al contesto sociale, comunicativo, geografico e situazionale. Grassi, Sobrero & Telmon21 definiscono esaustivamente il repertorio italiano come un continuum multidimensionale dentro il quale l’italiano standard e neostandard (comprensivo di tutte le nuove forme accettate) subordina le varietà legate alle dimensioni diastratiche, diafasiche e diamesiche, diatopiche e quelle dialettali. Nel continuum delle dimensioni di variazione, che sono parte integrante dell’«architettura della lingua»22, le varietà si identificano come «zone di

19 Da http://www.treccani.it/vocabolario. 20Berruto (2001).

21Grassi, Sobrero & Telmon (2007). 22Coseriu (1980).

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addensamento lungo un asse, nelle quali si infittiscono tratti linguistici caratterizzanti»23, tra quelli comuni a tutte le varietà o solo ad alcune.

Berruto (2011) identifica le seguenti varietà dell’italiano contemporaneo, su base diamesica, diastratica, diatopica e diafasica:

- Italiano aulico, varietà diafasica prettamente scritta; - Italiano parlato formale;

- Italiano burocratico, anch’esso caratterizzato diafasicamente per il suo uso quasi esclusivamente scritto;

- Italiano tecnico-scientifico, sia di caratterizzazione diamesica (maggiormente scritto) che diafasica (linguaggio settoriale);

- Italiano dell’«uso medio», differenziata diastraticamente, varietà impiegata da persone mediamente colte, da giornali e media;

- Italiano popolare, varietà diastratica di minor prestigio, utilizzata in contesti di cultura medio-bassa, fortemente permeata da influssi dialettali;

- Italiano colloquiale, diafasicamente identificato come lingua della conversazione quotidiana;

- Italiano parlato informale;

- Italiano gergale, connotato sia diastraticamente che diafasicamente come lingua di un determinato e ristretto gruppo sociale, in contesti limitati con forte identificazione interna.

Varietà diamesiche

La prima dimensione di variazione analizzabile è quella diamesica, identificata sulla base del mezzo o del canale di comunicazione. La stratificazione che si determina verterà su due poli, quello della lingua scritta e quello della lingua parlata.

Lungo il continuum diamesico risulta semplice identificare gli elementi di contrasto tangibile tra scrittura e oralità: la lingua scritta, apice di registro formale, rappresenta innanzi tutto la base di riferimento dello standard italiano, supportato da una forte

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tradizione letteraria e culturale. Si discosta in primis in termini di macro-sintassi, testualità e pragmatica, essendo più coesa e lineare rispetto a un parlato più spezzettato e organizzato per blocchi, a causa di un meccanismo di programmazione che agisce su unità più brevi e che si risolve spesso in micro/ri-programmazioni istantanee e cangianti. Questi processi si esplicano spesso tramite l’uso di parti del discorso con funzione attenuativa, particelle modali o vizi verbali non utilizzabili nello scritto. Ovvia conseguenza la predilezione di uno stile parlato prevalentemente paratattico, il numero ridotto e semplificato di congiunzioni o pronomi relativi24 contrapposto alla tendenza all’ipotassi nella lingua scritta. Nella lingua orale esistono vari fenomeni di autocorrezione e l’ordine dei costituenti è spesso demarcativo, non soggetto alle regole sintattiche della lingua scritta, ma atto a evidenziare gli elementi informativi della frase.

Da un punto di vista morfo-fonologico la lingua parlata semplifica molto sia l’utilizzo di tempi verbali, pronomi e paradigmi, che la pronuncia di nessi o suoni adiacenti, che portano alla modifica o caduta di intere sillabe (fenomeni di apocope, aferesi, assimilazione e semplificazione consonantica, fonosintassi). Il che, nei processi di percezione e decodificazione del segno linguistico, introducendo la prospettiva del parlante di madrelingua straniera, costituisce chiaramente un primo ostacolo alla corretta segmentazione del segnale e alla successiva classificazione e categorizzazione degli elementi di seconda articolazione.

A livello prosodico, la testualità non restituisce unità concrete, ma queste si manifestano nella produzione orale, legate strettamente al contesto, lo stato emotivo o di salute del parlante, la situazione conversazionale e l’ambito comunicativo.

Infine, anche il lessico subisce diversificazioni tra le varietà, per cui nel parlato si tende a ridurre la gamma di parole impiegate, di cui si ha invece maggiore controllo nelle forme scritte, in cui aumenta quella che Halliday definì «densità lessicale», a discapito dell’uso di forme quali i superlativi morfologici, i diminutivi, le formule di cortesia, gli intercalari, gli epiteti, i disfemismi.

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Nonostante esistano forme della lingua italiana scritte, lontane dallo standard e più vicine alle variabili regionali e ai dialetti (basti pensare alla tradizione letteraria della cultura popolare), nelle fasi di acquisizione della lingua, tanto di quella materna come di una lingua straniera, l’interazione si esplica più significativamente sul piano dell’oralità, dimensione maggiormente stratificata e soggetta a “manipolazioni” da parte sia della comunità linguistica (socioletto) che addirittura del singolo parlante (idioletto). È per tali ragioni che preme focalizzare l’attenzione sulle variabili che più si intersecano alla lingua parlata e ne determinano differenze d’uso importanti.

Varietà diastratiche

Le differenze d’uso sulla base della ‘stratificazione sociale’ dei parlanti, nel contesto italiano e non solo, possono essere direttamente relazionate a variabili quali il grado di istruzione e i modelli e beni culturali di riferimento o a disposizione della comunità parlante. La variabile diastratica è per eccellenza variabile sociale e modella inevitabilmente l’uso della lingua, soprattutto orale, a vari livelli linguistici, primo fra tutti quello fonetico/fonologico. William Labov (1972) per l’angloamericano e Nora Galli de’ Paratesi (1984) per l’italiano, inaugurano l’indagine sul campo per la ricostruzione di profili diastratici forti, identificati sulla base delle peculiarità fonetiche e fonologiche nell’uso di una lingua comune, da parte di parlanti afferenti a diversi gruppi sociali della stessa comunità. È chiaro che l’uso di determinate variabili sia strettamente e univocamente relazionato ad uno specifico gruppo di parlanti, socialmente stratificati anche e soprattutto in funzione della lingua da essi impiegata. Certamente, tanto nell’acquisizione della lingua materna, quanto in quella di una lingua straniera, la prima varietà appresa dipenderà inequivocabilmente dal contatto coi parlanti di un determinato gruppo sociale, per cui comprendere la stima o il valore sociale attribuiti a una varietà linguistica, comporta e implica scelte linguistiche di avvicinamento/distanziamento dalla varietà e il delinearsi di una chiara posizione sociale. Bisogna mettere in evidenza che non sempre si crea un rapporto strettamente biunivoco fra l’uso di una varietà e la classificazione sociale dell’individuo: il concetto di idioletto implica una certa variazione interna al singolo parlante, la quale non

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preclude l’uso di distinte varietà per differenti contesti d’uso anche diastraticamente molto lontani.

Come è stato messo in evidenza, nella caratterizzazione delle varietà linguistiche riconosciute nel panorama contemporaneo della lingua italiana, la variabilità diastratica incide in modo prominente, soprattutto sulla definizione di un italiano di tipo “popolare”, di uso quotidiano, permeato dal dialetto e da forti fenomeni regionali, «il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi per madre lingua ha il dialetto»25. Tali fenomeni toccano tutti i livelli della lingua parlata, e tutti i livelli della lingua pertanto possono avere rilevanza o valore sociale, dal lessico alla sintassi, dalla morfologia alla fonologia e la fonetica. Sulla base della scala di resistenza proposta da Berruto (2001) è proprio la fonologia a recare la maggiore marcatezza sociale e a essere minormente intaccata da fattori extralinguistici. Di contro, nella scala di potere

del parlante (Romaine 1984) la fonetica si situa sul gradino più debole, con una

variabilità potenziale altissima (Mioni 1988). E Halliday lo ribadisce: «il fenomeno dell’accento è un diretto riflesso della struttura sociale a livello fonetico»26. Così i

gruppi socialmente più bassi lasceranno trasparire la propria estrazione facendo sì che molti tratti dialettali vadano a sostituire suoni e nessi dell’italiano colto, attraverso fenomeni di assimilazione, semplificazione di nessi consonantici, inserzioni, aferesi, spirantizzazioni, lenizioni, riduzione dei sistemi vocalici (eptavocalici vs. pentavocalici) a discapito di un sistema fonetico/fonologico più articolato e curato; fenomeni corrispondenti e simili si verificano inoltre a livello della sintassi - con dislocazioni degli elementi frasali, strutture libere a scarsa coesione, uso di che polivalenti, accordi scorretti – così come della morfologia, compromessa soprattutto a livello flessionale - negli accordi di pronomi, clitici e allocutivi (con molti casi di sovraestensione e sostituzione degli uni con gli altri, ci al posto di gli/le/loro, per fare un esempio). Chiaramente il piano lessicale, tra i più forti nelle scale di resistenza, sarà affetto dalla presenza di calchi dialettali o talvolta prestiti, dando luogo a fenomeni di

code-switching, soprattutto nelle fasce meno colte. Tra i fattori che partecipano alla

definizione di una variabilità diastratica si sono voluti identificare spesso elementi

25 Cortelazzo (1972:11). 26 Halliday (in Giglioli, 1973).

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quali l’età (Alfonzetti, 2001) e il sesso o genere dei parlanti (Lakoff, 1975; Orletti, 2001): in realtà la variabile età, che presuppone l’uso di una varietà di lingua “giovanile”, potrebbe essere letta in chiave non tanto diastratica quanto più propriamente diafasica27, così come quella interna ai generi, attestata nello studio di più lingue e gruppi sociali differenti, viene percepita come maggiormente vincolata a ragioni culturali che a fatti sociali. Tendenzialmente, le donne utilizzano un linguaggio più scevro da tratti puramente dialettali, più attento al target dello standard e sono state identificate come informatrici affidabili sulle originarie condizioni linguistiche di una determinata località. Anche gli studi laboviani, cui si è accennato in precedenza, individuano la spiccata propensione femminile all'uso dei valori più accurati di alcune variabili fonologiche, a differenza degli uomini, che non esitano ad impiegare forme più disinvolte, vernacolari e magari socialmente stigmatizzate. Pertanto, anche in questo caso, la dimensione diastratica interseca fortemente fattori situazionali legati alla sfera diafasica, arricchendo il panorama linguistico di molteplici sfaccettature dipendenti da fattori marcatamente culturali.

Varietà diafasiche

Tra le varietà della lingua italiana sopraelencate, la variabilità legata a fattori situazionali, contestuali e stilistici, che permeano tutti i livelli linguistici, è quella che stabilisce il maggior numero di differenziazioni, per campo (field), tenore (tenor) e modo (mode)28 di comunicazione. L’asse del ±formale è percorso da numerosissimi registri e sottocodici che passo dopo passo distanziano l’italiano aulico in forma scritta, già definito apice di formalità e controllo, dall’italiano parlato informale. Una situazione è tanto più formale quanto più si focalizza sul rispetto e l’esecuzione accurata di norme di comportamento vigenti nella comunità esterne all’individuo, ed è tanto più informale quanto meno implica la messa in opera di norme di

27 Grassi, Sobrero e Telmon (2007) suggeriscono proprio l’identificazione di una varietà marcata

diastraticamente dall’abbandono di forme arcaiche e letterarie, a favore dell’innovazione linguistica (ad esempio dell’uso di neologismi), che pur non configurando il profilo di una lingua ‘diversa’, presuppone delle significative ‘scelte diverse’.

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comportamento collettive codificate; la scelta linguistica corrispondente alla situazione comunicativa è legata strettamente al singolo parlante, il quale «[…] seleziona, di volta in volta, la varietà di italiano che ritiene più adeguata al grado di formalità della situazione e ai suoi rapporti con l’interlocutore»29.

Nello schema a seguire si riporta un esempio di variabilità lessicale su base diafasica; la competenza linguistica e comunicativa del parlante apprendente di una L2 dovrà necessariamente poter distinguere e tener conto di queste dimensioni e inglobare il maggior numero di scelte possibili, pragmaticamente corredate da contesti d’uso appropriati e calzanti. In generale, per i registri alti e formali si riscontrerà una forte esplicitazione dell’articolazione sintattica del discorso (in concomitanza a quanto avviene nella lingua scritta o nell’uso da parte di gruppi sociali più elevati), la sintassi sarà estremamente elaborata, il lessico ricco e accurato. Si privilegerà, poi, l’uso di strutture complesse, anche a livello morfologico, di forestierismi e una maggiore attenzione verso l’aspetto fonetico, scevro da influssi regionali e dialettali, con una velocità di elocuzione inferiore rispetto agli altri registri, iperarticolazione nella produzione di singoli fonemi, e una maggiore conformità in generale con la realizzazione standard o di prestigio.

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tratto da Berruto (in Sobrero, 2007)30

Il parlante apprendente di lingua italiana dovrà, inoltre, prestare attenzione ai molteplici linguaggi settoriali (sottocodici) associati a specifici gruppi o ideologie ma tener presente allo stesso tempo che, al di là dell’aspetto descrittivo e normativo, la tendenza comune attuale della lingua va verso una commistione di codici e registri: la percezione, la comprensione e la produzione linguistica del parlante apprendente dovranno costantemente riadattarsi alla natura mutevole della lingua d’arrivo.

Varietà diatopiche

La situazione italiana non può essere esaustivamente descritta se non focalizzando una maggiore attenzione sulla variabilità linguistica a livello geografico la quale, per lo

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meno nell’uso orale, si sovrappone a tutti gli assi di variazione (Cerruti, 2009; Berruto, 1987):

le differenze geografiche, riguardando in primo luogo l’intonazione e la