Lo scetticismo ermeneutico nell’attività giudiziale del giudice costituzionale.
1. Le teorie scettiche dell’interpretazione giuridica e “i diritti presi sul serio”
La concezione scettica dell’interpretazione giuridica è molto avallata nei sistemi insulari di common-law, in quanto riconducibile ad alcuni aspetti del realismo giu- ridico americano e viene, per lo più, condivisa dai giuristi cosiddetti ermeneuti- ci97, studiosi dell’ interpretazione giuridica, nei sistemi giuridici continentali. Secondo l’accezione scettica dell’interpretazione giudiziale, l’attività del giudi- cante non è atto di conoscenza, bensì, prevalentemente, atto di volontà98. Le teorie scettiche dell’interpretazione giuridica evidenziano estremamente la componente
97 Le varie tematiche concernenti l’ermeneutica giuridica, in relazione al diritto costituzionale,
saranno affrontate nel prosieguo del capitolo.
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volitiva e discrezionale del potere giudiziario, laddove i giudici di ultima istanza, sarebbero, addirittura, liberi di attribuire ai testi normativi qualunque significato, e non vi è nessuno che possa contraddire le loro decisioni interpretative: “ Whoever hath an absolute authority to interpret any written or spoken laws, it is he who is truly the law-giver to all intents and purposes, and not the person who first wrote or spoke them”99.
Da questa citazione, si può chiaramente constatare l’antitesi tra le teorie cogniti- ve100 dell’interpretazione giuridica, basate sul rispetto del significato letterale del testo di legge o della volontà storica del legislatore, e la concezione scettica che, nella sua radicalità, non ammette alcun significato normativo precostituito
99 Benjamin Hoadley, Bishop of Bangor, citato da R. Guastini, Argomentare e interpretare,
Giuffrè, Milano, 2011, p. 412.
100 L’accezione cognitiva, ma talora anche detta “formalistica” dell’interpretazione giudiziale si
fonda proprio sull’assunto che l’attività interpretativa del giudice è prettamente un atto di scoperta e di conoscenza del significato letterale. In ogni testo normativo, dunque, esiste un solo senso univoco e suscettibile di conoscenza: il significato deve ritenersi incorporato ai testi normativi e precostituito all’interpretazione, la quale consiste appunto nel portarlo alla luce.
Da questo punto di vista, si potrebbe dedurre che ogni testo normativo sia suscettibile di una sola interpretazione vera (tutte le altre essendo false), ed ogni questioni di diritto è suscettibile, per così dire, di una ed una sola “soluzione corretta”. Questo modo di vedere disconosce dunque l’equivocità degli enunciati normativi e la vaghezza dei predicati, così come la discrezionalità interpretativa che ne discende. In questo senso, per dirla con Montesquieu, il giudice non è altro che la bocca della legge, e la funzione giurisdizionale non è che un potere “nullo”.
Attualmente la teoria cognitivistica non è più condivisa ma, nondimeno, essa persiste ad essere presente nello stile discorsivo e argomentativo di molte corti.
Soprattutto, essa è insita in molte istituzioni e dogmi dello stato moderno: in particolare, nella separazione dei poteri, come pure in tutti i controlli di legittimità sugli atti dei pubblici poteri ( il controllo di Cassazione sulla legalità delle sentenze di merito, il controllo di legittimità costituzionale sulle leggi, la garanzia dei diritti di libertà affidati in ultima istanza al potere giurisdizionale senza alcun controllo o contrappeso esterno alla stessa giurisdizione).
D’altro canto non è difficile vedere in controluce, dietro la teoria cognitivistica, un’ ideologia, ossia una dottrina che cerca “ non tanto di descrivere ciò che accade ma di prescrivere quello che dovrebbe accadere”.
Quanto ai presupposti, questa dottrina trova il suo fondamento in altre dottrine, quali quella della sovranità del parlamento e della separazione dei poteri. Pertanto, il giudice, interprete ultimo delle leggi, non è investito di quella democraticità, non essendo stato eletto dal popolo sovrano e, quindi, dovrà limitarsi ad essere un mero esecutore della volontà legislativa, in quanto tutte le responsabilità inerenti alle scelte di natura politica devono incombere solamente sul parlamento. Questi dogmi postulano dunque che il significato delle leggi sia pre-determinato dal potere legislativo e che l’interprete debba essere passivo e sottomesso alla volontà sovrana dalla quale la legge promana.
Questa dottrina per un verso vorrebbe assicurare la certezza del diritto, la stabilità dei rapporti giuridici e la prevedibilità delle decisioni giurisdizionali, e, per un altro verso, tenderebbe utopisticamente, anche, alla realizzazione della giustizia cosiddetta formale, ovvero “l’eguale trattamento dei medesimi casi”. Cfr. R. Guastini, Interpretare e argomentare, Giuffrè Editore, Milano, 2011, cit., pp. 409 e ss.
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all’interpretazione giudiziale: è il giudice che principalmente, di volta in volta, crea o decide quale significato normativo applicare al caso concreto.
Le teorie scettiche “radicali” dell’interpretazione giuridica, ritenendo prevalente l’attività volitiva e la discrezionalità del giudicante-interprete, possono ritenere plausibile che il magistrato utilizzi anche argomentazioni di tipo politico.
Ronald Dworkin, nel suo celebre capolavoro, I diritti presi sul serio, affronta chiaramente la questione concernente l’influenza delle “policies” nelle decisione giuridica e traccia subito una chiara distinzione tra principio e “policy”101, inten- dendo l’ultimo come quello “standard” che si prefigge uno scopo per il migliora- mento economico, politico e sociale della collettività. Ad esempio, è considerato un argomento di “policy” lo “standard” per il quale gli incidenti automobilistici devono essere diminuiti per il bene della comunità. Il principio, invece, incorpora un requisito di equità e di giustizia o di qualche altra dimensione morale, a pre- scindere dal miglioramento economico e sociale della collettività. Nota è stata l’affermazione di Dworkin nel ritenere che i principi giuridici rispecchino sempre dei valori morali, contrastando con la tesi della separabilità, tra diritto e morale, sostenuta da Hart, allievo di Kelsen e noto esponente delle più recenti teorie sul normativismo giuridico102.
Naturalmente l’adempimento di un principio può anche coincidere con la realiz- zazione di una “policy”, come nel caso in cui il principio difenda un obbiettivo sociale che migliori il benessere economico della società.
Dworkin, ha conferma dello scetticismo ermeneutico, riscontrabile nei paesi di common law, cita due casi dove la giurisprudenza americana, per decidere sulla controversia, ha utilizzato dei principi che non sono stati desunti dall’insieme del- le norme scritte formalmente valide, affrontando, quindi, la questione inerente al- la discrezionalità del soggetto giudicante. Nel primo caso ( Riggs v. Palmer )103, descritto dall’Autore, i giudici avevano negato il diritto a ereditare al nipote, in quanto era stato il medesimo assassino del nonno testatore. Pertanto, se si fossero interpretate secondo criteri letterali le norme sull’eredità testamentaria, senza
101 Cfr. R. Dworkin, I diritti presi sul serio, N. Muffato (a cura di) il Mulino, Bologna, 2010, pp.
48 e ss.
102 Cfr. H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, trad. it., Einaudi, Torino 1965, p. 217 e ss. 103 Deciso dalla Corte di Appello di New York nel 1889.
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analizzare fattualmente il comportamento concreto delle parti, il nipote erede, no- nostante fosse stato l’assassino del nonno testatore, avrebbe avuto diritto all’eredità. Tuttavia, la Corte affermò che “tutte le leggi possono essere controlla- te nella loro operatività e nei loro effetti dalle massime generali e fondamentali del common law” e, quindi, dalla fonte giurisprudenziale si poteva ricavare il principio, non ancora statuito dalla legge, per il quale: “nessuno può trarre un profitto da un proprio atto di frode o da un comportamento illecito”. Nella deci- sione finale, pertanto, la Corte ha negato il diritto da parte del nipote assassino di ereditare dal nonno, proprio in virtù all’estrapolazione di un principio giuridico non ancora statuito da nessuna disposizione scritta e applicato “post facto”. Nel secondo caso ( Henningsen v. Bloomfield Motors104 ) analizzato dall’Autore, era stato estrapolato il principio non scritto (non precedentemente cristallizzato da nessuna legge) per il quale il produttore di automobili non può limitare la propria responsabilità civile, nel caso in cui le automobili vendute risultino difettose. Nel caso concreto, nonostante il contratto firmato dal compratore, che conteneva la clausola inerente alla limitazione della responsabilità del produttore, fosse valido ed efficace, i giudici americani, andando oltre a quanto scritto nel contratto, ave- vano dedotto che in una società come la nostra in cui l’auto costituisce un mezzo diffuso e necessario per la vita quotidiana e in cui l’uso della stessa automobile costituisce un effettivo pericolo per il conducente, i passeggeri e per i terzi, il pro- duttore ha un obbligo speciale in relazione alla costruzione, reclamazione e vendi- ta delle proprie auto.
Dunque i giudici, andando oltre l’interpretazione letterale del contratto ed analiz- zando il contesto sociale (dove è intercalato l’uso dell’automobile), hanno estra- polato un principio non scritto il quale, nella decisione finale, è stato preferito ri- spetto a quanto prestabilito dal contratto, in quanto il produttore ha dovuto risarci- re le spese mediche del convenuto incidentato, a causa del difetti della autovettura venduta.
Dworkin, tuttavia, ha cercato di giustificare l’attività creativa dei giudici di com- mon law all’interno dello stessa democrazia costituzionale, rispondendo alle due
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obiezioni sostenute da coloro che credono che i giudici, tramite la loro attività vo- litiva e creativa, non rispettino sempre le istanze di un sistema democratico105. La prima obiezione è inerente al criterio democratico per cui una comunità debba essere governata da funzionari eletti, i quali sono i soli che possono prendere deci- sioni politiche ed emanare leggi e quindi i giudici, non essendo eletti, non possono avere la facoltà di creare diritto.
La seconda obiezione concerne la retroattività del diritto creato post facto dal giu- dice e applicato al caso in questione, creando la concezione che la parte soccom- bente sarà punita non perché abbia violato un dovere preesistente, ma perché ha infranto un dovere nuovo di cui non era a conoscenza e quindi la parte potrebbe essere punita senza il rispetto della certezza del diritto.
Entrambe le obiezioni vogliono affermare che i giudici, nelle loro decisioni, non possono sostituirsi ai funzionari eletti che hanno il compito di contemperare gli interessi politici. Inoltre, sarebbe sbagliato sacrificare i diritti di un innocente in nome di qualche altro dovere creato post facto, giustificato da argomentazioni che potrebbero essere non solo inerenti a principi e a massime giuridiche, ma il giudi- ce potrebbe anche essere influenzato da argomentazioni politiche.
Dworkin ha risposto alla prima obiezione supponendo che se il giudice, nell’attribuire un nuovo diritto all’attore, decida giustificando con le sole ragioni di principio, così chiare e motivate dal punto di vista giuridico, renderebbe super- flue tutte le altre possibili considerazioni di “policies”. Allora potremmo dedurre che se un giudice possiede una idonea competenza tecnica-giuridica e non si la- scia influenzare dagli interessi politici esterni, si troverà in una posizione migliore per valutare il caso concreto e deciderà sempre secondo diritto, assicurandone an- che la sua certezza.
Per la seconda obiezione l’autore risponde sostenendo che se l’attore ha un diritto ad una decisione giudiziale a proprio favore, allora è legittimato a fare affidamen- to su quel diritto. Inoltre, il convenuto non è nella posizione di affermare che si tratti di un’ingiustizia solo perché tale diritto, a favore dell’attore, non è pubblica- to in nessuna disposizione legislativa ed è stato creato post facto. Il convenuto verrà sorpreso solo se la pretesa dell’attore fosse dubbia, ma l’attore vincerà co-
105 Cfr. R. Dworkin, I diritti presi sul serio, N. Muffato (a cura di) il Mulino, Bologna, 2010,
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munque, perché il giudice soppesando e argomentando con ragionevolezza le pre- tese delle parti, indagando sul loro comportamento ed analizzando fattualmente il caso concreto, pronuncerà una decisione giuridica giusta , non influenzata da nessuna politica.
L’Autore conclude asserendo che la Corte potrebbe anche sbagliarsi, ma sicura- mente anche una Corte a cui sia negata la possibilità di creare diritto potrebbe commettere molti più errori e risultare ingiusta.106
Dalla sopracitata conclusione si potrebbe relazionare lo scettiscismo ermeneutico dei paesi di common law con i sistemi giuridici di tipo continentale, nei quali alle Corti viene formalmente negata, dalla stessa legge, la possibilità di creare diritto. Nonostante è stato, da sempre, più facile sostenere le tesi antiformaliste nei paesi di common law, dove è pacificamente attribuita al giudice una funzione creativa di diritto, almeno per quanto riguarda i precedenti giudiziali, J. Esser, uno dei maggior rappresentanti dell’ermeneutica giuridica, dopo un soggiorno negli Stati Uniti, partecipando alla discussione tra formalisti (l’interpretazione si limita a scoprire il diritto) e scettici interpretativi (l’interpretazione crea diritto), riguardo all’attività giudiziaria nei sistemi continentali, prese posizione a favore della tesi scettica. Sostenne, appunto, che il giudice partecipa creativamente al processo di produzione del diritto: ben inteso non solo nei paesi di common law e quando ap- plica i precedenti, ma anche nei paesi di civil law quando applica la legge. Lo strumento di questa creazione di diritto è soprattutto l’elaborazione di principi107: un tipo di norme generalissime mai perso di vista dai giuristi continentali, e sul quale Esser attira l’attenzione almeno un decennio prima di Dworkin108
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106 Cfr. R. Dworkin, I diritti presi sul serio, N. Muffato (a cura di), il Mulino, Bologna, 2010, cit.,
p. 136.
107 Cfr. J. Esser, Grundsatz und Norm in der richterlichen Fortbildung, Tübingen, Mohr, 1956, pp.
51 e ss.
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