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6.2: La tortura come forma di lesione della dignità umana

Purtroppo ogni giorno ci dimentichiamo dell’insegnamento kantiano e magari (anche inconsapevolmente) calpestiamo la propria o l’altrui dignità umana. Uno degli oltraggi maggiormente perpetrati contro la dignità umana è la tortura, tanto più se essa è praticata da autorità governative nella loro veste ufficiale. Ma perché si tortura? C’è chi risponde dicendo che tutti, anche senza volerlo, abbiamo un’indole cosparsa di impulsi distruttivi, tuttavia questo non basta a rispondere al problema. E’ interessante riportare un esperimento fatto dallo psicologo americano Stanley Milgram, il quale analizzò il comportamento di alcune persone sottoposte a dover obbedire a comandi di autorità. Ebbene queste persone si ritrovarono anche ad accettare di subire torture o praticarle in ossequio all’ordine loro imposto. Quindi la tortura molto spesso è praticata o sopportata per obbedienza o paura nei confronti di chi lo comanda. Nei precedenti capitoli abbiamo visto che la tortura è nata nel passato, che fu il più amato tra gli strumenti di prova, che venne usata come sanzione legale. Molti autori la trovarono inadeguata, inopportuna, ed anche fallace.62 Allo stesso modo la pensano molti stati che tutt’oggi la praticano ; certo è che oggi anche la tortura si è evoluta, è diventata più sofisticata, e forse ha assunto un margine molto più psicologico che

fisico. Universalmente è sancito il divieto di praticarla63, tuttavia vi sono numerose falle nel sistema: basti pensare che mancano controlli più adeguati ed inoltre bisogna sapere che laddove si debba compiere un’ispezione in uno stato per controllare il rispetto di tale divieto, questa non può compiersi finché lo stato non abbia accettato. A livello di Europa occidentale siamo maggiormente tutelati, perché sono state numerose le sanzioni agli stati membri che violano il divieto. Allo stesso modo le istituzioni internazionali hanno reagito e si sono fatte sentire su tutti i fronti. Bisogna prendere però di petto un problema, ovvero se sia legittimo ricorrere a trattamenti inumani o degradanti o per fino alla tortura in situazioni di emergenza; per rispondere alla domanda si riporta un caso analizzato da Cassese nella sua opera “I diritti umani oggi”: questo racconta di un colonnello che, trovatosi nella situazione di torturare un prigioniero nemico, per avere informazioni indispensabili alla salvezza del suo battaglione, si interrogò più volte sulla necessità del suo atto, ma alle sofferenze di quell’uomo al colonello stava a lui più a cuore la salvezza dei suoi soldati. Ed è qui il problema e il pensiero di molti: troppe volte si crede che la tortura sia necessaria per salvare qualcuno, per difendere un ideale e non si pensa abbastanza al male che si sta praticando. E così ci si domanda come sia possibile migliorarsi: forse si dovrebbe passare ad un livello di tutela più selettivo, forse bisognerebbe sul serio garantire quelli che sono i diritti umani, forse si dovrebbe accelerare la risposta penale alle violazioni di tali diritti. La lotta per i diritti umani e contro la tortura necessita dell’aiuto di tutti, perché i diritti umani si acquistano e riconquistano giorno per giorno; trovo molto bello concludere con le parole di Hamburger:

63 Ne sono esempi la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, Il

“se gli uomini si accorgono chiaramente che i loro diritti non sono un dono della natura, ma una conquista permanente, una battaglia senza fine contro un ritorno alla condizione animale, una sorta di creazione attiva e quotidiana, una ribellione che dà alla vita il suo senso, la sua originalità, e la sua nobiltà, la nostra azione potrà mobilitare molte più persone, sarà più vera, più contagiosa e più efficace”. 64

Forse infatti a chi sta per morire in una prigione, in una camera di tortura , o in una città devastata dalle bombe, conta sapere che qualcuno per lui protesterà. Magari è poco, ma fa morire meno sconsolati.

Capitolo 7: Una particolare forma di tortura: Il carcere

La tortura, si è visto, può assumere varie sfaccettature ed una di queste può essere incarnata dal trattamento che subiscono i detenuti nei sistemi detentivi italiani e non. Il carcere, si sa, è un luogo di contenimento, di sofferenza, è il luogo in cui si sviluppano bisogni, desideri e necessità di numerosi esseri umani e proprio da qui partirà la nostra trattazione.

Nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno, circa un terzo per suicidio (si pensi che le fonti parlano di 1005 casi accertati dal 1990 ad oggi); di queste morti un terzo avvengono per cause riconosciute come naturali, mentre il restante terzo per cause da accertare. E’ molto difficile credere che in tutte queste situazioni la morte sia un evento improvviso ed imprevedibile, piuttosto essa rappresenta l’epilogo di una malattia che progressivamente si aggrava e che avrebbe far dovuto allarmare i sanitari e far disporre il ricovero in una struttura ospedaliera, oppure quanto meno, iniziare le procedure di rinvio della pena o di detenzione domiciliare. Ma per quale ragione questo non accade? Perché molto spesso i detenuti non vengono creduti quando lamentano un malessere? Un caso pratico, avvenuto a Teramo, può essere d’aiuto ad esplicare il concetto:

“un detenuto nigeriano di 32 anni è morto per un tumore al cervello mai diagnosticato, ma venti giorni prima di morire egli aveva iniziato ad avvertire capogiri, perdere i sensi ed aveva iniziato il deperimento fisico. Ad ogni suo svenimento il medico di guardia lo rispediva in carcere con qualche pillola per lo svenimento. Nella notte antecedente al decesso il detenuto è stato lasciato privo di sensi, nonostante avesse vomitato più volte e l’indomani è stato ritrovato morto, riverso, con la bava alla bocca.”

Ipotesi come questa, purtroppo, incarnano l’amara normalità. Il mancato ascolto del paziente/detenuto il più delle volte è dovuto allo stereotipo del detenuto falso e manipolativo, e dal credere che questi simulino i malesseri allo scopo di ottenere benefici, magari per ottenere l’incompatibilità con il regime detentivo. Eppure tutto questo risulta estremamente grave! Allo stesso modo moltissimi sono i gesti di autolesionismo: ma tutti questi gesti comportano un inasprimento della pena per il detenuto stesso (fra questi l’esclusione alle attività, fino all’isolamento del detenuto, o addirittura ad interventi medici, in quando il suicido è visto come un evento patologico che viola il diritto/dovere alla salute), senza piuttosto andare a verificare le cause. In molti di questi decessi la Magistratura ha aperto inchieste per verificare eventuali responsabilità degli operatori penitenziari: si va da ipotesi di omessa sorveglianza, fino ad omicidio colposo o preterintenzionale. Alla luce di ciò si dovrebbe cercare di fare prevenzione ascoltando il detenuto che lamenta un malessere, non sottovalutando i gesti rischiosi che questi può aver compiuto o compire, si dovrebbero poi migliorare i contesti interni alle strutture carcerarie, sostenendo una progettualità futura per i detenuti e cercando di fare una maggiore formazione del personale penitenziario.