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Animalier

Tendenza di gran moda negli anni Trenta, riproduce sui tessuti i colori e le macchie dei felini o la pelle dei rettili. Tra gli stilisti che amano di più questo trend, spesso considerato come sinonimo di sfrontatezza, fiducia in se stesse e profonda autostima, vi è sicuramente Roberto Cavalli, che ha trasformato il maculato nel suo segno di riconiscimento. “Tutto l'animalier, nell'antica Grecia, era conosciuto come zoote. Oggi è leopardato, zebrato, tigrato, pitonato o sintetizzato dai termini “maculato” e “animalier”. La decorazione tessile che ricorda il manto delle fiere nell'epoca greco- romana si riconduceva al culto dionisiaco, associato all'ebrietà e alla lussuria, la cui figurazione biblica, la lonza dal “pel macolato”, impedisce a Dante Alighieri il cammino verso la salvezza. Nell'iconografia quattrocentesca di Maria Maddalena è spesso presente la pelliccia maculata, riferimento ai trascorsi lascivi della santa, ma l'animalier è associato all'esoterico e al satanico, specie durante il Rinascimento, quando si iniziò a studiare il paganesimo antico e la civiltà egizia, nella quale il leopardo rappresentava un vincolo con l'adilà, o anche, come descritto nel volume Iconologia di Cesare Ripa del 1593, la figurazione della Libidine, con indosso una “pelle di pardo”, perché si mescolava con altri felini e le cui macchie sono paragonate ai pensieri impuri dell'uomo libidinoso. […] La vera donna-fiera è Josephine Baker, stella del Folies Bergère con la Revue nègre: siamo nel 1930, la Baker è di colore, esotica, selvaggia e osa costumi succinti da donna- pavone. Indimenticabile l'immagine del 1952 di Ava Gardner in perle e guêpière

107 Simone Marchetti, Fendi: lusso tagliato al vivo e borse lingerie, in Sei di moda, «repubblica.it», 27 Settembre 2009 http://temi.repubblica.it/seidimoda-milano-moda-donna-primavera-estate- 2010/2009/09/27/fendi-lusso-tagliato-al-vivo/

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leopardata adagiata su un manto en pendant, o di Audrey Hepburn in cappello leopardato nel film Sciarada del 1963.

L'animalier sfila in passerella per la prima volta in occasione della collezione Primavera/Estate 1947 di Christian Dior che decise di avvolgere le sue modelle in nuvole di chiffon leopardato. Secondo «Vogue» il '71 è stato “l'anno della zoologia nei ricami, nei gioielli, negli stampati, ornamenti per donne-fiere, libere e sensuali”. L'animalier ha caratterizzato anche gli abiti di Valentino, incoronato da Nancy Hastings sul Toronto Star "Re della giungla della moda", il 26 dicembre '87. Cinque anni dopo, nel gennaio 1992, la fashion-jungle era sofferente per la crisi dei fatturati, a cui Gianni Versace rispose, durante le sfilate prêt-à-porter maschile di Milano, collezione Autunno/Inverno 1992/93, con camicie in seta maculate, appunto per dare nuova linfa alla flora e alla fauna della giungla.”108

Atelier

È un sostantivo maschile francese che deriva dall’antico astelier (da astelle = scheggia di legno), che a sua volta deriva dal latino tardo astella, diminutivo di astŭla, variante di

assŭla (=scheggia, assicella di legno). Propriamente è il luogo in cui lavorano gli artigiani,

ma il termine si riferisce nello specifico anche ai laboratori degli artisti e alle sartorie per le creazioni di moda.

Bluette

Dal francese bluet, ovvero “fiordaliso”. Il termine indica una particolare tonalità di blu, più scura del comune azzurro. Appartiene all’uso specialistico del mondo della moda. Brand

“Una volta, la si chiamava marca. Succedeva quando il mondo era un posto meno complesso, i consumi una semplice dinamica domanda-offerta, lo stile un concetto personale, non globale. Succedeva quando comunicazione e marketing non avevano ancora preso il sopravvento, riducendo qualsiasi cosa, in particolar modo le espressioni della creatività, a un diagramma pseudo-scientifico di dati orchestrati per rispondere a un solo, mefistofelico fine: il massimo profitto (con il minimo investimento, naturalmente). Quel mondo non esiste più, e così le vecchie marche. […] siamo entrati nell’Era del Brand, con tutto il suo perverso e minaccioso corollario di «branding, awareness, philosophy, identity» e chi più ne ha più ne metta.

Un brand è un marchio all’ennesima potenza […]. È l’identità stessa di un prodotto; la sua anima. Insidioso per quanto mai, può prendere le forme più disparate, dal nome al segno grafico allo slogan: sostanzialmente è un’idea. Il brand è un’identità madre, per così dire, cui aspirano a identificarsi, o anche solo a venire a contatto, i consumatori-

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figli, che per imprinting ne riconoscono i caratteri, ovunque, al minimo cenno. Il brand è il trionfo definitivo del virtuale sul materiale: a volte il prodotto non è nemmeno necessario. Basta la comunicazione.

[…] Deriva dal verbo to brand, ossia “marchiare a fuoco”, e si riferisce alla pratica di contrassegnare i prodotti per distinguerli da quelli concorrenti. La necessità emerse come un imperativo categorico, post-rivoluzione industriale, con l’affermarsi dell’economia di mercato e l’aumentata circolazione delle merci. Rendere un prodotto più visibile e indimenticabile di un altro era la sola via per il successo. In questo senso, il brand equivale al marchio di fabbrica, o alla sigla di riconoscimento: pratica ancestrale, usata da che l’uomo ha cominciato a darsi da fare con le mani. È, in altre parole, un logo, una sigla, ma con qualcosa in più. Fu negli anni Quaranta che il brand, come lo conosciamo oggi, cominciò a definirsi. Ampliando l’appeal del proprio marchio attraverso le pubblicità, i jingle e i gadget, le aziende presero ad associare precisi caratteri – gioia, ottimismo, spensieratezza, in genere – ai propri prodotti, invitando i consumatori a identificarsi con questi caratteri, più che col prodotto stesso. In pratica, a spingere all’acquisto non era più la necessità vera, quanto piuttosto il bisogno, simbolico e immateriale, di respirare e immergersi nell’aria che sta intorno a un marchio. Di stortura in stortura, si arriva a oggi. È negli anni Novanta e poi Zero che lo strapotere del brand si afferma in maniera definitiva”109.

Couture

Termine francese, la cui traduzione letterale è “cucitura”. Deriva dal latino consutura <

consuĕre, ovvero cucire. È utilizzato per indicare l’arte della moda femminile.

Creative advisor

È il consulente creativo, il cui titolo sembra assumere un prestigio maggiore se citato in inglese. O perlomeno questo è ciò che accade nell’immaginario comune. Ad ogni modo il creative advisor ha il compito di incrementare il valore del brand e dell’azienda in questione grazie a criteri creativi. Si può occupare dell’aspetto comunicativo o di quello grafico ed è dotato di profondo intuito, creatività e capacità di oltrepassare i confini del già visto e già detto. Per questo motivo spesso le aziende scelgono dei consulenti che, in relazione a un certo periodo di tempo o a un progetto che si vuole lanciare, offriranno a quel brand tutte le loro conoscenze e la loro esperienza nel campo della creatività.

Cromatismo

Deriva da cromatico ed è in relazione con il greco χρωματισμός, ovvero colorazione. È la colorazione o l’eccesso di essa ed è spesso utilizzato come termine tecnico nell’ambito

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della moda. Nell’articolo di «Via Condotti» si legge “cromatismo” in Active inspiration di «Vogue Italia» si parla di “cromia”.

Défilé

Dal francese défiler, ovvero “mettersi in fila, sfilare”. E infatti il termine indica proprio la sfilata di moda, la passerella. Si tratta comunque di un termine inconsueto, spesso sostituito da parole inglesi quali fashion show, catwalk e runway (queste ultime indicano propriamente la passerella).

Designer

Da design, che a sua volta deriva dal latino designare e dal francese designér. Designer è oggi il termine più di tendenza per indicare lo stilista di moda o chiunque realizzi qualcosa di artistico e creativo.

Ethical fashion

È il nome di un progetto promosso dall’ente AltaRomAltaModa che ha l’obiettivo di favorire e sviluppare una moda etica ed ecosostenibile. Stella Jean, ad esempio, brand citato nell’articolo del «Corriere della Sera» del 18 settembre 2014 Gucci e il puzzle di

stampe. «Il vero lusso? L’artigianato», appartiene al progetto Ethical fashion.

Fashion director

È il direttore di moda, espressione usata generalmente per chi si occupa della sezione fashion sulle riviste. Nel caso dell’articolo del «Corriere della Sera» del 19 Settembre 2014 Prada, eleganza senza tempo, il fashion director è Laura Lusuardi, direttore creativo della casa di moda Max Mara. Il termine fashion, utilizzato spesso in relazione al business, ha origine nel Medio Inglese col significato di “apparenza, fare, forma” e poi successivamente anche “realizzazione, stile”. Deriva dall’Antico Francese façon, che a sua volta deriva dal latino factio < făcĕre. Il termine director ha origine invece dal Francese anglonormanno directour, che a sua volta deriva dal tardo latino director <

dīrĭgĕre.

Fashion system

Indica il mondo della moda ed è il migliore esempio di ciò che si è affermato prima riguardo l’utilizzo del termine fashion, ovvero la predilezione del forestierismo inglese quando si parla di business. System ha origine all’inizio del XVII secolo, deriva dal tardo latino systema, che a sua volta deriva dal greco sustēma da sun (= con) e hustanai (=assemblare, mettere insieme).

197 Fucsia

Dal latino scientifico fuchsia, nome coniato nel 1693 dal botanico francese Ch. Plumier in onore del naturalista tedesco L. Fuchs (1501-1566). Si tratta di un genere di piante onagracee, comprendente un’ottantina di specie arboree o arbustive nell’America centrale e meridionale e in Nuova Zelanda, coltivate per i bei fiori penduli spesso rossi e violaceo-azzurri, di lunga durata. Nell’ambito della moda, il termine fucsia si riferisce al colore tipico di questi fiori.

Giallo limone, rosso lampone, lavanda e indaco

È un fenomeno particolare che vale la pena segnalare: nell’articolo di «Via Condotti» i colori sono colti nelle loro sfumature più precise, proprio come una rivista specialistica ama fare, ma vengono comunque associati a immagini reali e concrete, come il limone e il lampone, che tanto ricordano il modo di fare di riviste femminili più generiche. Giulia Calligaro110 infatti precisa che magazine come «Vogue» ad esempio utilizzano i nomi

tecnici delle tonalità (come in questo caso si verifica con “lavanda” e “indaco”) o semplicemente nominano la cromia come è conosciuta ai più a differenza di altre testate femminili che invece richiamano un colore associandolo magari a un sapore (e l’esempio lampante si ha qui con giallo limone e rosso lampone). In realtà, ciò che si vuole sottolineare nell’articolo in questione nominando il giallo che non è proprio giallo, un rosso che è un rosso inconsueto, il colore della lavanda o ancora l’indaco, è l’originalità, l’estro e la vivacità della collezione di Borsalino oltre che (o anche grazie a) la capacità evocativa della giornalista di «Via Condotti». Inoltre questo non è l’unico caso riscontrato in cui i colori assumono nomi particolari. Si pensi agli azzurri e rosa baby che si leggono nel «Corriere della Sera», per esempio.

Glamour

Usato, stravolto e inflazionato, il termine glamour evoca immagini di alta moda, lustrini e paillettes. Risalente al XVIII secolo, deriva originariamente da una voce scozzese la cui traduzione equivale a “incantesimo, magia”; è alterazione di grammar, che deriva dalla parola latina grammatica, che nel Medioevo era utilizzata per indicare la conoscenza in senso ampio, compresa quella che concerne le pratiche oscure. Oggi fa riferimento a ciò che è in voga, alle tendenze più desiderate, a ciò che nella moda affascina di più. Griffe

Il sostantivo griffe indica la firma, il brand, la marca in questione. Nonostante anche in italiano esista l’adattamento ‘griffa’, è evidente quanto quest’ultimo termine non sia riuscito a raggiungere il successo del corrispettivo francese che ancora oggi, nonostante spesso sostituito dal più contemporaneo brand, si legge negli articoli di moda e non solo.

198 Haute couture

In francese, per evocare un’atmosfera unica, lontana, elitaria quale è quella dell’alta moda. È negli anni Sessanta dell’Ottocento che nasce il concetto di haute couture, ad opera di Charles Frédérick Worth (1825-1895), che proprio in quegli anni aveva raggiunto la notorietà grazie a una sua creazione in mostra all’Esposizione Universale di Parigi del 1855, avviato un’attività propria e infine divenuto sarto di corte dell’Imperatrice Eugenia. Per lei realizza abiti da ballo in tulle e merletto, sperimenta con i tessuti più pregiati, introduce nuove forme vestamentarie come l’abito princesse (“veste che, non tagliata in vita e con profonde pieghe che si allargano all’orlo, si chiude sul davanti con una fila di bottoni”111). Già nel 1868 l’alta moda viene sottoposta a

regolamentazioni. È di quell’anno infatti la fondazione della Chambre syndicale de la

haute couture et de la confection, col ruolo di disciplinare alta moda e produzione. Tra

le norme viene introdotto per esempio l’obbligo di presentare a Parigi 75 nuovi modelli in base ai calendari ufficiali con cadenza semestrale. L’alta moda cresce, le maison di lusso sviluppano una loro linea di alta moda e Parigi si conferma anno dopo anno la capitale dello stile e del buon gusto. La seconda guerra mondiale poi devasta gli animi e le materie prime e solo dal 1947 in poi l’haute couture vivrà un periodo di nuovi trionfi: il New Look di Christian Dior, la little black jacket di Coco Chanel, le collezioni raffinate ed eleganti di Hubert de Givenchy e le sperimentazioni di Yves Saint Laurent possono essere da esempio.

In Italia l’alta moda nasce nel 1951 con la prima sfilata a Palazzo Pitti organizzata da Giovanni Battista Giorgini. Prima infatti si instaurava un rapporto personale tra il sarto e la donna che sceglieva da chi farsi vestire. Se si volesse invece analizzare il ruolo e il concetto di alta moda oggi, si aprirebbe una digressione probabilmente estremamente fuorviante. Basti sapere comunque che gli anni d’oro per l’alta moda francese (ma anche italiana) furono i Cinquanta, quando il numero di maison di haute couture toccava quasi i novanta. Oggi si supera a malapena la decina. Non ci sono dati economici ufficiali e sembra impossibile stabilire le entrate reali generate dall’alta moda che ancora oggi è suddivisa in due momenti (Autunno/Inverno e Primavera/Estate) e sfila a Parigi112.

Eppure gli introiti non sembrano essere così alti come ci si aspetterebbe. Sarà che un tempo le donne aristocratiche sceglievano l’alta moda per vestirsi mentre oggi anche quelle più benestanti puntano più alla quantità e dunque al prêt-à-porter; sarà che gli abiti di alta moda sono ormai sempre più frutto di sperimentazioni, gioco creativo e originalità, probabilmente l’unico momento in cui gli stilisti si sentono meno vincolati dalle leggi del mercato; o ancora sarà anche che le celebrities durante gli eventi speciali

111 Dizionario della moda, s.v. Linea

112 Da Firenze a Roma a Parigi: è questo il percorso dell’alta moda italiana che ha sentito la necessità di oltrepassare il confine molto probabilmente per mancanza di strategia, interesse e lungimiranza governative. Oggi esiste ancora un’alta moda romana grazie all’ente AltaRomaAltaModa che da poco ha perso anche il supporto del Comune di Roma. Kermesse di importanza “minore”, è il trampolino di lancio per molti stilisti emergenti, per le scuole di moda e per l’estro Made in Italy: il potenziale motore di una nuova ripartenza, occasione unica e arricchente non solo per partecipanti e addetti ai lavori, ma per tutta la città e la nazione.

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ricevono in dono gli abiti che scelgono di indossare, diventando testimonial per una serata di quel dato brand: che si tratti di un motivo scatenante o di un mix di questi, l’alta moda non è chiaramente fonte di eccessivi profitti, ma resta comunque un mondo privilegiato, creativo ed estremamente incantevole; l’espressione di prospettive e soprattutto una straordinaria forma d’arte.

Light

Dall’Inglese antico Lēoht, Līht (nome e aggettivo), līhtan (verbo), di origine germanica; in relazione al tedesco licht e al germanico licht, da una radice indoeuropea condivisa dal greco leukos (=bianco) e dal latino lux (=luce). Il termine è ormai entrato nell’uso comune e risulta molto frequente anche nel linguaggio della moda. Nell’articolo de «La Repubblica» del 18 settembre 2014 Doppia Anima, ad esempio, indica la leggerezza dei tessuti, dei capi e dell’intera collezione: punto focale della sfilata di Andrea Incontri. Look

Parola inglese che, nell’accezione di esteriorità e apparenza, ha origine nell’inglese antico dal verbo del germanico occidentale lōcian e dal dialetto germanico, lugen. Nella lingua italiana subentra negli anni Ottanta e “almeno in origine, voleva dire anche appartenenza a una classe sociale o a un gruppo politico, a una casta o a una gang. Così, quasi per caso, sono nate generazioni di replicanti clonati sulle pagine delle riviste di moda e dei settimanali di presunto approfondimento. […] tutti allo stesso modo portatori di un’infinità di brutte abitudini copiate e quindi peggiorate. Termine certamente detestabile in questa sua accezione al quale è concesso un unico appello, quello di legarsi al cervello e alla personalità oppure di sparire definitivamente dalla faccia della terra e dalla riga di ogni vocabolario”113.

Maison

Dal latino *mansionata, da mansio, mansionis: soggiorno, dimora. Il termine indica la casa di moda, l’azienda che così definita assume un’aura di lusso e prestigio.

Mimetico

È la traduzione italiana del termine camouflage, ben più noto e utilizzato nel mondo della moda. Tratto dall’ambiente militare, indica i capi di abbigliamento con macchie di verde diverso, utili originariamente per confondersi con l’ambiente e sfuggire all’osservazione nemica.

200 Mise

Propriamente “messa”, è participio passato del verbo francese mettre. Dal latino

mittĕre, ovvero gettare fuori, lasciare andare, porre, produrre. Il termine indica il modo,

la foggia di vestire e il tipo di abbigliamento. Mood

Termine molto usato nell’ambito della moda, per indicare un’atmosfera, una sensazione, l’ispirazione di una sfilata e della collezione. Dall’antico inglese mōd, di origine germanica, l’origine del termine è in relazione al tedesco moed e al germanico

mut.

Must, Must have

Dall’Antico inglese mōste, past tense di mōt (=dovere), di origine germanica. È legato al tedesco moeten e al germanico müssen. Con i termini must e must have si intendono tutte quelle cose che non possono (o non dovrebbero) mancare nell’armadio di un appassionato di moda.

Outfit

Un tempo era look, oggi è outfit. Le accezioni, è chiaro, sono diverse. Il look, come si è detto, è uno stile, un modo di porsi, un rispetto delle regole. L’outfit è il completo, ciò che si indossa, l’insieme di pezzi che si scelgono per una data occasione. È la mise francese, resa più contemporanea e fresca grazie alla lingua inglese. Già attestato in «La Repubblica» del 13 gennaio 1989, p. 25, Spettacoli, in un articolo di Tullio Kezich in cui si parla di Mickey Rourke e del film Homeboy.

Paillettes

Il termine deriva dalla parola francese paille, ovvero “paglia”, che a sua volta deriva dal latino, pălĕa. Sta ad indicare sia il “dischetto lucente in metallo o in materiale sintetico, realizzato in un’infinita gamma di colori”114 che semplicemente “le perline utilizzate nei

ricami e nelle decorazioni”115. È il corrispondente francese di lustrino e la predilezione

nella lingua italiana del termine d’Oltralpe indica quanto fascino possieda un forestierismo, tanto da prediligerlo anche quando si ha tutta la strumentazione per esprimere lo stesso concetto nella propria lingua madre.

114 Ivi, s.v. “Lustrino” 115 Ibidem

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