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Test di Fischer soggetti con un solo o più antibiotici in terapia fra i due grupp

.2 Applicazione CVC: Tecnica di Seldinger

Grafico 6 Test di Fischer soggetti con un solo o più antibiotici in terapia fra i due grupp

vivi morti 0 2 4 6 8 10 infezione no infezione n u m e ro d i s o g g e tti

NS

infezione no infezione 0 5 10 15 1 antibiotico più antibiotici n u m e ro d i s o g g e tt i

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Discussioni

Con il presente studio ci siamo posti l’obiettivo di valutare la prevalenza di infezioni dell’accesso vascolare centrale (CVC) nella popolazione di pazienti pervenuti presso l’Ospedale Didattico “Mario Modenato” nel periodo di tempo compreso tra Luglio 2015 e Novembre 2016. La necessità di indagare la prevalenza di infezione nella nostra coorte di pazienti è derivata sia dalla mancanza di dati in medicina veterinaria, sia dalla volontà di monitorare l’efficacia dei protocolli attualmente in uso nella gestione del CVC presso il nostro ospedale.

Il CVC, in particolare quando utilizzato quale accesso vascolare per emodialisi, rappresenta una risorsa fondamentale per il clinico e deve essere preservato al meglio da possibili contaminazioni. Nel paziente dializzato umano le infezioni rappresentano una delle principali cause di morbidità e mortalità. L’infezione è stata riportata quale causa primaria di morte nel 10% dei pazienti sottoposti a dialisi (Saran et al, 2015). Nel paziente umano, in cui l’accesso vascolare per emodialisi è prevalentemente costituito dalla fistola o dall’innesto, il rischio di contrarre infezione in dialisi è risultato influenzato sia dalla frequenza del trattamento dialitico, sia dalla tipologia di trattamento. In particolare, pazienti sottoposti ad interventi di dialisi più frequenti e di minore durata, hanno evidenziato un rischio di mortalità associata ad infezione 1,13 volte superiore rispetto ai soggetti sottoposti a tre dialisi settimanali (Kraus et al, 2016). Il rischio di sviluppare infezione sembrerebbe influenzato dal numero di dialisi settimanali e, quindi, sembrerebbe incrementare all’aumentare del numero di volte in cui si interviene sull’accesso vascolare. Inoltre il rischio di infezione era maggiore nel caso in cui la dialisi venisse effettuata a casa, piuttosto che in ambiente ospedaliero. Tale dato potrebbe trovare giustificazione nel maggior rischio di contaminare l’accesso vascolare in ambito domestico, dove sono potenzialmente ridotte le attenzioni verso la cura dell’accesso vascolare. Pazienti dializzati umani sottoposti a cicli brevi (2 ore) e frequenti (> 3 volte a settimana) di emodialisi hanno mostrato un rischio di circa 1,5 volte superiore di sviluppare batteriemia e sepsi, osteomielite e infezione dell’accesso, rispetto quelli sottoposti a schema tradizionale. Il rischio di sviluppare infezioni cardiache è risultato quasi quattro volte superiore (Kraus et al, 2016).

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Nella nostra coorte di pazienti, 17 dei 18 pazienti considerati erano costituiti da soggetti in emodialisi. In tali pazienti (n=17) il CVC è stato utilizzato esclusivamente quale accesso per emodialisi. Tale accesso non veniva, quindi, gestito se non dal personale di emodialisi e non poteva essere usato né per fluidoterapia, né per alimentazione parenterale. Pur trattandosi di una casistica relativamente limitata, è interessante notare che la prevalenza di infezione nella nostra coorte di pazienti è risultata alquanto contenuta (15,79%). Tale dato sembra confortante, in particolare se letto alla luce dell’incidenza di infezione dell’accesso vascolare in medicina umana. Nel paziente umano dializzato, l’infezione dell’accesso vascolare è responsabile del 73% delle batteriemie (Ponce et al, 2007) ed ha una incidenza mensile compresa tra l’1,3% e il 7,2% dei pazienti. La relativamente bassa prevalenza di infezione riportata nella nostra casistica è ancora più confortante se consideriamo che in medicina veterinaria, a differenza di quanto effettuato in medicina umana, vengono prevalentemente utilizzati CVC. In medicina umana, infatti, l’accesso vascolare per emodialisi è normalmente costituito dalla fistola o dall’innesto. Il CVC, a differenza della fistola o dell’innesto, ha, infatti, un maggior rischio di contaminazione (Kraus et al, 2016). Nella nostra popolazione tutti i soggetti presi in esame presentavano un CVC temporaneo, impiantato a livello giugulare. Il CVC temporaneo veniva fissato alla cute mediante una sutura volta ad ancorare non solo la base e le ali del catetere, ma anche la porzione prossimale dei due ports. L’utilizzo di più punti di ancoraggio è funzionale non soltanto ad incrementare la sicurezza per il paziente in caso di perdita di uno o più punti di sutura, ma anche a limitare il più possibile la migrazione di batteri dalla cute al CVC. Nel CVC temporaneo è, infatti, assente la cuffia di Dachron che, nei CVC permanenti, è localizzata a livello sottocutaneo e costituisce un’ulteriore barriera alla potenziale contaminazione del CVC.

La contenuta prevalenza di infezione del CVC nei nostri pazienti sembrerebbe indicare una soddisfacente efficacia delle metodiche di antisepsi, che applichiamo nella routinaria gestione del CVC da dialisi. In medicina veterinaria il CVC da dialisi è generalmente chiuso con una soluzione di chiusura composta da eparina a concentrazione variabile (500-1000 UI/ml nel gatto; 1000-5000 UI/ml nel cane). Anche nel nostro centro viene attualmente preferito l’impiego di soluzioni di chiusura contenenti eparina, rispetto al citrato. Studi precedenti non hanno, infatti, evidenziato

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alcuna differenza significativa nell’uso di citrato al 4% o eparina, relativamente al rischio di sviluppare contaminazioni, trombosi o malfunzionamento del CVC (Langston, 2011). Sebbene dati non pubblicati di Cowgill e colleghi non abbiano evidenziato alcuna differenza significativa nella prevalenza di infezione del CVC da dialisi tra pazienti in cui era stata utilizzata la sola eparina quale soluzione di chiusura, rispetto ad una soluzione di eparina e cefazolina, non risulta attualmente presente alcun dato pubblicato in medicina veterinaria. Sarebbe interessante in futuro valutare una eventuale differenza nella prevalenza ed incidenza di infezione del CVC in CVC chiusi con sola eparina rispetto alla combinazione eparina-cefazolina.

Dei tre CVC risultati infetti, il primo riportava la crescita di Klebsiella pneumoniae; il secondo CVC era invece infetto da due patogeni diversi: Serratia odorifera e Klebsiella

pneumoniae. Di questi due pazienti non era purtroppo disponibile l’emocoltura, in

quanto la coltura del CVC è stata effettuata al momento della rimozione del CVC, in pazienti che non presentavano alcuna sintomatologia clinica o dato anamnestico che facesse ipotizzare una sepsi. Sebbene non ci sia possibile avere la conferma dell’emocoltura, è verosimile ipotizzare che, data l’assenza di sintomi ed alterazioni emato-biochimiche riconducibili a sepsi, in tali pazienti l’infezione del CVC non fosse sintomatica. Purtroppo l’emocoltura richiede un volume minimo di sangue di 8 ml, che in pazienti non sintomatici, di piccola-media taglia e spesso anemici, può risultare difficilmente giustificabile.

Il terzo CVC infetto invece ha riportato la crescita di un’Enterobacteriaceae. In tale paziente la sostituzione del CVC si è resa necessaria durante il trattamento dialitico, a causa della rottura e conseguente perdita di uno dei due port. Dato che tale paziente aveva manifestato sintomi di ipertermia e tremori e una moderata leucocitosi neutrofilica, la coltura del CVC è stata affiancata all’emocoltura. Trattandosi di un paziente in dialisi cronica, abbiamo optato per la sostituzione del CVC sopra la guida. L’emocultura dello stesso paziente ha svelato una positività ad uno Stafilococco coagulasi negativo α/β emolitico, il cui antibiogramma ha mostrato una sensibilità a chinoloni, penicilline e metronidazolo. Una volta iniziato il trattamento con enrofloxacina (5 mg/kg SID SC), si è assistito alla risoluzione dei sintomi clinici ed ematobiochimici.

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Per quel che riguarda la loro distribuzione nell’ambiente, è importante sottolineare che gli Stafilococchi sono comuni commensali della pelle e delle mucose, mentre le Enterobacteriaceae sono normali commensali dell’intestino dei piccoli animali. Sebbene la gestione del CVC da dialisi implichi l’utilizzo di guanti, mascherina e cuffietta, il protocollo in uso non prevede l’utilizzo di guanti sterili. Non è, quindi, possibile escludere che l’operatore possa aver inavvertitamente contaminato il CVC. La procedura di pulizie e disinfezione del CVC da dialisi è gestita sia dal medico, che dagli studenti che partecipano all’attività clinica. Nessun altro, sia personale medico, che studenti dell’ODV Mario Modenato ha accesso al CVC. La gestione del CVC viene riservata ad un numero ristretto di persone, debitamente informate delle procedure di antisepsi da seguire e dei potenziali rischi di contaminazione, ed volta a minimizzare i rischi di infezione. Abbiamo anche ipotizzato che il CVC possa essersi contaminato in fase successiva alla dialisi, cioè nell’intervallo tra una dialisi e la successiva. Al termine del trattamento il CVC viene isolato con il vetrap e inglobato all’interno della fasciatura. Sebbene il cane non possa avere accesso diretto al catetere, non possiamo escludere che i soggetti possano essere riusciti a dislocare parzialmente la fasciatura con le zampe posteriori e a contaminare l’inserzione del CVC sulla cute.

Per quanto riguarda Klebsiella e Serratia, sono comunemente implicate nelle infezioni ospedaliere (Serratia nelle procedure mediche in particolare); la differenza fra i due batteri è che Klebsiella è stata comunemente ritrovata anche nella mucosa nasofaringea, mentre Serratia è un organismo che prospera facilmente nell’ambiente, anche in presenza di agenti antisettici. Tale riscontro rappresenta il dato più preoccupante, in quanto le infezioni da Enterobacteriaceae, tendono a derivare da contaminazioni dell’ambiente ospedaliero stesso. In pazienti dializzati umani in cui è stato utilizzato CVC temporaneo quale accesso vascolare, la colonizzazione del CVC è stata riscontrata nel 23,6% dei soggetti, mentre la batteriemia era presente nel 20,7% dei soggetti. Tra i diversi batteri in causa, la prevalenza maggiore è stata di

Stafilococcus aureus (45,2%). Dato particolarmente significativo è che la prevalenza di

infezione aumentava significativamente in quei soggetti in cui il CVC era rimasto in situ per un tempo > 15 giorni (Gupta et al, 2016). Nella nostra coorte di pazienti, al contrario, nessuna differenza statisticamente significativa relativa al rischio di contrarre infezione, è stata rilevata in relazione al tempo di permanenza del catetere.

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Tale dato sembra particolarmente confortante, soprattutto se si considera che i CVC normalmente utilizzati in medicina veterinaria, sono considerati cateteri non permanenti e, quindi, con una vita media inferiore rispetto ad un catetere permanente o ad un innesto. Il fatto di non aver riscontrato un aumento del rischio di sviluppare infezioni del CVC in funzione del tempo di permanenza, sembra rappresentare un dato significativo a supporto dell’uso preferenziale, nel paziente dializzato veterinario, di CVC temporanei. L’applicazione del CVC temporaneo è, in genere, più rapida rispetto al permanente, in quanto non prevede tunnelizzazione e il CVC ha un costo inferiore. Il presente studio non ha rivelato alcuna correlazione tra prevalenza di infezione e mortalità: uno solo dei cani che presentavano infezione del CVC (1/3; 33,33%) è deceduto nel periodo interdialitico, mentre 7/17 (41,18%) cani sono deceduti nel periodo interdialitico senza riportare infezione del CVC. Bisogna sottolineare inoltre che il cane deceduto riportante infezione del catetere, è giunto presso la struttura ODV con un CVC inserito precedentemente presso un’altra struttura veterinaria e che il cane, già alla visita di ingresso, presentava segni di sepsi. Inoltre, quando il CVC inserito presso altra struttura è stato rimosso, e sostituito sopra la guida, questo si presentava macroscopicamente sporco. Inoltre, la mancata correlazione tra prevalenza di infezione e rischio di mortalità, deve far riflettere sul fatto che una precoce diagnosi e pronto trattamento di una infezione del CVC, possono evitare le conseguenze di una setticemia.

Per quanto riguarda la profilassi antibiotica da attuare per evitare o ridurre il rischio di infezione del CVC, nella nostra popolazione, tutti i soggetti erano in trattamento con almeno un antibiotico al momento in cui è stata effettuata la coltura del CVC. Nel nostro ospedale è, infatti, in vigore la consuetudine di sottoporre i pazienti che hanno subito intervento chirurgico per l’applicazione di CVC e feeding tube a copertura antibiotica. La scelta dell’antibiotico e la sua posologia sono generalmente guidate dall’eziologia dell’insufficienza renale, dalla gravità della patologia renale e dalla presenza o meno di co-morbidità. Nei nostri pazienti nessuna differenza statisticamente significativa nello sviluppo di infezione del CVC, è stata riscontrata tra soggetti sottoposti a monoterapia antibiotica, piuttosto che a più antibiotici. Tale dato non sembrerebbe indicare alcun vantaggio, in termini di riduzione del rischio di contaminazione del CVC, nell’utilizzo di associazioni di antibiotici rispetto alla

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monoterapia. Questo riscontro sembrerebbe particolarmente importante, soprattutto se si considera che la maggior parte dei pazienti dializzati ha una ridotta clearance renale.

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Conclusioni

In conclusione, il presente studio sembra riportare una prevalenza di infezione del CVC da dialisi nel paziente veterinario inferiore a quanto inizialmente ipotizzato. Sebbene si tratti di una ristretta popolazione di soggetti, tale dato assume una valenza tanto più importante alla luce del fatto che si tratta di pazienti animali, e quindi, potenzialmente, a maggior rischio di contaminazione rispetto al paziente umano. La bassa percentuale di infezione emersa da questo studio ci conforta sulla validità dei protocolli di antisepsi e di gestione del CVC in uso presso il nostro ospedale e ci sprona ad eseguire un monitoraggio sempre più attento e meticoloso dei nostri pazienti, al fine di ridurre sempre di più l’incidenza di infezione.

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