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Son di parere che Cornelio Celso e Dioscoride prendessero errore quan-

do lodaro il bere oltre il bisogno, né me ne maraviglio perché non ci è uomo che non erri, onde anche il buono Omero alle fiate231 trappassa delle cose son- nacchiosamente. Quanto a Novellio Tricongio, vi rispondo che s’egli per bere una gran quantità di vino acquistò il proconsolato e il cognome di Tricongio, Tiberio imperatore, che ne fu causa, per simili prodezze acquistò anch’egli una perpetua infamia e di Tiberio fu chiamato Biberio232. Ma se volete che anch’io vi dica dei gloriosi effetti che nascono dal molto bere, udite per cortesia quel che ne dice Plinio:

Tanta fatica e tanta spesa si mette in cosa che ci metta l’animo in travaglio e ge- neri furore in modo che una gran parte non sa che altro premio ci sia della vita, dandosi con gran dolcezza a questo per mille sceleratezze; e per pigliarne più rompiamo le forze col sacco233 e vannosi cercando altri incitamenti; e per ca-

gion di bere fannosi ancora veleni, e alcuni pigliano innanzi la cicuta accio- ché la morte gli costringa a bere, alcuni farina di pomice e altre cose, le quali mi vergogno a dire per non insegnarle. Noi veggiamo i più accorti da questi ba- gni esser cotti et esserne portati mezzo morti. Alcuni altri non possono aspettare il letto234, ma neanco pur la veste, che qui ignudi e parlando pigliano vasi gran-

di, quasi come in quel modo volessero far conoscere le forze loro, e beono a un

229 si lasciano i segni: si rendono riconoscibili con segni, si marcano.

230 Novellio Tricongio: pLinio, XIV, XXII, Rimedi per non ubbriacarsi, p. 448. Il

nome di Novello Tricongio è citato da Lando, Paradosso VII, p. 137. Il congio era

un’unità di misura romana equivalente a 3, 283 litri.

231 alle fiate: a volte.

232 Svetonio, De vita Caesarum, II, Tiberius, XLII: «In castris Tiro etiam tum prop-

ter nimiam vini aviditatem pro Tiberio “Biberius”, pro Claudio “Caldius”, pro Nerone “Mero” vocabatur».

233 rompiamo le forze col sacco: Domenichi traduce qui malamente «sacco fran-

gimus vires vini», cioè «mitighiamo la forza del vino filtrandolo in tela di sacco» di

Naturalis Historia, XIV, XXVIII, 128.

234 non possono aspettare il letto: non aspettano nemmeno di essersi sdraiati (sui

tratto per aver di subito a recere235 e di poi ribere più volte come se fossero nati

per consumare il vino e come s’esso vino non si potesse versare se non nel cor- po umano. A questo fine fanno grande essercizio e rivolgonsi nel fango e disten- dono il petto e il collo. Per tutti questi essercizii dicono di procacciar la sete. Di poi ne’ vasi da bere236 sono scolpiti gli adulterii, come se la ubbriachezza per se

stessa non n’incitasse alla lussuria: così i vini si beono per lussuria e l’ubbria- chezza è invitata col premio e pagasi anco alcuno perché mangi quando ha bevu- to et egli riceve il premio secondo le convenzioni dell’ubbriacarsi. Un altro tanto bee quanto egli ha vinto col dado237. Allora con gran desiderio gli occhi vagheg-

giano le donne d’altri in modo che ’l marito s’accorge della lor sciochezza. Al- lora i segreti dell’animo si vengono a scoprire. Altri fa testamento, altri parla238

cose mortifere e non sa ritener le parole c’hanno a tornar per la gola239, e per que-

sta via molti ne sono stati morti240. E già communemente s’usa dire che la veri-

tà sta nel vino241. In questo mezzo, quando n’esca lor benissimo242, non veggo-

no mai levare il sole e vivono manco tempo. Di poi viene la pallidezza, gli occhi cispi, scerpellini243 e pieni d’umori, le mani tremanti che rovesciano i vasi pie-

ni, i sonni sono pieni di furie244 e la notte senza riposo. E il maggior premio del

cuocersi245 è una lussuria mostruosa e una piacevole sceleratezza. L’altro gior-

no246 l’alito pute e la memoria è quasi spenta e in questo modo dicono che fura-

no247 la vita e non s’accorgono i meschini che più tosto perdono quel giorno e

l’altro ancora che segue. Al tempo de Tiberio, già quaranta anni sono, fu ordina- to che beessero a digiuno e che ’l bere andasse innanzi al mangiare e ciò fu in- venzione de’ medici, i quali volevano acquistarsi grazia col trovar nuove cose. I Parti con questa vertù si procacciavano gloria; Alcibiade fra’ Greci s’acquistò fama e appresso di noi si guadagnò ancora il sopranome Novellio Torquato mi- lanese, il qual dalla pretura venne insino al proconsolato avendo bevuto tre con- gii di vino a un tratto248 in presenzia di Tiberio, il quale stava a vedere ciò come

per miracolo: benché già per vecchiaia fosse molto severo e fosse sempre sta- to crudele, tuttavia fin da giovanezza era stato grandemente inclinato al vino. E

235 recere: vomitare.

236 ne’ vasi da bere: nelle coppe.

237 ha vinto col dado: ha vinto al gioco, cioè spende in vino tutti i soldi della vincita. 238 parla: dice.

239 c’hanno a tornar per la gola: che gli verranno ricacciate in gola (da chi ha of-

feso).

240 ne sono stati morti: sono morti ammazzati. 241 che la verità sta nel vino: in vino veritas.

242 in questo mezzo, quando n’esca lor benissimo: nel frattempo, quando va loro

bene, nel migliore dei casi.

243 cispi, scerpellini: cisposi, arrossati, infiammati. 244 pieni de furie: pieni di incubi.

245 del cuocersi: dell’ubriacarsi. 246 l’altro giorno: il giorno dopo. 247 furano: rubano.

per questo medesimo conto fu creduto ancora che ’l medesimo Tiberio creas- se Lucio Pisone curatore di Roma, perché egli aveva continuato di bere due dì e due notti appresso di lui già fatto imperatore249. Né per altra cosa più si stima-

va che Druso Cesare250 avesse regenerato251 Tiberio suo patre. Rara fu veramen-

te la gloria di Torquato252, poiché questa arte ancora ha le sue leggi, e questo è

che egli non perdesse ponto nel favellare253 e non si scaricasse né per vomito né

per altra parte del corpo, e mentre che beeva sempre vegliasse254, e beesse assai

per volta e non raccogliesse l’alito255 nel bere, non isputasse e non lasciasse nul-

la nella tazza, legge senza dubbio prudentemente ordinata contra ogni fallacia256

de’ bevitori. Tergilla rinfacciò a Cicerone, figliuolo di Marco Tullio, ch’egli be- esse a un tratto due congii di vino e che, essendo egli cotto257, percuotesse M.

Agrippa in una tazza, e queste sono opere della ubbriacanza. Ma Cicerone vol- le tore questa gloria a M. Antonio, che aveva fatto amazzare suo patre, percio- ché M. Antonio aveva desiderato questa fama e già aveva scritto un libro della sua ubbriachezza, nel quale, volendosi difendere, dimostrò a mio parere quan- to male per lo suo ubbriacarsi egli aveva fatto al mondo. Egli divulgò quel li- bro poco innanzi alla battaglia azziaca258, onde facilmente si vede com’egli era

già ebbro del sangue de’ cittadini e tuttavia n’aveva più sete che mai, percioché questo di necessità ne segue, che l’abito del bere259 n’accresce la voglia; e fu ar-

guto motto quello degli ambasciatori degli Sciti, che i Parti quanto più beveva- no tanto più avevano sete260.