§ II STRUTTURA DEL TESTO
Tavole 20-21 Cavalle e cavall
D. Polarità tramite inversione delle funzioni sintattiche
2.1.2. La terminologia tecnica
Le malformazioni che si presentano sulle varie parti del corpo possono essere descritte in vari modi, nella maggior parte dei casi tramite verbi tra loro sinonimi. Alcuni sostantivi fanno riferimento all’osservazione sul corpo di un feto umano oppure animale di macchie,
escrescenze, perforazioni, peluria etc. Nel paragrafo 1.1. di questo capitolo si è riconosciuta la tendenza ad organizzare la descrizione delle malformazioni secondo cinque categorie principali: somiglianza con animali (A), assenza (B), aspetto mutilo/deforme (C), posizione ectopica (D) e soprannumero (E). Lo scopo di questo paragrafo è la presentazione di un dettagliato glossario dei termini tecnici riconoscibili all’interno delle varie categorie. Come vedremo, molti dei termini propri di &umma izbu sono comuni anche ad altre testi divinatori, in particolare quelli connessi alla pratica dell’extispicina4. Svariati studi dedicati proprio all’extispicina hanno dimostrato che meticolosi studi terminologici non sono solamente funzionali alla ricostruzione - ancora lontana dall’essere raggiunta - di un lessico generale della divinazione mesopotamica5. Un’analisi approfondita dei criteri con cui i fenomeni ominosi sono descritti all’interno dei testi svolge un ruolo fondamentale nella comprensione delle procedure ermeneutiche che il divinatore mette in atto per codificare/decodificare i messaggi in essi contenuti. Questo tema verrà affrontato nel dettaglio nel prossimo paragrafo.
A. Somiglianza con animali
Un consistente numero di omina della serie fa riferimento alla nascita di feti umani e izbu con parti del corpo di (altri) animali o simili a membra di (altri) animali. Nel secondo caso il paragone è sempre introdotto da kīma “come”.
B. Assenza di una o più parti del corpo
L’assenza di una parte del corpo è sempre indicata dall’espressione “X lā ibba^^i”. Due varianti isolate si trovano rispettivamente nella Tavola 10: 34 (~alāqu “mancare”) e nella Tavola 11: 18- 19 (tabālu “portare via”).
C. Posizione ectopica
I termini tecnici appartenenti a questa categoria sono stati suddivisi in due gruppi: un consistente gruppo di verbi che indicano l’unione di parti del corpo oppure di corpi interi (nel caso di parti gemellari) e verbi (e avverbi) che descrivono la posizione relativa di parti del corpo. A questo secondo gruppo appartengono anche verbi che non implicano necessariamente contatto o contiguità.
4 Sulla terminologia propria dell’extipicina vd. Starr 1983, Meyer 1987, Jeyes 1989, Leiderer 1990, Starr 1990 e Koch-Westenholz 2000.
C.1. Unione di parti del corpo
egēru
“essere incrociato” (T. 6: 15-18, 45; T. 19: 65)Gli stativi Gt itgur e &t ^utēgur sono utilizzati nella Tavola 6, rispettivamente omina 15-18 e 45, per descrivere il contatto tra i corpi di due izbu. L’omen 65 della Tavoa 19 prende in considerazione il caso di un vitello nato con due corpi tra loro incrociati (^utēgur).
elēpu
“essere cresciuto unito, essere incrociato”(T. 6: 13-14, 19-20; T. 19: 64)
Lo stativo Gt itlup descrive l’incrocio tra i corpi (Tavola 6: 13-14) e le teste di due izbu (Tavola 6: 19-20). Nella Tavola 19: 64 lo stativo &t ^utēlup è utilizzato in riferimento ad un vitello nato con due corpi (cfr. egēru).
emēdu
“trovarsi a contatto”(T. 1: 88; T. 6: 47, 50; T. 7: 59; T. 18: 9-10)
Lo stativo N nenmud è ben attestato nella letteratura divinatoria e soprattutto nell’extispicina per indicare unione, contatto (vd. CAD E, 145-146). Nella Tavola 1 di &umma izbu, l. 88, descrive la modalità di unione di due gemelli siamesi. Lo stativo &t è utilizzato con lo stesso significato nella Tavola 7: 59 in riferimento alle mascelle (la~û) di un izbu. Una forma finita del verbo, vale a dire il preterito Ntn ittenmid, compare nella Tavola 18: 9-10: ^umma immeru qarnā^u
ana pāni^u / ana arki^u ittenmidā … “se le corna di una pecora sono unite davanti/dietro …”.
kussû
(< kasû) “legare”(T. 5: 62-64)
Il verbo kasû significa anzitutto “mettere le catene, imprigionare”. In riferimento a parti del corpo gli stativi G kasi e D kussu indicano più specificatamente una condizione di paralisi (vd. CAD K, 253b). In &umma izbu descrive la metà (bāmtu) destra/sinistra del corpo di un izbu completamente avviluppata da uno strato di grasso (lipû).
ka#āru
“unire” (T. 9: 60; T. 11: 51-53)Lo stativo G ka#ir è ben attestato nella letteratura divinatoria per indicare unione, contatto (vd. CAD K, 260-262). In &umma izbu descrive la reciproca unione delle corna (Tavola 9: 60) e
delle orecchie (Tavola 11: 51-53) di un izbu. In quest’ultimo caso viene specificata anche l’esatta posizione del legame rispetto al corpo dell’izbu, rispettivamente in cima alla sua testa (ina mu~~i^u), davanti (ana pāni^u) e dietro (ana arki^u).
rakāsu
“attaccare”(T. 3: 90, 94-96; T. 12: 87-88)
Nella Tavola 3 lo stativo G raksat descrive l’unione tra i piedi di un feto umano e altre parti del suo corpo, rispettivamente le tempie (l. 90) e la zona dell’ombelico (ll. 95-96). Nella Tavola 12: 87-88 la lingua di un izbu “è attaccata” rispettivamente al palato (l. 87) e alla gola (l. 88).
#abātu
“essere unito”(T. 1: 87, 91-99; T. 2: 32; T. 6: 1, 11-12, 30, 48, 51; T. 9: 43; T. 21: 47’-49’)
In &umma izbu e nella letteratura divinatoria in generale lo stativo Gt ti#but è il modo più comune per indicare contatto, unione.
^utas~uru
(<sa~āru) “essere completamente attorcigliato”(T. 19: 66)
Lo stativo &t di sa~āru “girare” è attestato una sola volta in &umma izbu in riferimento ad un vitello nato con due corpi tra loro variamente congiunti (cfr. egēru ed elēpu).
C.2. Posizione relativa delle parti del corpo
La disposizione di una parte del corpo rispetto ad un’altra è descritta facendo ricorso a verbi oppure ad espressioni avverbiali. In generale, quest’ultime rappresentano la modalità maggiormente attestata per indicare posizione. Vd., ad esempio, l’omen 49 della Tavola 10: [^umma izbu] īnā^u ina libbi uznī^u ^aknā … “[se] gli occhi di un izbu si trovano dentro le sue orecchie …”. Le espressioni avverbiali di luogo più comuni in &umma izbu sono state qui di seguito raccolte in forma schematica:
a^ar “al posto di” T. 9: 36-37, 47; T. 11: 60-61
ina ma^kan “nella sede (normale) di” T. 10: 47-48; T. 11: 62; T. 16: 107; T. 17: 19
ina libbi “dentro” T. 1: 48; T. 6: 41-42; T. 9: 38-40; T. 10: 49; T. 11: 62, 119-120, 137-138, 140-141
ina arkat “dietro” T. 11: 121-122, 133-134, 139
ina mu~~i “in cima a” T. 8: 35-36; T. 9: 41, 43; T. 10: 42; T. 16: 108;
ina i^di “alla base di” T. 10: 51; T. 11: 59, 75
eli “sopra” T. 8: 52-54; T. 9: 54-55
^aplān “sotto” T. 9: 46; T. 10: 21-24; T. 11: 76, 81, 111
ina birīt “in mezzo a” T. 7: 73, 134
Nel primo caso, invece, si tratta di verbi che indicano contatto/contiguità; un’eccezione degna di nota è rappresentata dal verbo na\ālu “guardare”, utilizzato per esprimere una relazione tra le parti del corpo di tipo “X guarda Y”; analogamente, il verbo târu “ruotare” insieme ad ana “verso” suggerisce relazione ma non necessariamente contatto.
a#û
“protrudere (da)”(T. 3: 67; T. 7: 68’; T. 11: 86; T. 12: 99-100, 104-107; T. 16: 105-106)
Lo stativo G di a#û indica il protrudere anomalo di parti del corpo da altre sue parti: le viscere protrudono dall’ombelico (Tavola 3: 67) oppure dall’ano (Tavola 16: 105), i denti dalla cima della testa (Tavola 7: 68), le orecchie dagli zoccoli (Tavola 11: 86).
ka^ādu
“raggiungere” (T. 11: 65)Il verbo è attestato una sola volta in Šumma izbu per indicare la posizione delle orecchie di un
izbu rispetto alle sue narici.
katāmu
“coprire”(T. 5: 69-70; T. 11: 63’-64’, 66’, 68’)
In alcuni casi lo stativo G katim è utilizzato per indicare il contatto tra parti del corpo: “X copre Y” (Tavola 5: 69-70) e “X è coperto da Y” (Tavola 11: 63’-64’, 66’, 68’; cfr. YOS 10 56: 29).
(T. 2: 17; T. 6: 34; T. 7: 149; T. 8: 33’-34’; 40’-41’; 45’-47’, 58’-60’; T. 11: 72, 127-128, 133-134, 139, 141)
La maggior parte delle attestazioni di na\ālu all’interno della serie presenta quale oggetto dell’azione la schiena o più in generale la parte retrostante del corpo: questo vale, ad esempio, per tutte le attestazioni dalla Tavola 11 (orecchie) e per la Tavola 8: 34, 46-47, 60 (izbu a due teste: posizione ectopica della seconda). In alcuni casi il verbo è utilizzato insieme ad espressioni avverbiali che specificano la direzione dello sguardo: esso può essere rivolto verso il basso (^apli^: Tavola 6: 34) oppure verso l’alto (eli^: Tavola 8: 58), incrociato (a~u a~a: Tavola 8: 41) oppure separato, distante (Tavola 8: 40).
rakābu
“montare, stare in cima a”(T. 3: 40-41; T. 6: 31-32; T. 7: 141; T. 8: 50-54; T. 11: 137-141)
Il verbo rakābu è utilizzato come termine tecnico in extispicina per descrivere il comportamento di una parte del fegato rispetto all’altra6. Analogamente, nella letteratura astrologica indica la posizione relativa di due corpi celesti7. In &umma izbu è utilizzato in riferimento alla posizione reciproca delle labbra (superiore/inferiore: Tavola 3: 40-41), dei corpi e delle teste di due izbu (Tavola 6: 31-32 e Tavola 8: 50-54), di orecchie e code soprannumerarie (Tavola 11: 137-141 e Tavola 7: 141). Nel Commentario Principale, ll. 247- 248 è spiegato come segue: ^umma izbu 2-ma a~u eli a~i rakbū / rakābu : elû “se gli izbu sono due e uno monta sopra l’altro / montare (significa) salire sopra”.
^apālu
“essere, diventare basso” (T. 3: 16-17; T. 10: 19-20, 23-24, 51)târu
“girare, ruotare (verso)”(T. 7: 71, 134; T. 11: 67, 71, 78; T. 12: 78; T. 14: 98-103, 105-106; T. 22: 161)
Lo stativo D turru indica la rotazione della lingua verso la bocca (Tavola 11: 78 e Tavola 12: 78) oppure delle orecchie rispettivamente verso la bocca e il retro della testa (Tavola 11: 67, 71). Nell’omen 71 della Tavola 7 il collo di un izbu è ruotato verso il centro del suo corpo (ana
papān libbi^u “la zona del suo ombelico”). Gli omina Tavola 7: 134 e Tavola 22: 161 descrivono
la rotazione rispettivamente della coda di un izbu verso le sue spalle e della coda di un maiale
6 Vd. Meyer 1987, 282 (glossario). Vd. inoltre CAD R, 87-88 per una lista di attestazioni. 7 Vd. CAD R, 88-89.
verso l’incrocio del corpo. Nella Tavola 14: 98-103 il verbo è invece utilizzato alla forma attiva: šumma izbu šēp^u ša imitti ana kutum libbi itâr … “se il piede destro di un izbu gira verso la sua pancia …” (l. 98).
\e~û
“essere vicino a, avvicinarsi”(T. 3: 11-12; T. 9: 24-27; T. 11: 20-23, 69)
Nella letteratura divinatoria descrive la posizione relativa degli astri, delle parti del fegato oppure del corpo (vd. CAD |, 77-78 sub d-f). In Šumma izbu lo stativo \e~i è utilizzato per indicare la posizione ectopica delle orecchie (feti umani e izbu) e delle corna (izbu): la maggior parte delle attestazioni riguarda la collocazione delle orecchie (destro/sinistro/entrambe) vicino alle guance (Tavola 3: 11-12; Tavola 11: 20-21, 69); in un caso esse si trovano vicino alle mascelle (Tavola 11: 22-23); le corna di un izbu possono trovarsi vicino alle guance (Tavola 9: 24-25) oppure alla cima (della testa) (Tavola 9: 26-27).
D. Aspetto/mutilo deforme di parti del corpo
Alcuni dei verbi appartenenti a questa categoria, pur non appartenendo ad un linguaggio necessariamente erudito, sono utilizzati nel contesto di &umma izbu come termini tecnici. Altri sono invece più peculiari e sono talvolta comuni anche ad altri testi divinatori. Al primo gruppo appartengono tre coppie di antonimi: rabû “essere grande” / #e~ēru “essere piccolo” (Tavola 10: 26-27, 44-45), arāku “essere lungo” / kurû “essere corto” (Tavola 9: 56-57), ra\bu “umido” / ablu “secco” (Tavola 10: 99-100). I termini del secondo gruppo possono essere ulteriormente suddivisi sulla base della caratteristica che esprimono: secchezza, colorazione, presenza di perforazioni, rottura/lacerazione/divisione, durezza/gonfiore, riduzione/contrazione, torsione, sollevamento, chiusura/apertura.
Secchezza
^ābulu
(<abālu
) “essere, diventare secco” (T. 3: 85-86; T. 10: 101-102; T. 14: 12-13, 39-40)Lo stativo & di abālu è attestato come termine tecnico nella lettera divinatoria per descrivere l’aspetto delle viscere oppure di parti del corpo umano (vd. CAD &/1, 19-20). In &umma izbu
compare in riferimento ai piedi (Tavola 3: 85-86), ai capelli (Tavola 10: 92-93), alle spalle (Tavola 14: 12-13) e alle cosce (ibid.: 39-40)8.
ru^^uku
(<ra^āku
) “seccare” (T. 12: 89)Lo stativo D è utilizzato una sola volta in &umma izbu per descrivere l’aspetto avvizzito della lingua di un izbu. Il Commentario W, l. 377c-d spiega: ru-u^-^u-kát! : ab-la-at / ru-u^-^u-ku : a-ba-lu “(la lingua) è secca (significa) è asciutta / seccare (significa) asciugare”. In extispicina ru^^uku è particolarmente associato alla pustola-di~~u9.
uqqû
(<eqû
)“ungere, impomatare” (T. 3: 14-15)Il verbo è attestato soprattutto in riferimento all’applicazione di creme e unguenti. Una forma nominale derivata, tēqītu, indica un tipo di crema utilizzata, ad esempio, nella cura di malattie degli occhi10. In Šumma izbu lo stativo D descrive una malformazione delle orecchie (Tavola 3: 14-15). Il commentario al passo (vd. il Commentario Principale), l. 114 spiega uqqât con ^ābulat “è secco”.
Colorazione
Anomale colorazioni della pelle sotto forma di macchie sono citate nella Tavola 4: 5 (urqa mali “(il feto) è pieno di macchie gialle/verdi”), 6 (#ulma mali “(il feto) è pieno di macchie nere”), 11 (kīma gi^nugalli namir “(il feto) è chiaro come alabastro”)11, 13-15 (#ulma/pū#a/sūma nakir “(il feto) è sfigurato da macchie nere/bianche/rosse”). Inoltre, alcuni omina di questa Tavola fanno riferimento a lesioni o escrescenze colorate della pelle presenti alla nascita12:
- bubu’tu (T. 4: 7): vescica di colore rosso, bianco o nero;
- pindû (T. 4: 8): lesione della pelle con chiazze o tumefazioni di colore rosso;
8 Cfr. SpTU 2 38: 25-26: i-mit-ta-^ú ^á-bu-ul-la-at / ~a-aUD : a-ba-lu “le sue spalle sono secche; UD (letto) ~a (significa) seccare”.
9 Una dettagliata discussione sull’uso e il significato del termine in testi di extispicina si trova in Koch- Westenholz 2000, 47-48
10 Vd. Fincke 2000, 275-281. 11 Vd. il commentario a Tavola 4: 11.
- ~alû (T. 4: 9): lesione della pelle con chiazze o tumefazioni di colore nero; - #ennītu (T. 4: 10): lesione isolata della pelle di colore nero;
- ^ik#u (T. 4: 11): escrescenza o ulcerazione di colore bianco.
Il colore della pelle di un izbu è oggetto di attenzione nella Tavola 17: 68-71 (bianco e nero). Una caratteristica delle ultime Tavole della serie (animali) è il ricorrere di omina che fanno riferimento alla colorazione del pelo (^ārtu) degli animali, generalmente secondo una sequenza predefinita: bianco (pū#u), nero (#ulmu), rosso (sūmu), multicolore (burrumu) e giallo/verde (urqu)13. Infine, un certo numero di termini tecnici che indicano colorazione sono citati nella Tavola 10 (occhi):
#arāpu
“colorare” (di rosso (fuoco))” (T. 10: 22-23)Il verbo #arāpu in relazione alla lavorazione dei metalli significa “purificare (tramite fuoco)” (AHw 1083b). Può indicare anche la cottura dei mattoni (agurra #arāpu). In senso figurato descrive una condizione patologica (forte bruciore) dell’epigastrio14. Con kīma oppure un complemento oggetto all’accusativo significa “colorare” (di rosso (fuoco))15. Lo stativo #arip viene abitualmente utilizzato in ambito divinatorio con il significato di “essere colorato” (vd. AHw, 1084 sub 3)16. Nel linguaggio metaforico è associato al sangue: kīma dāmi #arip “colorato di rosso come (fosse) sangue” (vd. ibid.).
zarriqu
(< *zarāqu) “screziato” (T. 10: 24-25, 46)Il termine designa a sua volta una particolare colorazione degli occhi. Due commentari a
&umma izbu, Tavola 10 – il Commentario Principale, ll. 355-356 e SpTU 2 37: 69-70 – spiegano zarriqu rispettivamente con burrumu “multicolore; variegato, screziato” e burruqu “rosso”. I due
termini sono in alcuni casi utilizzati come sinonimi (cfr. il sum. GÙN)17. Sulla base di queste
13 Vd. il paragrafo 1.1.3. in questo capitolo. 14 Vd. Scurlock-Andersen 2005, 288.
15 Sulla sfera semantica di #arāpu vd. Landsberger 1967, 145-148. 16 Vd. Fincke 2000, 259-260 (urqa #arāpu “gelb-rot gefärbt”). 17 Ibid., 251 e SpTU 2, 163 (commento alla l. 70).
equivalenze sembra che zarriqu possa essere interpretato come una colorazione dell’occhio vicina alla sfera cromatica del rosso tale da farlo apparire anormalmente maculato18.
dāma malû
“essere pieno di sangue” (T. 10: 20-21)L’espressione īnā dāma malâ “occhi pieni di sangue” è frequentemente citata nella documentazione di tipo medico/diagnostico19. Un individuo affetto da questa malattia è citato in MSL 12 (OB Lu), 183 v: 1: lú igi-ú^-a-ba = ^a i-na-^u da-ma ma-li-a “è uno i cui occhi sono pieni di sangue”. L’espressione è citata in &umma izbu per indicare una colorazione anomala degli occhi (= rossi come il sangue), come dimostra l’associazione con #arāpu e zarriqu nella Tavola 10: 11-16.
tarāku
“essere (diventare) nero, scuro” (T. 8: 57’; T. 12: 75’; T. 17: 67’)Lo stativo G tarik è utilizzato in &umma izbu in relazione a varie parti del corpo (testa, lingua e pelle) con il significato di “essere (diventare) nero, scuro”. Si veda l’equivalenza con #alāmu nel Commentario Principale, ll. 126-127 (Tavola 4: 6): gi-eGE
6 : ta-ra-ku / minGE6 : #a-la-mu “GE6 (significa) essere scuro; GE6 (significa) essere nero”20.
Presenza di perforazioni
Un omen della Tavola 4 (l. 21) fa riferimento alla presenza di fori (^īlu) sulla pelle di un bambino. Negli altri casi la nozione è espressa attraverso il ricorso a verbi:
palā^u
“perforare”(T. 4: 36-38; T. 11:13-15; T. 12: 54, 101-107)
Lo stativo G di palā^u è utilizzato in Šumma izbu per descrivere l’aspetto delle orecchie di feti umani (Tavola 4: 36-38) e izbu (Tavola 11: 13-15). Nel primo caso le orecchie (destro/sinistro/entrambe) sono deformi in quanto “non perforate” (lā pal^at/lā pal^ā), dunque anormalmente chiuse; viceversa, la perforazione delle orecchie (destro/sinistro/entrambe) descritta nella Tavola 11: 13-15 indica mutilazione, sviluppo incompleto. Nella Tavola 12: 101- 107 palā^u compare in un contesto frammentario in relazione alla lingua di un izbu.
18 Vd. ibid., 250-252. 19 Vd. ibid., 126-128.
dakā^u
“forare” (T. 7: 77)Lo stativo daki^ è attestato una sola volta nella serie riguardo all’aspetto deforme del collo di un izbu all’interno di una sequenza di sinonimi: ~arāru “incidere” (ll. 74-76) e nakāsu “tagliare” (l. 78). In testi di extispicina indica “essere separato, staccato”. Con questo significato è utilizzato da un lato in opposizione ad emēdu “essere a contatto, essere attaccato” e dall’altro come sinonimo di u^^uru “essere sciolto, staccato, slegato”21. Quest’ultimo compare alla l. 72 della Tavola 7, confermando il frequente ricorso a sequenze verticali di sinonimi nell’organizzazione delle protasi della serie (vd. Capitolo II: 1.1.1. sub C.2.).
~arāru
“scavare, incidere” (T. 7: 74-75; T. 12: 56)In testi di extispicina gli stativi G ~arir e D ~urrur indicano la presenza di solchi e incisioni sul fegato e le sue parti22. In Šumma izbu lo stativo G è utilizzato nella Tavola 7 e nella Tavola 12 per descrivere l’aspetto deforme del collo di un izbu.
Rottura, lacerazione, divisione
~a#ā#u
“spezzare” (T. 18: 13-14)Lo stativo G del verbo compare nella Tavola 18 in riferimento all’aspetto mutilo delle corna di un montone. Due testimoni presentano come variante lo stativo G di ~asāru “tagliare, spezzare”23.
~azāmu
“mozzare”24 (T. 3: 8-10; T. 11: 7-8, 50’) 21 Vd. YOS 10 42 iii: 36-37 e TCL 6 2: 14. 22 Vd. Koch-Westenholz 2000, 504+1175.23 Quest’ultimo è citato nel Commentario W: 365l: [~a]-as-ra : á^-^ú ~e-se-ru “[~a]srā (è detto) riguardo ad ~esēru”. Cfr. l’espressione ~esēr ^inni, let. “spezzare dei denti” in Lambert 1998, 149: 30-32.
Lo stativo ~azmat descrive una condizione deforme delle orecchie di feti umani (Tavola 3: 8- 10) e izbu (Tavola 11: 7-8, 50’). Quando il soggetto è plurale si ricorre allo stativo D ~uzzumū (uznā^u ~uzzumā “le sue orecchie sono mozze”: Tavola 3: 10 e Tavola 11: 50).
ka#ā#u
“tagliare” (T. 7: 47; T. 14: 70-74)L’infinito di questo verbo è kazāzu, ka#ā#u o ga#ā#u e il suo significato è “tagliare; tosare; arrotare, affilare” (AHw, 457b; vd. le equazioni lessicali con KUD in CAD G, 53a sub ga#ā#u B); in riferimento ai denti ha il significato di “digrignare” (vd. CAD G, 52a sub ga#ā#u A e il commentario alla Tavola 22: 108). Nella letteratura divinatoria è utilizzato sia nella descrizione di parti del corpo umano e animale (vd. &umma izbu, Tavola 7: 47 (isu) e Tavola 16: 9-10 (kursinnu)) che in quella delle parti del fegato: ^umma na#raptu ka##at māt rubê i^^â# “se il Crogiolo è tagliato - il paese del principe andrà in declino” (Koch-Westenholz 2000, 299 no. 57: 19+742). L’aggettivo D ku##u#u è citato in MSL 12 (OB Lu), 201: 7 per indicare una deformazione degli arti superiori: lúŠU.KUD.KUD.RÁ = ku-u#-#ú-#ú-um (cfr. MSL 16, 164 (Nabnitu, Tavola 17 = J): 329) lett. “colui la cui mano è tagliata”.
nakāsu
“tagliare”(T. 2: 10; T. 7: 78; T. 22: 48, 53)
Lo stativo G di nakāsu è utilizzato nella Tavola 7: 78 (nakis) in riferimento al collo di un izbu; nella Tavola 22: 48, 53 lo stativo D nukkus “tagliato in pezzi” descrive l’aspetto delle zampe e della testa dei feti di maiale. Nella Tavola 2: 10 un braccio è detto ana ^ina nakis “tagliato in due pezzi”.
parāsu
“dividere” (T. 11: 3-4; T. 12: 81, 92)Lo stativo paris descrive l’aspetto deforme delle orecchie (Tavola 11: 3-4) e della lingua (Tavola 12: 81) di un izbu. Nell’omen 92 della Tavola 12 è utilizzato come attivo per indicare il contatto tra la lingua e le narici di un izbu: ^umma izbu li^ān^u arkatma na~īrī^u parsat “se la lingua di un
izbu è lunga e divide le sue narici …”. Nel Commentario principale, l. 252, è associato a zâzu
“dividere in due”: BARba-ár : za-a-zu : BAR : pa-ra-su “BAR (significa) dividere in due; BAR (significa) dividere” (cfr. ibid., ll. 458-459: [ba-a]rBAR : za-a-zu / [ba-a]rBAR . pa-ra-su).
(T. 11: 48)
Lo stativo D ^ulluq è attestato una sola volta in &umma izbu per indicare una condizione deforme delle orecchie di un izbu (Tavola 11: 48). Il relativo commentario (W, 365j) spiega: ^u-
ul-lu-qa : ^á ma-"-di^ sal-ta “(le sue orecchie) sono ^ulluqā (significa) che sono molto tagliate”.
^atāqu
“spaccare, dividere”(T. 5: 71; T. 7: 52; T. 11: 9-12, 47, 49; T. 16: 31; T. 19: 87-88)
Il verbo è attestato come termine tecnico nella letteratura divinatoria e in particolare nell’extispicina (vd. CAD &/2, 193-194). In &umma izbu gli stativi G e D di ^atāqudescrivono una condizione deforme del petto (Tavola 5: 71), della mascella (Tavola 7: 52), delle orecchie (Tavola 11: 9-12, 47’ (^uttuqu), 49’) e degli zoccoli (T. 16: 31, ^uttuqu). Nei relativi commentari è associato al verbo salātu “spezzare, tagliare a pezzi”25. Una forma finita del verbo è attestata nella Tavola 19: 87-88: ^umma alpu qaran imitti^u /^umēli^u i^tuq “se un bue spacca il suo corno destro /sinistro”.
u^^uru
(<wa^āru
) “sciolto, staccato”(T. 7: 72)
Lo stativo D del verbo wa^āru compare una sola volta in &umma izbu per indicare l’aspetto deforme degli occhi di un izbu. L’infinito u^^uru significa “rilasciare, liberare” (AHw, 1484b). In testi di extispicina u^^uru significa generalmente “essere sciolto, staccato, slegato”26. La medesima traduzione può essere adottata in &umma izbu, Tavola 7: 7 (īnā^u u^^urā “i suoi occhi sono staccati”)27.
zâzu
“dividere (in parti)” (T. 6: 44)Lo stativo G zīz è attestato una sola volta in &umma izbu in relazione al collo di un izbu. Nel Commentario Principale, l. 252, è associato a parāsu: BARba-ár : za-a-zu : BAR : pa-ra-su “BAR (significa) dividere in due; BAR (significa) dividere” (cfr. ibid., ll. 458-459: [ba-a]rBAR : za-a-zu / [ba-a]rBAR . pa-ra-su; nel commentario W, l. 376f: BAR : za-’-a-zu “il segno BAR (significa) dividere in due”). Ulteriori equivalenze sono citate nel commentario Y, 252-252a, l. 252b:
25 Vd. il Commentario Principale, ll. 198-199: da-arDAR : ^á-ta-qu / minDAR : sa-la-tú; cfr. il commentario W, 365f- g: ^at-qá-at : sal-ta-at / DAR : ^á-ta-qu : DAR : sa-la-tu4. SpTU 1 72: 11: DAR : ^á-ta-qa.
26 Vd. Koch-Westenholz 2005, 622 (glossario).
BAR : za-a-zu / BAR : ~e-pu-ú / BAR : me^-li “BAR (significa) dividere in due; / BAR (significa) spaccare; / BAR (significa) metà” (vd. CAD M, 126-127)28.
Durezza, gonfiore
~abā^u
“essere duro, gonfio” (T. 1: 66; T. 4: 25; T. 7: 157)Il verbo è ben attestato nella letteratura divinatoria, particolarmente in testi di fisiognomica ed extispicina, per descrivere l’aspetto anomalo di parti del corpo e del fegato. Nella serie di fisiognomica &umma sinni^tu qaqqada rabât l. 188 è associato all’ombelico di una donna (abbunnassa) la cui durezza (~ab^at) predice difficoltà nel parto (vd. Böck 2000, 162-163). In
&umma izbu indica una condizione deforme degli arti (Tavola 1: 66 e Tavola 4: 25) di un feto
umano e del cranio (Tavola 7: 157) di un izbu.
ubbu\u
(< ebē\u) “duro, gonfio” (T. 4: 26)Il verbo ebē\u è utilizzato soprattutto in testi medici per descrivere sintomi di sofferenza nella zona dell’addome, ma può essere detto anche di altre parti del corpo (lingua, volto, arti). Il suo esatto significato è oggetto di dibattito. Heeßel 2000, 168, seguendo la proposta di AHw, 182- 183 (“anschwellen”), rifiuta la traduzione “avere i crampi” proposta da CAD E, 13b e pone l’accento sulla sinonimia con napā~u ed emēru, entrambi attestati con il significato di “gonfiare”, evidenziata in alcuni commentari a testi diagnostici29. In &umma izbu il verbo è attestato al tema D ubbu\u per descrivere una feto umano nato con una deformità (paralisi) degli arti (Tavola 4: 26)30.
napā~u
“gonfiare” (T. 11: 7-8, 50)Lo stativo G nap~at è attestato in congiunzione a ^āru “aria, vento” per indicare una deformità delle orecchie (destro/sinistro/entrambe) di un izbu (“gonfie d’aria”).
28 Il segno BAR ha molte letture: vd. MSL 14, 229-235. Nei testi di extispicina (BAR = a~û, mi^lu, u^^uru, zâzu; BAR-tu = a~ītu, pallurtu) vd. Nougayrol 1968, 47-48. Vd. inoltre SAA 4, xviii e Koch-Westenholz 2000, 516.