LA TUTELA DEI DIRITTI IDENTITARI NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE SUPREMA CANADESE
9. Spunti per una ‘giurisprudenza contestualista” entro la denegazione del diritto di autogoverno indigeno
La Corte Suprema, nel caso Delgamuukw, affronta il tema della rilevanza probatoria delle tradizioni orali indigene, e, pur, rinviando la causa al giudice di primo grado, problematizza la connessione presente tra l’istanza identitaria e l'"aboriginal title" che, nelle precedenti ricostruzioni, è stato invocato come
species del genus più ampio degli “existing aborigal rights” o come titolo
costitutivo inquadrabile entro il common law esterno alla cornice costituzionale dell’art. 35.1. In entrambe le declinazioni, il presupposto di fondo esclude il riconoscimento del diritto di autogoverno ed una prospettiva di fondazione del titolo emancipata dalla logica post-‐coloniale.
359 “Le culture dei popoli indigeni che, prima dell’arrivo degli europei, occupavano il territorio che attualmente corrisponde al Canada, e che costituivano società organizzate con propri stili di vita, non possono essere ridotte a dei ‘wigwams’, a dei cestini e a delle canoe”, Ibidem, p. 715. 360 La qualificazione ‘distintivo’ integra l’elemento della specificità autoctona ma non equivale all’attributo ‘distinto’. La nozione di ‘aboriginality’ non deve essere ridotta a stereotipi razzializzanti verso i popoli indigeni”, Ibidem, p. 689.
Delgamuukw, e altri capi ereditari indiani, agiscono in nome proprio e per conto delle loro “Houses”, i Gitksan e gli Wet’suwet’en, rivendicando la proprietà e la giurisdizione su parti distinte di un territorio di 58.000 metri quadrati situato entro i confini della British Columbia e deducendo, quale titolo costitutivo della pretesa giudiziale, gli “adaawk” e i “kunga”. Il giudice di prime cure respinge la domanda ritenendo che tali fonti consuetudinarie, in quanto riproducenti aspetti di carattere mitologico, non potevano assumere la valenza di prove dell’utilizzazione o dell’occupazione ininterrotta dei territori rivendicati. Deve rilevarsi che, tuttavia, il giudice McEachern riconosce il valore probatorio sussidiario delle tradizioni orali inquadrandole nell’ambito dell’eccezione alla regola dell’“hearsay”, secondo cui la prova che non si forma nell’immediatezza del contraddittorio viene ammessa perché fondantesi sul principio che prevede che le dichiarazioni, rese da persone decedute, contenenti l’attestazione di diritti di natura pubblica o generale, possono costituire oggetto di testimonianze utilizzabili. Ma come rileva il Chief Justice Lamer:
“Se si affermasse questo orientamento, il valore delle tradizioni orali dei popoli autoctoni sarebbe costantemente e sistematicamente sottostimato dal sistema giuridico canadese. Le Corti devono interpretare le prove presentate dai popoli indigeni, tenendo conto delle difficoltà inerenti all’esame delle loro rivendicazioni”361.
Per Lamer, è contestabile che la degradazione del rango probatorio della fonte consuetudinaria indigena si fondi sull’impossibilità di distinguere all’interno di essa “gli aspetti mitologici da quelli reali”, sulla presupposta non attitudine della tradizione orale a riprodurre la “verità storica” o sull’evocazione di una “visione romantica”362. Nondimeno cedevole, tuttavia, risulta l’argomento
361 Delgamuukw, Supreme Court of Canada, 1997, p. 1074.
362 “His central concern that the adaawk and kungax could not serve ‘as evidence of detailed history, or land ownership, use of occupation’. I disagree with some of the reasons he relied on in support of this conclusion. Although he had early recognized, when making his ruling on admissibility, that it was impossible to make an easy distinction between the mythological and ‘real’ aspects of these oral histories, he discounted the adaawk and kungax because they were not ‘literally true’, confounded ‘what is fact and what is belief’, ‘included some material which might be classified as mythology’, and projected a ‘romantic view’ of the history of the appellants. He also cast doubt on the authenticity of these special oral histories because, inter
alia, ‘the verifying group is so small that they cannot safely be regarded as expressing the
reputation of even the Indian community, let alone the larger community whose opportunity to dispute territorial claims would be essential to weigh’”, Ibidem, pp. 1073-‐1074
dell’inautenticità della fonte consuetudinaria incentrato sulla motivazione della provenienza da uno specifico gruppo indigeno e non dal popolo indigeno nella sua interezza, in quanto la pretesa universalizzabilità della fonte presuppone un approccio monolitico che non tiene conto della pluralità degli “aboriginal
groups”.
In senso opposto, il Chief Justice cita l’inciso di Kruger nel quale Dickson aveva sostenuto che “le rivendicazioni del titolo aborigeno riposano sulla storia, sulla leggenda, sulla politica e sulle obbligazioni morali”363 e ribadisce che, se è vero
che l’utilizzabilità delle dichiarazioni extra-‐giudiziali entra in conflitto con la regola dell’“hearsay”, deve pure considerarsi che il disconoscimento del valore probatorio delle tradizioni orali indigene imporrebbe ai popoli autoctoni il fardello di una prova impossibile.
Per quello che concerne l’"aboriginal title", Lamer propone la definizione dicksoniana che in Guerin configura il "titre aborigène" come “il diritto, in
common law, di occupare e di possedere certe terre”. Nel giudizio di primo
grado, la caratterizzazione di questo diritto involge una radicalizzazione della dimensione collettiva ed identitaria che ne esclude la tutela. Nell’argomentazione di McEachern, infatti, il titolo aborigeno trova matrice costitutiva in una occupazione e in una utilizzazione del territorio legata esclusivamente a costumi, pratiche e tradizioni proprie del gruppo indigeno e costituenti parte integrante della sua cultura distintiva.
Lamer, invece, oppone un’interpretazione che non utilizza il modulo identitario allo scopo di restringere la tutela soggettiva per dimostrare che la rivendicazione dell’“aboriginal title” su un determinato territorio include un largo ventaglio di utilizzazioni compatibili con la natura del legame che i ricorrenti hanno con la terra, in quanto il fine della norma di cui all’art. 35 della Costituzione canadese, analogamente a quanto si è rilevato per gli altri “existing
aboriginal rights”, non mira a congelare diritti, ma a garantirne la protezione.
Il Chief Justice cita l’orientamento sviluppato da Dicskon in Guerin secondo cui “le utilizzazioni intraprese in ragione di un titolo aborigeno non si limitano a quelle fondate sui costumi, sulle pratiche e sulle tradizioni che fanno parte
integrante della cultura distintiva autoctona”, ma introduce anche il riferimento cogente dell’art. 18 dell’Indian Act e richiama l’Indian Oil and Gas Act. La prima disposizione, infatti, prevede, al primo comma, che le terre sono destinate “all’uso e al vantaggio” dei gruppi indigeni, e, al secondo comma, che possono essere utilizzate “per ogni altro fine concernente il benessere generale del gruppo”.
“Il benessere generale del gruppo non è definito in funzione dei costumi, delle pratiche, delle attività la cui origine risale all’epoca antecedente il contatto con gli europei; si tratta di un concetto che, per definizione, fa riferimento ai bisogni attuali delle collettività autoctone”364.
La seconda fonte normativa ha ad oggetto la concessione da parte della Corona nei confronti dei gruppi indigeni del diritto di sfruttare le terre detenute in virtù di un titolo aborigeno per l’estrazione di gas e petrolio, e, dunque, involge una configurazione non esclusivamente identitaria del diritto all’utilizzo della terra.
I capi Gitksan e Wet’suwet’en ricorrono alla Corte Suprema canadese riformulando la pretesa agìta davanti alle giurisdizioni inferiori nella forma dell'"aboriginal title" e del diritto all’autogoverno, in luogo della rivendicazione del diritto concettualizzato nei termini della proprietà e della giurisdizione sui territori. Questa precisazione è funzionale ad evidenziare che l’affermazione della specificità dell’aboriginal title in rapporto al diritto di proprietà così come concepito nella dogmatica civilistica moderna si atteggia a digressione di carattere antropologico rispettosa della diversità indigena ma, in realtà, assume anche la valenza di argomento cardine per denegare la pretesa giudiziale. Il medesimo discorso potrebbe replicarsi con riguardo all’accento che il ragionamento giudiziale pone sulla natura collettiva del diritto. Il dibattito teorico in tema di tutela della diversità è incentrato sulla valorizzazione della natura bidimensionale dei diritti soggettivi, sulla dimensione collettiva di esercizio del diritto, sul riconoscimento della titolarità soggettiva non meramente individuale in una prospettiva distante dalla radicalizzazione dell’istanza collettiva che, come si è visto in Sappier e in Van Der Peet, nella
configurazione del diritto indigeno, ha per conseguenza la neutralizzazione della tutela soggettiva individuale e la restrizione o la denegazione della tutela collettiva. Si ritiene che questo non sia l’esito della concettualizzazione indigena della pretesa giudiziale ma, verosimilmente, rappresenti la conseguenza dell’interpretazione allocronistica dell’art. 35 della Costituzione.
Quest’ultimo aspetto conferma che, in generale, la fossillizzazione dei diritti nella stereotipizzazione dei loro titolari, siano essi singoli o gruppi, spesso costituisce il prodromo di una tutela evanescente o di una protezione giuridica degradata a mero simulacro. In continuità con quanto rilevato sul Rapporto della Royal Commission on Aboriginal Peoples, peraltro citato nella decisione
Delgamuukw, non sorprende che la Corte Suprema, pure orientata ad affermare
una concezione non strumentalmente identitaria dell’“aboriginal title”, ritenga di respingere la rivendicazione del diritto di autogoverno dei ricorrenti, nel presupposto dell’insufficiente base probatoria. In questa direzione, evaporano i presupposti messi a fuoco da Lamer a fondamento del "titre aborigène" che, nel corpo della pronuncia, il Chief Justice aveva individuato non soltanto nel fatto fisico dell’occupazione, ma anche nei regimi giuridici autoctoni preesistenti.
CAPITOLO III
LA FRONTIERA DI ESPORTABILITA' DEL MULTICULTURALISMO