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III. Conclusione

4. Il trattato contro Pirro

a. Le circostanze della stipulazione secondo Diodoro, Giustino, Livio e Valerio Massimo

Il trattato fu concluso dopo una fase diplomatica condotta dal

cartaginese Magone, in veste di plenipotenziario247 e un

tentato accordo dei Romani con Pirro, condotto dal legatus

senatorio (legatus a senatu248) Fabrizio Luscino. Per quanto

l’esame incrociato dei dati lasci emergere dubbi e incongruenze, non è consentito esimersi da un tentativo di ricostruzione delle vicende. Anzitutto, si distinguano le fonti in base alla situazione cui si riferiscono: se Giustino, Livio e Valerio Massimo si occupano della fase delle trattative e della conclusione del foedus, Diodoro narra episodi successivi all’accordo romano-punico. Giustino -che Filippo Cassola indicò come “la fonte più attendibile a noi pervenuta su questo

periodo”249- fa cenno alla battaglia di Ascoli Satriano

(combattuta nei primi mesi del 279 a. C.) e narra le vicende

246 K. Meister, Historische Kritik bei Polybios, Wiesbaden 1975, p.

137.

247 B. Scardigli, Trattati cit., pp. 172-173. 248 Iust. 18.2.6.

249 F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a. C., Roma

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della missione diplomatica di Magone; giunto con 120 navi

(130 secondo Valerio Massimo250) a Ostia, il plenipotenziario

punico offrì aiuto ai Romani, anche se si rilevano non poche incertezze nella ricostruzione degli eventi:

• secondo Giustino251, Magone si recò di persona in

Senato a offrire sostegno e rinforzi ai Romani “ut,

quoniam (ab) externo hoste oppugnarentur, externis auxiliis iuvarentur252”. I maggiorenti dell’Urbe

declinarono l’offerta con delicatezza (gratiae a senatu

Karthaginiensibus actae253) e il contingente cartaginese

ripartì.

• Nella versione di Valerio Massimo254, quando il

comandante dei Cartaginesi255 (dux eorum) raggiunse il

porto di Ostia, fu il senato che decise di inviare legati presso i Cartaginesi (senatui placuit legatos ad eorum

ducem ire256), senza che costoro dovessero recarsi a

Roma. Gli inviati erano incaricati di rispondere ai Cartaginesi che il popolo romano non soleva intraprendere le guerre che non poteva sostenere con le proprie forze e di invitarli a ritirare la flotta (qui dicerent

populum Romanum bella suscipere solere, quae suo milite gerere posset: proinde classem Karthaginem reducerent257).

Si incorrerebbe nella tentazione di liquidare queste divergenze come inezie, se non si considerasse il ruolo dei legati che il

250 Val. Max. Facta et dicta mem. 3.7.10. 251 Iust. Hist. Phil. 18.2.1-3.

252 Iust. Hist. Phil. 18.2.2. 253 Iust. Hist. Phil. 18.2.3.

254 Val. Max. Facta et dicta mem. 3.7.10.

255 Si tratta quasi certamente del solito Magone di cui parla

Giustino, quantunque Valerio Massimo non ne riporti il nome.

256 Val. Max. Facta et dicta mem. 3.7.10. 257 Val. Max. Facta et dicta mem. 3.7.10.

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senato inviò a Ostia presso Magone, secondo Valerio Massimo. Nonostante l’aridità delle fonti al di là di quanto sopra riportato, vien fatto di chiedersi se non converrebbe inquadrare questo gruppo di legati nell’ambito di quella figura di commissione di nomina senatoria che, almeno a partire dal secondo conflitto punico, predisponeva il contenuto del

trattato in vista della successiva ratifica258. Tale commissione

era composta generalmente di cinque o dieci membri e operava in base alle direttive deliberate dai patres conscripti

(un esempio piano del suo operare è riportato da Livio259 a

proposito delle commissioni istituite per trattare le questioni più importanti relative a Macedonia e Illirico dopo la vittoria sui loro sovrani (Perseo e Genzio) nel 168 a. C.). Oltre che a rilevare le somiglianze tra i legati inviati a Magone e le commissioni senatorie, tuttavia, non possiamo spingerci.

Giustino260 prosegue la sua narrazione concentrandosi

dapprima su Magone, il quale se ne partì da Ostia per raggiungere Pirro con l’intenzione di venire a conoscenza dei suoi piani circa la Sicilia, per poi ricordare come nel frattempo un inviato del Senato, Fabrizio Luscino, riuscisse ad addivenire a un accordo di pace con il sovrano epirota. Anche questa seconda parte del resoconto di Giustino solleva e lascia insolute alcune questioni:

• benché lo storico attribuisca a Magone l’intenzione di trattenere Pirro in Italia così da evitare un’avanzata greca in territorio siciliano, non sono chiari i motivi

della seconda spedizione del plenipotenziario

cartaginese, questa volta presso Pirro. Si sono avanzate

258 A. Petrucci, Corso cit., pp. 329-330. 259 Liv. Ab Urbe condita 45.17.1-7. 260 Iust. 18.2.4-6.

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diverse ipotesi, da una parte dando fede a Giustino che affibbia ai Cartaginesi il marchio d’infamia del

doppiogiochismo (Punico ingenio261) e ritenendo che il

fine ultimo di Magone fosse quello di giocare su due tavoli: sostenere Roma, anche militarmente, e accordarsi con Pirro o, quanto meno, garantirsene la lontananza dalla Sicilia; dall’altra, come preferisce

Scardigli262, ritenendo che la strategia punica (senza

tuttavia escludere anche il fine utilitaristico di raccogliere informazioni su una eventuale spedizione in Sicilia) vertesse sul suscitare una forte intimidazione in Pirro con il resoconto del patto romano-punico. Se si aderisce a questa seconda ricostruzione, si deve supporre che in realtà la spedizione romana di Magone, al di là degli aspetti propagandistici filtrati nella storiografia “patriottica” romana, avesse dato buoni frutti ponendo basi solide per la successiva stipulazione di un foedus.

• Occorre inquadrare adeguatamente e spiegare il tentativo romano di accordarsi con Pirro (dum haec

aguntur, legatus a senatu Romano Fabricius Luscinus missus pacem cum Pyrrho componit263). La missione del

legato senatorio presso il monarca fu quindi contemporanea all’arrivo di Magone a Roma e andò a buon fine: si concluse una pace a nome del Senato. Era però necessario che l’accordo, stipulato verosimilmente nella forma di una sponsio internazionale e, pertanto, non direttamente vincolante la respublica, fosse ratificato a Roma dal popolo; a tal fine fu mandato il

261 Iust. 18.2.4.

262 B. Scardigli, Trattati cit., pp. 174-175. 263 Iust. 18.2.6.

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greco Cinea, che tuttavia si vide opporre un netto rifiuto alla ratifica, grazie soprattutto ai “buoni” uffici di Appio Claudio Cieco. Sconsolato, “Pirro decise allora di aderire

alla chiamata dei Siracusani264” (che chiedevano un

intervento in Sicilia). Si vagherebbe sul terreno accidentato della storia fatta con i “se”, ipotizzando che esistesse un piano preordinato tra Roma e Cartagine per neutralizzare il pericolo pirrico.

• Dopo la spedizione presso Pirro, Magone -o chi per lui- dovette tornare a Roma per la stipula definitiva del “trattato di Pirro”. È quindi verosimile che il trattato sia stato stipulato tra la fine del 279 e l’inizio dell’anno successivo.

Diodoro si riferisce a episodi successivi alla definitiva conclusione del foedus: i Cartaginesi imbarcarono 500 uomini sulle navi della propria flotta diretti a Reggio. Si trattò di una misura di natura militare che tendeva a sorvegliare lo stretto di Messina e a cautelarsi da una manovra in Sicilia di Pirro.

b. L’inquadramento del trattato in Polibio

Polibio, come anticipato, non dedica al trattato in esame un commento, ma fornisce soltanto delle indicazioni cronologiche alquanto vaghe: “ἔτι τοιγαροῦν τελευταίας συνθήκας ποιοῦνται Ῥωμαῖοι

κατὰ τὴν Πύρρου διάβασιν πρὸ τοῦ συστήσασθαι τοὺς Καρχηδονίους τὸν περὶ Σικελίας πόλεμον265”. Queste coordinate non sono sufficienti per

una datazione accurata dell’atto, ragion per cui la sua collocazione cronologica deve essere fissata con un esame incrociato di tutte le fonti.

264 B. Scardigli, Trattati cit., p. 172.

265 Polyb. 3.25.1. “Un ultimo trattato con Cartagine i Romani

stipularono ai tempi del passaggio di Pirro, prima che i Cartaginesi iniziassero la guerra per la Sicilia”, trad. di B. Scardigli, Trattati cit., p.167.

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Dopo aver riportato il testo del foedus266, Polibio si dilunga

sulle forme del giuramento che doveva “rendere operante

ognuno dei trattati267”: mentre per i Romani il primo di essi

avrebbe avuto sugello con un giuramento a Giove Pietra, il secondo e il terzo sarebbero stati “licenziati” invocando Marte e Quirino; i Cartaginesi invece, si sarebbero sempre rivolti ai ὶ ῷ (“dei degli antenati”). Se è di difficile interpretazione il riferimento a Marte e Quirino per quelli che per Polibio sono il secondo e il terzo trattato, qualche plausibilità deve accordarsi alla parte sul giuramento a Giove Pietra. Molto probabilmente si fa riferimento alla fase finale del procedimento solenne per la conclusione di un foedus, quando il pater patratus procedeva al sacrificio di un maiale con il

coltello rituale di selce (porcum saxo silice percussit268), dopo

aver pronunciato il giuramento esecratorio a Giove269. La

confusione di Polibio potrebbe esser stata cagionata dalla desuetudine in cui era caduto l’istituto ai tempi dell’Autore e dalla sua provenienza greca.

c. Le clausole del trattato

“[3] ἐὰν συμμαχίαν ποιῶνται πρὸς Πύρρον ἔγγραπτον, ποιείσθωσαν ἀμφότεροι, ἵνα ἐξῇ βοηθεῖν ἀλλήλοις ἐν τῇ τῶν πολεμουμένων χώρᾳ: [4] ὁπότεροι δ᾽ ἂν χρείαν ἔχωσι τῆς βοηθείας, τὰ πλοῖα παρεχέτωσαν Καρχηδόνιοι καὶ εἰς τὴν ὁδὸν καὶ εἰς τὴν ἄφοδον, τὰ δὲ ὀψώνια τοῖς αὑτῶν 266 Polyb. 3.25.3-5.

267 B. Scardigli, Trattati cit., p. 191. 268 Liv. Ab Urbe condita 1.24.9.

269 Liv. Ab Urbe condita 1.24.7-8: “audi, inquit, Iuppiter; audi pater

patrate populi Albani; audi tu populus Albanus. Ut illa palam prima postrema ex illis tabulis caerave recitata sunt sine dolo malo, utique ea hodie rectissime intellecta sunt, illis legibus populus Romanus prior non deficiet. Si prior defixit publico consilio dolo malo, tum illo die, Iuppiter, populum Romanum sic ferito ut ego nunc porcum hic hodie feriam; tantoque magis ferito quanto magis potes pollesque”.

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ἑκάτεροι. [5] Καρχηδόνιοι δὲ καὶ κατὰ θάλατταν Ῥωμαίοις βοηθείτωσαν, ἂν

χρεία ᾖ. τὰ δὲ πληρώματα μηδεὶς ἀναγκαζέτω ἐκβαίνειν ἀκουσίως.270

La traduzione riportata in apertura del capitolo271 non è

soddisfacente nel rendere la locuzione [συμμαχίαν] πρὸς Πύρρον 272

come “[alleanza] con Pirro” perché essa implicherebbe il divieto di una pace separata con Pirro, quantunque a questa

obiezione Scardigli e altri fautori della traduzione “con Pirro”273

replichino che l’eventuale alleanza di uno dei paciscenti col Greco si sarebbe estesa all’altro contraente, ma non agli alleati di Roma e Cartagine e di Pirro; proprio rispetto a questi ultimi ci si sarebbe dovuti garantire.

Più ragionevole è intendere ὸς ύ come “contro Pirro”, così da avere questa traduzione: “[3] se essi concludono

un’alleanza contro Pirro, ambedue le parti fissino per iscritto, che sia lecito soccorrersi l’un l’altro nel territorio della parte aggredita.274

Quanto alla validità del trattato, si può asserire che esso costituisse una deroga rispetto al regime “ordinario” delle relazioni romano-puniche disciplinato dal patto del 306 a. C.; pertanto, considerando il carattere emergenziale della congiuntura storico-politica (con l’ostile presenza di Pirro in Italia), vien fatto di supporre che il foedus abbia avuto una vigenza temporalmente limitata alla permanenza dei contingenti epiroti in Occidente, con il corollario inevitabile di una reviviscenza del trattato di Filino che, “senza le aggiunte

270 Per comodità si riporta il testo, Polyb. 3.25.3-5. 271 B. Scardigli, Trattati cit., p. 167.

272 Polyb. 3.25.3.

273 Ad esempio, B. Scardigli, Trattati cit., pp. 188-189, D. Hoyos,

Treaties true and false: the error of Philinus of Agrigentum, The Classic Quarterly, vol. 35, num. 1, 1985, p. 107.

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che riguardavano Pirro, dev’essere rimasto in vigore anche dopo la partenza del re275”.

Il testo del trattato prosegue indicando le condizioni di aiuto militare reciproco (ή); questa volta l’accordo dà vita a una vera e propria societas in cui gli obblighi militari sono puntualmente regolati:

• in caso di generico “bisogno di aiuto” (ῖ ῆς ίς), i Punici devono mettere in ogni caso a disposizione le navi della loro flotta;

• ciascuno dei contraenti, però, deve provvedere ad approvvigionare le proprie truppe;

• nell’ipotesi particolare di un attacco subito dai Romani (e questo sembra costituire una mera specificazione del contenuto della clausola generale di cui sopra), occorre ancora che i Cartaginesi prestino soccorso a Roma “anche sul mare” (ὶ ὰ ά);

• si precisa infine che, in ogni caso, non si possono costringere gli equipaggi a lasciare le navi contro la propria volontà.

Ora i Romani sono in grado di trattare da pari a pari con i Punici e non è più rinvenibile nel contenuto del foedus uno sbilanciamento in favore di Cartagine. Anzi, se la clausola relativa alla possibilità di accedere alla ώ (“territorio”) dell’alleato attaccato è perfettamente reciproca, le altre condizioni sembrano più favorevoli alla respublica. Sulla base di queste ultime, inoltre, si possono proporre due considerazioni che palesano quanto l’equilibrio tra Roma e Cartagine fosse mutato in pochi decenni:

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• i Punici si rendevano oramai conto di non aver a che fare con una potenza regionale dell’Italia centro- meridionale, ma con una realtà politico-territoriale di sicuro rilievo mediterraneo;

• nondimeno, a ben vedere, il favore accordato ai Romani sul mare ne disvela la persistente debolezza marittima. Probabilmente anche per questa inadeguatezza di Roma, i Cartaginesi si resero disponibili a contrattare condizioni a loro sfavorevoli: soltanto in questo modo era possibile rendere effettiva la sinergia militare.

Il trattato servì allo scopo e Pirro, dopo le gesta di Sicilia, fece ritorno in Italia da dove, sconfitto definitivamente dai Romani, si ritirò oltre l’Adriatico. Adesso lo scacchiere del Mediterraneo occidentale vedeva due abilissimi giocatori separati da un esiguo braccio di mare. Un vecchio regolamento giuridico, risalente al 306 a. C. e del tutto inadeguato, fungeva da unica, malandata catena per due lupi famelici.

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Capitolo V

Il trattato del 241 a. C. e le aggiunte 237 a.C.

1. Il contesto storico

Nel 264 a. C. scoppiava la prima guerra punica (detta anche “guerra per la Sicilia”) che sarebbe durata per più di vent’anni. Nelle varie fasi del conflitto si distinsero il condottiero punico

Amilcare276, detto Barca277, un notabile filelleno con vasti

possedimenti nella regione africana della Bizacena, Attilio Regolo, Gerone di Siracusa e Gaio Lutazio Catulo, console nel 242 a. C. e vincitore della battaglia decisiva combattuta presso le Egadi nel marzo del 241 a. C.

Dunque, secondo un’impostazione antica, si potrebbe vedere nella guerra in esame la palestra per la lotta tra grandi uomini: in verità, lo scontro tra Roma e Cartagine, la “guerra

per la Sicilia”, non fu un duello tra campioni, ma l’esito

indefettibile della situazione geopolitica che si era andata delineando nei decenni immediatamente precedenti. Roma aveva ottenuto il controllo dell’Italia peninsulare e i suoi mercanti e imprenditori guardavano con crescente bramosia ai mercati mediterranei; forte era la propensione da parte romana all’integrazione nella propria compagine statale delle nuove conquiste e sapiente fu la complicatissima trama di legami e annessioni che Roma seppe intessere in vista di un dominio strettamente territoriale. Cartagine era riuscita ad avere ragione delle iniziative espansionistiche dei Greci e amministrava un vero e proprio “commonwealth”, privo di una

dimensione propriamente territoriale, ma teso al

mantenimento e al rafforzamento di una talassocrazia sull’Occidente mediterraneo. Oramai un solo pollaio non bastava per due galli tanto gagliardi.

276 Padre di Annibale Barca. 277 Da baraq “folgore”.

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Dopo quasi cinque lustri, la guerra fu decisa presso le Egadi e, vinta la battaglia, “Catulus and Falto sailed back to Lilybaeum

and the principal Roman camp, fully confident that the war was

won278”; e così in effetti fu: “the Carthaginian government,

unwilling to shoulder the responsability of abandoning Sicily, gave Hamilcar plenipotentiary power to decide what course should be adopted and to negotiate a peace if he felt further resistance to be useless279” e Amilcare, da realista qual era,

ritenne opportuno trattare. Anche il console Catulo era disposto a venire a patti sia perché Roma era sfinita dal ventennale sforzo bellico sia perché -notano i maliziosi, antichi e moderni- non voleva lasciare al suo successore la gloria della vittoria. Amilcare e Catulo dunque parlamentarono e

trovarono un accordo280. Furono inviati ambasciatori a Roma

per ottenere la ratifica del patto da parte dei comizi centuriati che, tuttavia, non l’approvarono, costringendo la respublica a inviare in Sicilia una commissione di dieci membri per modificare e rendere accetta all’assemblea popolare la definizione cui erano giunti Catulo e Amilcare. La modifica incise sull’indennità che Cartagine avrebbe dovuto pagare a Roma e sui termini per la suddetta corresponsione. Alla già pattuita cessione della Sicilia in favore di Roma e di Gerone di Siracusa, si aggiunse l’abbandono delle “isole circostanti alla

Sicilia281”.

Questa volta l’accordo fu ratificato ed entrò in vigore, i Romani chiusero le porte del tempio Giano.

Nonostante la relativamente modesta entità dell’indennità di guerra a carico di Cartagine (specie se commisurata ai terribili costi sostenuti dai Romani in più di vent’anni), il dissesto delle

278 B. Caven, The Punic wars, London 1980, p. 62. 279 B. Caven, Punic wars cit., p. 62.

280 B. Scardigli, Trattati cit., pp. 218-219. 281 M. A. Levi-P. Meloni, Storia cit., p. 99.

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sue finanze rese impossibile il pagamento degli stipendi ai

mercenari282 che si sollevarono assieme ad alcune popolazioni

dell’Africa settentrionale sottomesse a Cartagine283. Grave

errore da parte Cartaginese fu il dichiarare apertamente ai mercenari di non essere in grado di pagar loro il sospirato

stipendio: secondo Caven284, ciò si deve imputare alla

mentalità commerciale della classe dirigente cartaginese in quanto “in business a creditor who is himself in difficulties will

often agree to compound a debt father than rather than wait indefinitely for the whole amount, but the heterogeneous mob of fighting men at Sicca285 were not imbued with business principles”.

La repressione fu affidata dapprima ad Annone, capo della fazione anti-barcina, poi ad Amilcare, che, in breve tempo, riuscì ad avere la meglio sulle truppe dei rivoltosi, mercenari e libici, guidati da Matone e dal disertore campano Spendio. L’Africa era stata ricondotta all’ordine, ma la guerra non era ancora terminata: nel 239 a. C., i mercenari occuparono la Sardegna e passarono per le armi tutti i Cartaginesi che vi trovarono; ne furono però poi cacciati dai Sardi. I ribelli trovarono quindi rifugio in Italia e offrirono la deditio a Roma,

con il chiaro intento di essere aiutati dal popolo romano -soprattutto dalle sue legioni- a recuperare il dominio sulla

Sardegna. I Romani inizialmente, rispettando il trattato concluso nel 241 a. C., non intervennero in aiuto dei mercenari rivoltosi, coerenti con la linea seguita dall’inizio

282 L’esercito cartaginese era composto in gran misura da truppe

mercenarie, assoldate in Africa, Gallia, Spagna e Italia.

283 G. Gerace- A. Marcone, Storia Romana cit., p. 91. 284 B. Caven, Punic wars cit., p. 68.

285 Località vicino Cartagine dove le truppe mercenarie furono

acquartierate e in seguito esplicitamente avvertite che non avrebbero ricevuto immediatamente il pagamento di quanto loro dovuto.

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della cd. guerra dei mercenari nei confronti di Cartagine; quando, nelle prime fasi del conflitto, il governo punico chiese aiuto alla respublica (e a Gerone), questa accondiscese consentendogli di reclutare mercenari nelle regioni italiane, in deroga al cd. trattato di Catulo del 241 a.C.

Dopo la cacciata dei ribelli dalla Sardegna da parte dei già allora duri e fieri Sardi, i Cartaginesi si preparavano a recuperare l’isola, allestendo una spedizione militare. I mercenari implorarono di nuovo un intervento romano per occupare l’isola e, con una giravolta politica a dir poco acrobatica, Roma aderì alla richiesta, cogliendo al balzo la possibilità di estendere il proprio dominio sulla Sardegna. A Cartagine fu fatto pervenire un ultimatum e furono inviati dei cospicui contingenti comandati da Tiberio Sempronio Gracco. I Punici, stremati da quasi trent’anni di guerre, dovettero rinunziare all’impresa e accettare di sottoscrivere delle clausole aggiuntive al foedus concluso nel 241 a. C.: in esse si aumentava ancora l’indennità dovuta a Roma e si

ufficializzava la cessione della Sardegna. Era il 237 a. C.286.

2. Le fonti

a. Sul trattato internazionale del 241 a. C.

Polibio menziona l’accordo in esame in quattro luoghi della sua opera, distinguendo chiaramente la preliminare sponsio internazionale dal successivo trattato:

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“[7] Avendo Catulo accolto prontamente le proposte, poiché era

consapevole che le sue forze erano ormai estenuate e stanche dalla guerra, pose fine alle ostilità. Fu stipulato questo accordo, il cui contenuto era il seguente: [8] a queste condizioni sia amicizia tra Cartaginesi e Romani, se anche il popolo romano approva: i Cartaginesi devono abbandonare tutta la Sicilia, non devono combattere contro Gerone, né attaccare i Siracusani o i loro alleati; [9] devono consegnare tutti i prigionieri senza riscatto. E devono pagare ai Romani in 20 anni la somma di 2200 talenti euboici.287

“[1] Quando questi termini furono riferiti a Roma, il popolo non

accettò l’accordo, ma inviò dieci uomini a esaminare la situazione. [2] Giunti sul posto, non cambiarono l’accordo nella sua sostanza, ma apportarono solo piccole modifiche a sfavore dei Cartaginesi: [3] ridussero a metà il periodo, entro il quale era da pagare l’indennità, aumentarono la somma di mille talenti e imposero ai Cartaginesi di ritirarsi dalle isole situate tra l’Italia e la Sicilia.288

287 Traduzione di B. Scardigli, Trattati cit., p. 208. 288 Traduzione di B. Scardigli, Trattati cit., p. 208.

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“[1] Al termine della guerra per la Sicilia fu fatto un altro trattato

le cui clausole erano le seguenti: [2] i Cartaginesi devono evacuare (e tutta la Sicilia e) tutte le isole situate tra la Sicilia e l’Italia. [3] Dev’essere garantita la sicurezza ai reciproci alleati da parte di ambedue. [4] Nessuna delle due potenze darà disposizioni nel dominio dell’altra, né permetterà di costruire edifici pubblici, di arruolare mercenari, né accoglierà in amicizia gli alleati dell’altra parte. [5] I Cartaginesi devono pagare 2200 talenti in 10 anni e 1000 subito. [6] I Cartaginesi devono restituire subito ai Romani tutti i prigionieri senza pagamento di riscatto.289

Diodoro Siculo, nella sua monumentale opera, la Bibliotheca