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Roma e Cartagine, guerra e Diritto internazionale nel mondo antico.

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(1)

Lorenzo Talini

I TRATTATI TRA ROMA E

CARTAGINE, GUERRA E

DIRITTO INTERNAZIONALE

(2)

1 Indice

Introduzione...5

I. I rapporti internazionali nel mondo romano...8

1. Questioni preliminari ... 8

2. Sommaria introduzione ai rapporti internazionali ... 9

3. Il ruolo del Senato nella gestione dei rapporti internazionali ... 12 4. Il foedus ... 13 5. L’hospitium ... 16 6. L’amicitia ... 18 7. La guerra ... 20 8. La sponsio ... 23 9. Le indutiae ... 24 10. La deditio... 26

II. Il primo trattato tra Roma e Cartagine...28

1. Il contesto storico ... 28

2. Il testo del trattato in Polibio e le altre fonti ... 32

a) La datazione stando alle fonti ... 33

b) Alcune opinioni moderne sulla datazione ... 36

3. La struttura del trattato ... 37

4. Le parti del trattato... 39

5. Inquadramento giuridico del trattato ... 40

6. Le condizioni poste ai Romani ... 42

a) Il divieto di navigazione oltre il Capo Bello ... 42

b) Aspetti commerciali ... 46

I) Le aree del commercio libero ... 46

II) Le aree del commercio controllato ... 47

7. Le condizioni poste ai cartaginesi ... 49

(3)

2

b) “τῶν πόλεων ἀπεχέσθωσαν” ... 49

c) Divieto di costruire fortificazioni e di permanenza ὡς πολέμιοι... 50

III. Il trattato del 348 a. C...51

1. Il contesto storico ... 51

a. Roma ... 51

b. Cartagine ... 52

2. Il testo del trattato in Polibio e le altre fonti ... 53

3. Datazione e contenuto del trattato ... 57

4. Inquadramento giuridico del trattato ... 60

5. Limiti alla navigazione e clausola generale di circolazione 63 a. Per i Romani ... 63

b. Per i Cartaginesi ... 65

6. Clausola generale di non aggressione ... 66

a. Per i Romani ... 66

b. Per i Cartaginesi ... 67

7. Condizioni speciali di circolazione commerciale ... 67

a. Per i Romani ... 67

b. Per i Cartaginesi ... 68

IV. I trattati del 306 a. C. e del 278 a. C...69

1. Le fonti ... 69

a. Sul trattato di Filino ... 69

b. Sul trattato contro Pirro ... 72

2. Il contesto storico ... 76

3. Il trattato riferito da Filino ... 80

a. Il contenuto del trattato in Polibio ... 80

b. Le altre fonti ... 82

c. Il trattato di Filino è autentico? ... 84

I. Dare fiducia a Polibio ... 84

II. Filino aveva ragione? ... 86

(4)

3

4. Il trattato contro Pirro ... 89

a. Le circostanze della stipulazione secondo Diodoro, Giustino, Livio e Valerio Massimo ... 89

b. L’inquadramento del trattato in Polibio ... 93

c. Le clausole del trattato ... 94

V. Il trattato del 241 a. C. e le aggiunte del 237 a. C...98

1. Il contesto storico ... 98

2. Le fonti ... 101

a. Sul trattato internazionale del 241 a. C. ... 101

b. Le clausole aggiunte all’esito della cd. Guerra dei mercenari ... 110

3. Il trattato conclusivo della Prima guerra punica (cd. Trattato di Catulo) ... 116

a. Le due redazioni del testo ... 116

b. Il contenuto del trattato “definitivo”... 124

4. Le aggiunte al Trattato di Catulo del 237 a. C. ... 127

a. La cessione della Sardegna a Roma ... 128

b. L’indennità addizionale di 1200 talenti ... 129

VI. Il trattato dell'Ebro, la seconda guerra punica e la pace del 201 a. C...130

1. Il contesto storico ... 130

2. Le fonti ... 136

a. Le fonti relative al Trattato dell’Ebro ... 136

b. Le fonti sulla pace del 201 ... 145

I. Le fonti sul primo patto di pace (203/202 a.C.) ... 145

II. Le fonti sul patto definitivo di pace (201 a. C.) ... 149

3. Il Trattato dell’Ebro ... 154

a. Il contenuto, unilateralità o bilateralità degli obblighi nascenti dal patto? ... 154

b. Inquadramento giuridico dell’accordo... 160 c. La violazione del Trattato e la questione della

responsabilità per lo scoppio della seconda guerra punica 161

(5)

4

4. La relazione tra la pace del 203 e la pace del 201 a. C. . 164

5. La pace del 203 a. C. ... 165

6. La pace definitiva del 201 a. C. ... 168

a. Le fonti di Polibio ... 168

b. Le indutiae ... 168

c. La pace ... 171

I) L’autonomia di Cartagine ... 173

II) Gli oneri finanziari a carico di Cartagine ... 174

Bibliografia ... 176

(6)

5

Introduzione

Il presente lavoro si propone, sia pure con tutte le opportune professioni di modestia, di tracciare un profilo giuridico e, inevitabilmente, anche storico del dipanarsi delle relazioni tra Roma e Cartagine, a partire dal primo accordo documentato (509 a. C. circa) fino all’esito della seconda guerra punica (201 a. C.).

L’oggetto della trattazione potrebbe -e non senza ragioni- sembrare di interesse puramente antiquario; tuttavia, si tratta in verità di un’ottima strada, percorrendo la quale è dato seguire la corsa degli istituti del Diritto internazionale romano verso la loro progressiva definizione ed evoluzione. Tutto ciò è reso possibile dalle caratteristiche proprie del rapporto tra la

respublica e la punica signora dei mari: una lunga serie di atti

che, a distanza di secoli l’uno dall’altro, apportano modifiche alle definizioni precedenti nel segno di una sostanziale

continuità, almeno fino al III secolo a. C.

Nel corso degli ultimi decenni della vita veramente autonoma di Cartagine (dal 264 a. C. al 201 a. C.), le relazioni tra i due stati mediterranei si fecero conflittuali: si combatterono due lunghe guerre, al termine delle quali la potente Cartagine perse de facto la sua autonomia, e la giovane repubblica romana si avviò verso i fasti dell’impero universale. Tuttavia, pur nell’asprezza della belligeranza, il diritto, quale strumento di risoluzione delle controversie internazionali, non venne accantonato, ma intervenne una volta cessato il fragore delle armi a ristabilire l’ordine e la certezza delle relazioni romano-puniche.

(7)

6

Sorprendentemente, dall’analisi dei vari atti emerge un

precocissimo sviluppo del Diritto internazionale e dei principi fondamentali di civiltà giuridica, che potrebbe venir fatto di pensare appartenessero a epoche meno remote. Già nei primi due foedera romano-punici (509 a. C. circa e 348 a. C.) si ravvisa un raffinato e complesso meccanismo di disciplina delle attività commerciali nei territori dell’una e dell’altra

civitas, e, paradossalmente, più si risale indietro nel tempo,

più si rinvengono statuizioni e disposizioni che non possono che far strabuzzar gli occhi al romanista.

Quanto alla struttura di questa modesta opera, essa si

compone di sei capitoli, nei quali, dopo una ricognizione degli istituti del Diritto internazionale romano in prospettiva

diacronica e sincronica, si procede alla ricostruzione dei

singoli negozi. Questa disamina segue un ordine cronologico e si fonda anzitutto sulle fonti letterarie antiche, che vengono riportate, tradotte e commentate; stella polare in un sì

difficoltoso periplo è stato lo storico Polibio di Megalopoli, che riporta la maggior parte dei testi che qui interessano.

All’esame analitico degli autori antichi segue un tentativo (chi scrive spera non infruttuoso) di inquadramento giuridico dei vari atti, con il prezioso sostegno delle tesi dei moderni, storici del diritto e storici tout court.

Difficilmente le pagine che seguono offriranno risposte certe; le argomentazioni cercano di essere quanto più stringenti possibile, ma non possono arrogarsi il diritto di ergersi a soluzioni inoppugnabili o, più semplicemente, definitive. Chi di spada ferisce, di spada perisce, e, quindi, occorre

abbandonare l’illusione di non essere colpiti dalle sferzate di un costruttivo scetticismo e dello spirito critico che spero animi queste pagine.

(8)

7

Per concludere, è d’uopo avvertire che l’opera è piuttosto breve rispetto all’enormità della materia trattata: si intende fornire una visione cumulativa dell’intero, e non un’esaustiva

esposizione di ogni questione che potrebbe porsi in relazione ai vari argomenti.

(9)

8

Capitolo I

I rapporti internazionali nel mondo romano

1. Questioni preliminari

Non è possibile esimersi dall’annoso dibattito relativo alla natura pacifica od ostile dei rapporti “originari” tra i popoli dell’antichità, cui hanno dato il loro contributo molti tra i più

grandi romanisti e storici del passato. Per il Mommsen1, il

quale evidentemente aderisce hobbesiano bellum omnium

contra omnes, i rapporti tra i popoli dell’antichità sarebbero

caratterizzati da una perenne ostilità2: all’esterno della

federazione latina (di cui faceva parte anche Roma) non ci sarebbe stata che guerra, da comporre con tregue temporanee soggette a successivi rinnovamenti, di modo che lo straniero-nemico, l’hostis, divenisse persona. Questa evoluzione dallo stato originario di guerra sarebbe dovuta principalmente alle ragioni del commercio.

Una tale opinione tuttavia non resiste alle evidenze della filologia e all’analisi delle fonti. Se da un lato si intende hostis come nemico, questa accezione non deve essere riguardata come quella primitiva del vocabolo: hostis è parente di gast

(gotico), gosti (slavo), guest (inglese moderno) e ξένος (greco),

termini che, nelle rispettive lingue, fanno riferimento al concetto di ospitalità3. In antico si designava il nemico con la

voce perduellis (duellum è il temine più antico per “guerra”), poi passata a indicare il soggetto che attentava alla costituzione dello Stato. In origine quindi hostis è il peregrinus

qui suis legibus utitur, ossia lo straniero con cui non si ha una

1 T. Mommsen, Disegno di diritto pubblico romano, Milano 1943,

pp. 72 ss.

2 F. De Martino, Storia della Costituzione Romana vol. II, Napoli

1972, pp.13-16.

3 G. Franciosi, Corso storico istituzionale di Diritto romano, Torino

(10)

9

comunanza di diritto. A testimonianza di quanto affermato, soccorrono due norme delle XII Tavole relative allo straniero:

1. Aeterna auctoritas4 (garanzia per evizione perenne). Se

veniva alienato un bene allo straniero, non potendo costui giovarsi dell’usucapione, la garanzia per evizione in suo favore era perpetua (aeterna);

2. Status dies cum hoste5 (causa di giustificazione per

assenza in giudizio). Era giustificato per l’assenza in giudizio il cives che avesse una causa fissata cum hoste nello stesso giorno.

Significativo è altresì, come evidenzia Giovanni Baviera6, il

frammento di Pomponio7 che recita: “si cum gente aliqua

neque amicitiam neque hospitium neque foedus amicitiae causa factum habemus, hi hostes quidem non sunt”.

Dunque, in parte riprendendo la concezione dello stato di natura come reciproca indifferenza tra gli uomini di illuministica memoria, si può affermare che è preferibile la tesi che oggi prevale, ossia quella secondo cui lo stato normale e originario dei rapporti internazionali fosse di “reciproco

rispetto e amicizia”8.

2. Sommaria introduzione ai rapporti internazionali

All’interno del diritto internazionale romano si opera una

summa divisio tra diritto internazionale di pace e diritto

internazionale di guerra.

4 XII Tab. 6.4 “adversus hostem aeterna auctoritas esto” (Cic. De Off.

1.12.37).

5 XII Tab. 2.2 “aut status dies cum hoste” (Cic. De Off. 1.12.37). 6 G. Baviera, Il Diritto internazionale dei romani, Modena 1898, p.

27.

7 Dig. 49.15.15.2.

(11)

10

Roma conobbe un vero e proprio diritto internazionale e non un diritto pubblico esterno, come il Baviera, con eccessiva

verve polemica, argomenta nel suo studio di fine ottocento9.

Pomponio10, nel testo già preso in esame al paragrafo

precedente, considera hospitium, amicitia e foedus come tre

categorie di accordi di pace11, ma il foedus nasce come atto

che si caratterizza per la forma solenne e non per il suo contenuto, mentre gli altri due rapporti hanno natura sostanziale. Tale atto dalle fonti più recenti (di età imperiale) è preso in considerazione in contrapposto ad amicitia e

hospitium per denotare la condizione di coloro che erano legati

da un’alleanza con Roma, conservando nondimeno un margine variabile di autonomia; sembra che un tale mutamento si sia sviluppato a partire dall’età dell’espansione

romana in Italia12. Tra i tre istituti ci sono zone di parziale

sovrapposizione, come si vedrà meglio tra breve.

Quanto al diritto internazionale di guerra, esso a sua volta è suddivisibile in ius belli e ius in bello.

• Ius belli (o ad bellum). La guerra e la sua dichiarazione a Roma erano concepite come procedimento giuridico (in cui un ruolo preponderante era svolto dal collegio sacerdotale dei feziali) e come extrema ratio, fatto testimoniato, ad esempio, dalla rerum repetitio. Occorreva che il bellum fosse iustum piumque e

sull’aggettivo iustum si è molto discusso13, da un lato

9 G. Baviera, Diritto internazionale cit., pp. 25 ss. 10 Non senza vere e proprie zone grigie.

11 F. De Martino, Storia cit., pp. 21-23, G. Franciosi, Corso storico

cit., pp. 125-126.

12 Almeno così F. De Martino, Storia cit., p. 35.

13 F. Reduzzi Merola, Il bellum iustum e i trattati tra Roma e

(12)

11

sostenendo una sua accezione etico-morale (in ciò rifacendosi alla tradizione che ha in S. Agostino il

padre), dall’altro interpretandolo in senso

esclusivamente giuridico. Prevale oggi il secondo atteggiamento e quindi si ritiene che, in due famosi passi di Cicerone che hanno costituito il fondamento

della diatriba14, il grande oratore abbia usato iustum nel

senso di giuridicamente conforme, giacché, come non manca di rilevare Petrucci, sempre il termine era impiegato in tal guisa in un contesto giuridico. Altro problema connesso è quello relativo a quando fosse necessario il procedimento giuridico per la dichiarazione

di guerra; secondo Mommsen15 (che, come già

anticipato, riteneva che la guerra fosse lo stato naturale dei rapporti internazionali) questo serviva solo per aprire le ostilità con un popolo con cui Roma avesse già concluso accordi, viceversa non sarebbe occorsa alcuna

dichiarazione. Secondo De Martino16, invece, il

procedimento era doveroso in ogni caso, stante il fatto che la guerra sarebbe la rottura della pace primigenia. A titolo di semplice anticipazione, cito gli istituti della

sponsio, delle indutiae e della deditio che regolavano le

fasi conclusive o semplicemente sospensive dei conflitti. • Ius in bello. Con tale locuzione si allude alle norme che

disciplinano i comportamenti che debbono essere tenuti in costanza di una guerra; almeno in antico, massima era l’estensione del diritto di uccidere e pochissime

diritto romano, Rivista di Diritto Romano, IV, 2004, A. Petrucci, Corso cit., pp. 360-364.

14 Cic., De republica 3.23.35 e Cic., De off. 1.11.36.

15 T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, vol. III, Leipzig 1888, pp.

341 ss.

(13)

12

erano le regole che si imponevano. In epoca successiva si ebbero dei temperamenti, di natura morale più che giuridica, alle possibili condotte del miles, maturati sotto l’influsso delle elaborazioni della filosofia etica greca e, in particolare, delle dottrine stoiche.

3. Il ruolo del Senato nella gestione dei rapporti internazionali

Le magistrature di epoca repubblicana erano annuali: il

carattere transitorio e la durata relativamente breve dell’ufficio fecero sì che la gestione dei rapporti internazionali fosse

diretta soprattutto dal Senato, organo permanente e

particolarmente autorevole. L’alta assemblea rappresentava la classe sociale dominante del regime aristocratico romano, dapprima i patrizi e poi, a seguito dell’ascesa al potere degli esponenti più agiati della plebe, la nobilitas patrizio-plebea. Un intervento senatorio era necessario per il compimento di quasi tutti gli atti di diritto internazionale:

• il senato riceveva ambasciate e legazioni straniere, • nominava i legati da inviare all’estero per stringere

alleanze o pretendere l’adempimento dei trattati, • autorizzava i trattati internazionali,

• eventualmente respingeva gli accordi contrattati dal comandante militare sul campo (con la conseguente

deditio dello stesso al nemico),

• inviava commissioni composte di senatori (solitamente di 10 membri) per collaborare con il comandante

militare alla predisposizione dei trattati17.

(14)

13 4. Il foedus

In origine il termine foedus designava un atto che si

presentava come “contenitore formale”18 con cui era possibile

regolamentare una grande varietà di rapporti. L’atto, oltre ad avere natura giuridica, aveva anche un contenuto religioso, essendo connotato da un giuramento di esecrazione indirizzato al dio Giove; a porlo in essere era il collegio dei feziali, secondo il procedimento riportato da Livio con riferimento al trattato concluso tra Roma e Albalonga all’epoca

di Tullo Ostilio19. La procedura si componeva di due fasi; nella

prima:

• il feziale verbenarius verificava il iussum

foederis feriendi (l’ordine di concludere il

trattato) del rex,

• gli chiedeva il permesso di raccogliere l’erba sacra e il rex lo concedeva (“puram tollito”). L’erba sacra (sagmina) era raccolta ex arce (dalla rocca cioè sul Campidoglio);

• il re investiva il feziale a nuntius Populi

Romani Quiritium.

Nella seconda fase:

il feziale investito sceglieva all’interno del collegio il pater

patratus, sempre con l’erba sacra,

il pater patratus declamava il longum carmen, la formula

rituale di cui Livio non ci tramanda il contenuto (“non

operae est referre”),

leggeva il trattato,

18 G. Turelli, Audi Iuppiter, Milano 2011, p. 55.

19 Liv. Ab Urbe condita 1.24.3-9 (ritiene che sia il più antico foedus

(15)

14

▪ procedeva al giuramento esecratorio20 a Giove e, infine,

porcum saxo silici [percutebat] (sacrificava un maiale con

un colpo di selce). Così il foedus era concluso.

Quello finora descritto è il procedimento per la conclusione del

foedus in età monarchica; con il passaggio alla forma

repubblicana, si assistette alla sostituzione del rex con il magistrato cum imperio (console o dittatore), ma, almeno dal III secolo a. C., ebbe luogo una graduale semplificazione della procedura, di cui furono spesso fautori gli stessi feziali. Divenuto orami desueto, il rito feziale fu impiegato da Ottaviano per dichiarare guerra a Cleopatra, in una prospettiva tutta augustea di recupero delle antiche tradizioni

romane21, e la conclusione di un foedus con intervento dei

feziali è attribuita anche a Claudio, benché, a differenza della scelta di Augusto, si tratterebbe di una stravaganza tipica del carattere di erudito un po' pedante del Principe. Il significato originario del lemma foedus appare del tutto travisato in un

passo22 di Claudio Trifonino (giurista dell’epoca dei Severi) per

il quale esso starebbe a designare ogni accordo determinante

20 Liv. Ab Urbe condita, 1.24. 7-9. “[7] Legibus deinde recitatis

“audi,” inquit, “Iuppiter, audi, pater patrate populi Albani, audi tu, populus Albanus. ut illa palam prima postrema ex illis tabulis cerave recitata sunt sine dolo malo utique ea hic hodie rectissime intellecta sunt, illis legibus populus Romanus prior non deficiet. [8] si prior defexit publico consilio dolo malo, tum tu ille Diespiter4 populum Romanum sic ferito ut ego hunc porcum hic hodie feriam; tantoque magis ferito quanto magis potes pollesque.” [9] id ubi dixit, porcum saxo silice percussit. sua item carmina Albani suumque ius iurandum per suum dictatorem suosque sacerdotes peregerunt”.

21 E. Bianchi, Augusto e l’utilizzazione carismatica delle tradizioni

religiose. Una contestualizzazione frammentaria, in Studi su Augusto in occasione del XX centenario della morte, G.Negri-A.Valvo, a cura di, Torino 2016 p. 48.

(16)

15

la fine dello stato di guerra e riguardante la sorte degli schiavi

di guerra23.

Quanto ai profili di competenza interna, in epoca monarchica l’impulso era dato dal re, forse già con la partecipazione del senato. In età repubblicana divenne necessaria anche una decisione del popolo (IV secolo a. C.).

Il foedus era, come la sponsio, una promessa verbale, con la particolarità tuttavia di avere un intimo legame (forse anche

etimologico24) con la fides: “il giuramento [interveniva] quindi

per garantire la fides, la quale di per sé produceva un vincolo etico-sociale, non religioso, e trasformarla in un obbligo verso gli dei”25.

Già Tito Livio procedette a una classificazione dei foedera e proprio una simile operazione rende palese l’evoluzione del

foedus, che, almeno nella percezione linguistica, vide

l’identificazione della forma col contenuto: “[7] Esse autem tria

genera foederum, quibus inter se paciscerentur amicitias civitates regesque: unum, cum bello victis dicerentur leges; ubi enim omnia ei qui armis plus posset dedita essent, quae ex iis habere victos quibus multari eos velit, ipsius—ius atque arbitrium esse; [8] alterum, cum pares bello aequo foedere in pacem atque amicitiam venirent; tunc enim repeti reddique per conventionem res et, si quarum turbata bello possessio sit, eas aut ex formula iuris antiqui aut ex partis utriusque commodo componi; [9] tertium esse genus cum, qui numquam hostes fuerint, ad amicitiam sociali foedere inter se iungendam coeant;

23 F. Grelle, Diritto e società nel mondo romano, Roma 2005, p. 331. 24 Varro, De lingua Latina 5.86.

(17)

16

eos neque dicere nec accipere leges; id enim victoris et victi esse.”26 Quindi si distinguono:

• foedus iniquum, che si ha quando il vincitore in guerra detti le condizioni al vinto (condizioni che il vinto deve accettare);

• foedus aequum, che si ha quando, pur essendovi stata una guerra, nessuna delle parti abbia prevalso e “in

pacem atque amicitiam [veniant]” (stringono rapporti di pax atque amicitia);

• Foedus sociale ad amicitiam inter se iungendam, che si ha tra coloro che, senza un previo conflitto, vogliano stabilire relazioni amichevoli.

Petrucci27, pur non contestando la validità di tale ripartizione,

ne sottolinea il carattere eccessivamente schematico rispetto alla natura multiforme delle relazioni internazionali dell’antichità. Aderendo a questa classificazione è, nondimeno, possibile inquadrare (pur con inevitabili margini di approssimazione) la sostanza del rapporto sottostante ai vari

foedera.

5. L’hospitium

L’hospitium è forse la più antica forma di rapporto internazionale conosciuta dal diritto romano, le cui origini sono avvolte dalle nebbie del tempo e oggetto di un aspro dibattito. Sicuramente esso ebbe una sua pratica utilità prima dello svilupparsi dello ius gentium (dal III secolo a. C., ricordando che l’istituzione del praetor peregrinus risale agli anni conclusivi della prima guerra punica e, più precisamente,

26 Liv. Ab Urbe condita 34.57.7-9. 27 A. Petrucci, Corso cit., pp. 323-324.

(18)

17

al 242 a. C.28), avendo tratto origine secondo alcuni 29 dalla

prigionia di guerra, secondo altri30 -e questa è l’opinione

prevalente in dottrina- dalle esigenze del commercio

internazionale. Capogrossi Colognesi31, partendo dal

presupposto di una originaria chiusura e ostilità della comunità verso l’esterno, sostiene che l’istituto in esame si sarebbe progressivamente originato sotto l’azione mitigatrice della religione e che, inizialmente, ne sarebbero stati destinatari i gruppi gentilizi. È certo che, a seguito

dell’affermarsi dello ius gentium32 e della sua progressiva

assimilazione con la clientela internazionale33 e con l’amicitia,

l’istituto de quo assunse contorni sempre più incerti34

L’hospitium35 ha generalmente come contenuto il ius

commercii, il conubium, la concessione di doni (munera o dona), l’alloggiamento (loca), e l’ospitalità in genere (lautiaque),

la protezione in eventuali giudizi, l’assistenza in caso di

malattia e la sepoltura in caso di morte36 .

28 Così Petrucci, Corso cit. p. 390, F. Arcaria-O. Licandro, Diritto

romano: I- Storia costituzionale di Roma, Torino 2014, p. 136.

29 E. Täubler, Imperium romanum, Leipzig 1913 pp. 402 ss.

30 A. Petrucci, Corso., p. 334, F. De Martino, Storia cit., p. 23, L.

Solidoro Maruotti, Sulla condizione giuridica dello straniero nel mondo romano, online, p. 2.

31 L. Capogrossi Colognesi, Storia di Roma tra diritto e potere,

Bologna 2014, p. 285.

32 Corpo di istituti fruibili sia da romani che da stranieri a

prescindere dall’hospitium.

33 Istituto derivante da una norma consuetudinaria per cui il

comandante militare nelle cui mani avveniva la sottomissione, diveniva patronus del popolo sottomesso con conseguente rapporto di clientela sul modello di quella privata come evidente in Cic, De off. 1.11.35. si tratta di un costume che coinvolgerà lo stesso Cesare e altri leaders dell’ultima età repubblicana.

34 A. Petrucci, Corso cit., p. 336.

35 Il termine è stato accostato alla radice di hostis, nel suo originario

significato neutro di straniero, Serv. Ad Aen. 4.424.

36 Secondo Franciosi nel rispetto del rito funebre dello straniero,

(19)

18

Da Livio37 si ricavano alcuni dati interessanti:

• l’hospitium si costituiva per volontà delle parti, • occorreva in ogni caso un senatoconsulto,

• e la forma era in origine quella orale (successivamente invalse l’uso di ricorrere all’atto scritto).

La concessione dell’hospitium era perenne, salva rinuncia, e neppure la guerra era un fatto estintivo di essa.

Si distinguono:

1. hospitium publicum: coinvolgeva la respublica, da un

lato, e un’intera comunità, dall’altro;

2. hospitium privatum: riguardava la respublica romana e un privato (significativi i casi della concessione a

Timasiteo38 e al macedone Onesimo39).

La concessione avveniva con foedus (quindi anche con deliberazione senatoria) o con semplice senatoconsulto, ed era assolutamente vincolante per tutti i cives Romani. Solitamente l’hospitium publicum era concesso con un trattato mentre

l’hospitium privatum con il solo senatoconsulto.

6. L’amicitia

L’amicitia generava un rapporto più stretto rispetto al vincolo

nascente dall’hospitium, tanto che si è sostenuto40 che la

concessione dell’una implicasse l’altro. La questione è ancora discussa, però il SC de Asclepiade Clazomenio sociisque (Sc de

37 Liv. Ab Urbe condita 5.28.5 “hospitium cum eo senatusconsulto

factum donaque public data” e 25.18,4-10 e 30.13.8 e 44.16.7.

38 Liv. Ab Urbe condita 5.28. 5. 39 Liv. Ab Urbe condita 44.16.7.

40 G. Franciosi, Corso storico cit., p. 127, F. De Martino, Storia cit.,

(20)

19

tribus navarchis o Lutatianum41, del 78 a. C.) sembrerebbe

confermare questa tesi, per quanto si tratti di fonte relativamente recente; in ogni caso, almeno negli ultimi secoli della repubblica, si nota una pressoché totale assimilazione dei vincoli di hospitium e amicitia.

L’amicitia poteva nascere sine foedere o ex foedere, cioè in forza di un trattato che determinava in modo più preciso e

formale lo stato de rapporti42. Nel primo caso, l’istituto si

configurava come uno stato di buone relazioni esprimentisi

nella conservazione della pace e di rapporti diplomatici43:

• le parti si impegnavano a mantenere una pia et aeterna

pax,

• a rispettare le proprietà degli altrui cittadini, • e a liberarli, se venuti in loro possesso.

Nel secondo caso, il trattato costituiva un’attualizzazione e una puntualizzazione della relazione generalmente già esistente (foedus amicitiae causa); oltre ai predetti vincoli, i contraenti assumevano ulteriori obblighi, variabili a seconda dei casi. Soprattutto, gli Stati con cui era stato concluso un

foedus amicitiae causa erano iscritti nella formula amicorum populi Romani.

L’amicitia in ogni caso si distingueva dalla societas44 militare,

giacché l’una mirava a creare una “neutralità attiva”45 mentre

41 P. Lepore, Introduzione allo studio dell’epigrafia giuridica latina,

Milano 2010, pp. 40-41.

42 Così A. Petrucci, Corso cit., pp. 336-337 e F. De Martino, Storia

cit., pp. 29-33. Una concessione solo con foedus è sostenuta da Franciosi, Corso storico cit., p. 127.

43 F. De Martino, Storia cit., p. 30. 44 O συμμαχία.

(21)

20

l’altra implicava un sostegno militare al socius46, mediante

fornitura di contingenti e/o navi (alcuni tuttavia non

intravedono questa distinzione47).

Era possibile accordare la qualità di amici anche ai privati, come nel già ricordato caso del SC de Asclepiade Clazomenio

sociisque: ai tre navarchi greci (Asclepiade, Menisco e

Polistrato) che avevano ben meritato nella guerra italica, si dava la qualifica di viri boni et amici, prevedendo

a) la loro iscrizione nella formula amicorum,

b) e la comunicazione alle magistrature locali delle regioni di provenienza dei tre e al questore urbano per il diritto

di ospitalità48.

7. La guerra

Le regole della dichiarazione di guerra risalgono

probabilmente alla prima età regia49 e determinavano il

carattere “iustum atque pium” del bellum; di conseguenza la loro inosservanza importava che la guerra fosse “ingiusta” (ut

omne bellum, quod denuntiatum indictum non esset, id iniustum esse atque impium iudicaretur)50 nel senso di non

conforme al diritto51.

Il procedimento subì una semplificazione nella fase dell’espansione romana fuori dall’Italia, quando la Respublica si trasformò in grande potenza mediterranea. Ciò si verificò

46 O σύμμαχος.

47 G. Franciosi, Corso storico cit. p. 127. 48 A. Petrucci, Corso cit., pp. 337-338.

49 Cic. De re publica 2.17.13 le riconduce a Tullo Ostilio, Liv. Ab

Urbe condita 1.32.5 ad Anco Marcio.

50 Cic. De re publica 2.17.13.

51 Della controversia sulla teoria della giustificazione morale della

guerra formulata sulla base del termine iustum, si è già trattato nella sommaria introduzione ai rapporti internazionali.

(22)

21

soprattutto in ragione delle inedite estensioni territoriali con cui i Romani dovettero fare i conti, ma anche in forza una progressiva laicizzazione del diritto.

• Periodo monarchico e primi secoli della repubblica. Livio ci fornisce la panoramica più completa delle pratiche sia

giuridiche che rituali del procedimento52. Prima

dell’apertura delle ostilità si svolgeva la clarigatio, la prima fase in cui i feziali facevano conoscere al popolo avversario le richieste romane. Il termine risultava già oscuro per Quintiliano (opus est aliquando finitione

obscurioribus et ignotioribus verbis, quid sit clarigatio

[…])53 e la figura risulta piuttosto enigmatica54. Si può,

tuttavia, sostenere che nucleo essenziale di essa era la

rerum repetitio: il pater patratus si recava al confine del

territorio del nemico e proclamava le richieste di Roma e

pronunciava una esortazione a Giove, ai fines55 e al fas,

di prestare attenzione alle sue parole, specificando la sua veste di nuntius populi Romani. Seguiva l’exsecratio (“inde Iovem testem facit: si ego iniuste impieque illos

homines illasque res dedier posco, tum patriae compotem me numquam siris esse”56), consistente nella

maledizione, rivolta dal pater patratus contro di sé, che aveva come conseguenza l’esclusione della comunità di appartenenza, in caso di ingiustizia delle richieste di

parte romana57. L’atto era ripetuto all’imbattersi nel

primo straniero oltre i confini e una volta che il feziale

52 Liv. Ab Urbe condita 1.32.6-14. 53 Quint. Institutiones 7.3.13.

54 A. Calore, Forme giuridiche del “bellum iustum”, Milano 2003 p.

60.

55 “confini”.

56 Liv. Ab Urbe condita 1.32.7.

57 A. Calore, Forme giuridiche cit., p., 65 ss. sembra evidenziare una

(23)

22

avesse raggiunto il foro del nemico. Trascorsi trentatré

giorni (diebus tribus et triginta peractis, bellum indicit)58

senza soddisfacimento delle richieste, il pater patratus recitava: “Audi, Iuppiter, et tu, Iane Quirine, diique omnes

caelestes, vosque terrestres, vosque inferni, audite: ego vos testor populum illum” — quicumque est, nominat — “iniustum esse neque ius persolvere. Sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus, quo pacto ius nostrum adipiscamur”59, dichiarazione che era preliminare alla

dichiarazione di guerra. La fase appena descritta ha nome testatio. Rientrato il capo dei feziali a Roma, si svolgeva una fase politica interna all’esito della quale si decideva se aprire o meno le ostilità. Se il rex otteneva il consenso alla guerra dalla maggior parte dei senatori, si faceva luogo alla vera e propria dichiarazione, perfezionata con il rito dell’emittere hastam. Con la necessaria presenza di tre testimoni puberi (ovviamente maschi), il pater patratus scagliava in territorio ostile una particolare lancia, con voce stentorea proclamando “quod populi Priscorum Latinorum hominesque Prisci

Latini adversus populum Romanum Quiritium fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit esse senatusque populi Romani Quiritium censuit, consensit, conscivit, ut bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico facioque”60.

58 Liv. Ab Urbe condita 1.32.9; ma per Petrucci, Corso cit., p. 353 i

giorni sono 30 come risulta anche da Dionys. 2.72.8 e da altro passo di Livio, Liv. Ab Urbe condita 1.22.5.

59 Liv. Ab Urbe condita 1.32.10. 60 Liv. Ab Urbe condita 1.32.13

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23

• Età dell’espansionismo mediterraneo. In questa fase la

rerum repetitio si svincola dalle rigidità della forma

feziale e può precedere o anche accompagnarsi alla dichiarazione di guerra; la testatio viene a coincidere con l’indicere bellum e l’emittere hastam si svolge, per impossibilità logistica di fare diversamente, in una porzione di territorio presso il tempio di Bellona (ager

quasi hostilis), per poi cadere in desuetudine molto

presto. Lo stesso Ottaviano vi ricorre, nell’ambito della sua politica di restaurazione degli antichi fasti e delle tradizioni romane, per la dichiarazione di guerra contro Cleopatra: la scelta del futuro Augusto fu assunta

peraltro a fini politici più che giuridici61.

8. La sponsio

La sponsio era una promessa verbale che veniva conclusa dal comandante militare romano (cum imperio) secondo una formula tramandata da Livio a proposito delle vicende relative

alla pax Caudina (321 a. C.)62. Ponzio, duce dei Sanniti,

intendeva concludere un foedus, ma ciò non era possibile per l’assenza dei feziali; il console Postumio dunque, si impegnò

personalmente verso il Sannita con una sponsio,

sostanzialmente analoga alla sponsio privata63: fecero la

promessa lui stesso, gli altri magistrati e gli ufficiali maggiori di grado (sponderunt consules, legati, quaestores, tribuni

militum […]). In attesa della conclusione del foedus, furono

consegnati come ostaggi seicento cavalieri (obsides etiam

sescenti equites imperati qui capite luerent, si pacto non staretur). Questa precauzione serviva per assicurare che

61 A. Petrucci, Corso cit., pp. 359-360. 62 Liv. Ab Urbe condita 9.5.1-5.

(25)

24

l’affare andasse in porto, quasi come compensazione per

l’assenza delle garanzie dello ius fetiale64. Alla domanda

“foedus ictum iri spondes?” seguiva la risposta “spondeo”65.

Quanto agli effetti, la sponsio vincolava sicuramente il comandante romano a titolo personale, mentre più complessa è la questione dell’efficacia verso la respublica. Illuminante può risultare la sorte della sponsio di Postumio che non fu “ratificata” dal Senato. Si optò quindi per l’abbandono nossale del colpevole al nemico offeso, fatto da cui si inferisce che la sponsio era valida e costituiva un’obbligazione in capo allo

sponsor (il povero Postumio). Secondo De Martino, “l’avere contratto una sponsio internazionale e l’essersi trovati nell’impossibilità di adempierla veniva considerato come un delitto, per liberarsi dalla responsabilità del quale occorreva abbandonare il colpevole”66. Lo Stato romano quindi non era

vincolato al contenuto delle clausole della promessa verbale, ma era comunque legato dal fatto che un organo di governo si era impegnato con il nemico.

Si potrebbe affermare quindi che la sponsio assumeva la natura -per quanto grossolano e impreciso possa apparire il paragone-di contratto preliminare per la futura conclusione del foedus.

9. Le indutiae

Indutiae sunt belli feriae si legge in Aulo Gellio67. Si può far

riferimento alle indutiae con la formula sintetica di “tregua

64 A. Magdelain, Jus imperium auctoritas, Études de droit romain,

Rome 2015, p. 717.

65 Gai. 3.94 riporta la formula diversamente: “pacem futuram

spondes?”.

66 F. De Martino, Storia cit., p. 42. 67 Gell. Noctes Atticae 1.25.1.

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25

delle armi”68; si tratta di uno stato di sospensione delle

ostilità69 che preludeva a un tentativo di soluzione della crisi o

serviva semplicemente a ottenere del tempo prezioso per operare riassestamenti militari. La durata della tregua poteva variare da pochi giorni a molti anni, come per le indutiae

quarantennali con l’etrusca Veio del 474 a. C.70 o quelle

ventennali con Volsinii (l’odierna Bolsena) del 392 o 391 a.

C.71, anche se il De Martino, con un’accurata analisi delle

fonti annalistiche, dubita dell’effettiva esistenza di tregue di

molti anni72, che potessero essere sostitutive di una vera e

propria pace. Tuttavia, nel periodo dell’espansione in Italia, le fonti tramandano con troppa frequenza il ricorso alle indutiae in luogo di foedera per poter liquidare come sviste e o fraintendimenti tutti i richiami a tregue alternative ai trattati. Sul piano della competenza interna, la decisione di giungere a una tregua era presa dagli stessi organi chiamati a deliberare il foedus (il comandante militare, il senato e, successivamente,

anche i comizi). Alcuni73 distinguono tra:

• tregue di breve durata, motivate soltanto da esigenze militari e concluse dal comandante sul campo, e

• tregue con termini lunghi, decise dal comandante militare e dal senato (successivamente anche dal popolo).

La parte che chiedeva le indutiae solitamente doveva mantenere le truppe del nemico e, soprattutto se si

68 F. De Martino, Storia cit., p. 63.

69 L. Aigner Foresti, Antichità classica, Milano 1993, pp. 210-211,

voce “foedera”.

70 Liv. Ab Urbe condita 2.54.1. 71 Liv. Ab Urbe Condita 5.32.5.

72 F. De Martino, Storia cit., pp. 64-65. 73 E. Täubler, Imperium cit., pp. 29 ss.

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26

interrompevano le ostilità in vista di una composizione pacifica, accettare condizioni più gravose, anche se non esiste un catalogo chiuso di esse (poteva trattarsi di un obbligo di corresponsione di indennità o della consegna di ostaggi a garanzia della tregua); a titolo di esempio è possibile citare la tregua che fu stipulata tra Romani e Cartaginesi nell’ottobre del 203 a. C.

Per la conclusione dell’accordo ci si serviva di uno o più legati che recavano la proposta presso i castra del nemico, dando inizio alla fase della trattativa. Le attività diplomatiche determinavano un’interruzione delle operazioni militari: non si trattava però ancora della tregua vera e propria ma di una situazione di fatto prodromica a quest’ultima.

10. La deditio

La deditio determinava un mutamento di stato giuridico della comunità dedita che si poneva transitoriamente nel completo potere dello Stato romano (venivano trasferiti tutti gli elementi della sovranità, sia quelli civili che quelli religiosi, i sacra); la

respublica successivamente decideva del destino della

collettività in suo potere, che poteva mantenere la propria autonomia, venendo costituita in municipium, o essere sciolta.

Il negozio aveva natura contrattuale74 di promessa verbale; il

comandante militare cum imperio in un primo momento dettava le condizioni, che poi dovevano essere confermate dal

Senato (e dal popolo in caso di erezione di un municipio)75.

Pur nell’evidente similitudine con la sponsio, ci sono alcune differenze quanto agli effetti giuridici:

74 Di contratto verbale.

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27

1. nella sponsio, dal negozio nasceva un’obligatio da cui era sempre possibile liberarsi adempiendo (solutio), 2. nella deditio, all’atto seguiva un radicale mutamento

dello stato giuridico della civitas dedita e non l’assunzione di un’obbligazione.

Al contratto si poteva pervenire all’esito di un conflitto o senza che fosse stata combattuta alcuna guerra ed esso poteva essere concluso in dicionem o -ma solo in tempi più recenti- in

fidem. Con la deditio in dicionem la consegna e il successivo

destino della comunità in potestate romanorum erano rimessi

alla discrezione dei Romani76, mentre con la deditio in fidem si

impegnava la fides romana, circostanza che garantiva un trattamento più favorevole.

(29)

28

Capitolo II

Il primo trattato tra Roma e Cartagine

1. Il contesto storico

La principale (ma non unica) fonte letteraria relativa al primo trattato tra Roma e Cartagine, lo storico Polibio, trattando della guerra annibalica si profonde in un lungo excursus sui precedenti rapporti tra le due potenze mediterranee (“[…] è

bene che non manchino notizie sicure delle reciproche obbligazioni fra Romani e Cartaginesi fino ai tempi nostri”77). Lo

storico acheo colloca il primo trattato nell’ultimo decennio del VI secolo a. C., servendosi di tre riferimenti per la datazione:

• il consolato di Lucio Giunio Bruto e Marco Orazio, • la consacrazione del tempio di Giove Capitolino,

• e l’affermazione che la stipula dell’accordo precedette di

28 anni il passaggio di Serse in Europa78.

Se della collocazione temporale del trattato ci si occuperà più avanti, una breve anticipazione è d’uopo per inquadrare l’epoca storica cui ci si riferisce, l’età del passaggio dalla forma monarchica a quella repubblicana della respublica,

tradizionalmente datato 509 a. C.79. Un analogo

sconvolgimento interessò molte delle realtà greco-italiche di

cui parlano le fonti80, anche se peculiari e avvolte ancora da

incertezze risultano le modalità con cui ciò si verificò a Roma. Le celebri vicende della cacciata dei Tarquini ad opera di Marco Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino, a seguito della violenza di Sesto Tarquinio su Lucrezia, se certamente hanno ispirato una certa visione della prima repubblica tra

77 Polyb. 3.21.10, trad. di C. Schick, Storie di Polibio, Milano 1970,

p. 185.

78 Polyb. 3.22.1-2.

79 Circa 10-15 anni dopo la battaglia di Aricia.

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29

antichi e moderni, sono verosimilmente il frutto di rielaborazioni successive, per quanto non si possa escludere che siano il riflesso di reali dinamiche: “i Romani avevano un

ricordo vivo della fine della monarchia con la cacciata di Tarquinio e, se pure la loro tradizione era abbellita di leggende, non si può asserire frettolosamente che essa sia senz’altro falsa” ebbe a scrivere il celebre Arnaldo Momigliano81. Certo è

che, nell’ultima porzione del secolo VI a. C., Roma era governata da un’élite etrusca (i Tarquini) ed aveva conosciuto una notevole espansione commerciale, divenendo quella che il

filologo Giorgio Pasquali82 definì la “grande Roma dei

Tarquini”, una società mediterranea con caratteristiche anacronisticamente definibili come borghesi e proto-capitalistiche. L’egemonia tusca su Roma si inquadra in un’espansione commerciale, politica e militare delle poleis etrusche culminata con una loro alleanza con la già emergente Cartagine, in chiave antiellenica; i Greci (Focesi), colonizzatori di Massalia e di alcune realtà iberiche, furono battuti dagli alleati presso Alalia (intorno al 545 a. C.), perdendo il controllo

della Corsica e la libertà di navigazione sul mar Tirreno.83

Lo splendore etrusco fu tuttavia di breve durata: circa un ventennio dopo la vittoria di Alalia, i Cumani (Greci) sconfissero gli Etruschi e ciò diede inizio alla loro definitiva decadenza. In questa fase discendente dello sviluppo etrusco si colloca la fine della monarchia e la liberazione di Roma dall’influenza “straniera”: si trattò probabilmente di una rivoluzione dell’aristocrazia, che mal aveva sopportato il prosperare dei nuovi ceti mercantili e la crescita demografica

81A. Momigliano, Manuale di storia romana, Torino 2011, p. 22. 82 G. Pasquali, La grande Roma dei Tarquini, in “Nuova Antologia”

del 16 agosto 1936, Roma, pp. 405-416.

83M. A. Levi-P. Meloni, Storia romana dalle origini al 476 d. C.,

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30

di elementi estranei alle gentes originarie. I patres, infatti, erano espressione di una società (dai tratti spiccatamente indoeuropei) avente come pilastro la proprietà fondiaria, retta da un’economia chiusa: l’affermazione di elementi “borghesi”, il peso assunto dalla ricchezza mobile e il mutamento più generale del sistema economico avevano offuscato l’antico ordine gerarchico.

Cacciati i reges, “probabilmente si inizia un periodo molto

difficile per Roma che, isolata dai rapporti mercantili con il Mezzogiorno ellenico della penisola, non ha più i proventi che le permettevano di alimentarsi e deve sostituire un’economia agricola e pastorale a quella di scambio84”.

Polibio85 colloca proprio in questo periodo il trattato della

neonata Repubblica con Cartagine, di certo più favorevole a quest’ultima a causa della disparità di potere contrattuale tra i due paciscenti; la potenza marinara si era già consacrata a quella vocazione espansionistica che ha fatto parlare in proposito di imperialismo commerciale o anche di

imperialismo riluttante, una forma di espansione in cui la

conquista era “finalizzata alla tutela dei traffici e degli scambi

senza assurgere al disegno di un impero organico e senza definirne le strutture indispensabili”86. Roma, al contrario,

appena conclusa l’esperienza monarchica, subiva un arretramento politico ed economico che la catapultava indietro nel tempo di quasi un secolo, all’epoca degli ultimi monarchi di stirpe non etrusca.

Questa disparità tra le due parti del trattato ha fatto dubitare alcuni studiosi dell’autenticità dello stesso: ci si è chiesti “why

84 Levi-Meloni, Storia, p. 21 85 Polyb. 3.22.3.

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31

the Carthaginian empire would waste its time with a small city-state on the Tiber ?”87e si sono seguiti Diodoro88 e Livio89 nel

datare il primo accordo tra Roma e Cartagine attorno alla metà del IV secolo a. C. Tuttavia, Serrati, oltre a ritenere affidabile la datazione polibiana, ventila l’ipotesi (pur definita

a remote possibility at least90) di accordi di età regia con la

colonia tiria91 e fa presenti i vantaggi e il bisogno che la

respublica aveva di un trattato che disciplinasse il commercio

e, soprattutto, l’importazione di grano dalla Sicilia, a seguito della rottura dell’equilibrio tirrenico garantito dall’egemonia etrusca.

Occorre poi segnalare che Cartagine ebbe numerosi contatti con le città etrusche della costa, come testimoniano le Lamine auree di Pyrgi, un testo bilingue etrusco-punico relativo alla consacrazione di un tempio alla dea cananea Astarte da parte di Thefarie Velianas92, e il nome Punicum dato

all’insediamento portuale che sorgeva presso l’odierna Santa Marinella. Questo fatto potrebbe essere un segnale dell’interesse cartaginese per la regione tirrenica e, in tale contesto, ben si collocherebbe un accordo con il neonato Stato romano repubblicano.

87 J. Serrati, Neptune’s Altars: the treaties between Rome and

Carthage, Classic Quarterly 2006, p. 115.

88 16.69.1. 89 7.27.2.

90 J. Serrati, Neptune’s Altars cit, p. 118.

91 Cartagine infatti era, in origine, una colonia della fenicia Tiro. 92 «Alla signora Astarte questo sacello ha fatto e donato Tiberio

Velianio re di Cere, nel mese di Zebah, come dono nel tempio e nella cella, perché Astarte ha favorito il suo fedele, nel terzo anno del suo regno, nel mese di KRR, nel giorno della sepoltura della divinità. E gli anni della statua della divinità siano tanti quanti (sono) gli astri». Traduzione dalla versione fenicio-punica di Massimo Pittau, Tabula Cortonensis, Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e commentati, Sassari 2000, pp. 51-52.

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32

2. Il testo del trattato in Polibio e le altre fonti

Dopo aver sottolineato la necessità di approfondire la natura e le vicende dei rapporti passati tra Roma e Cartagine, Polibio inizia dal primo accordo:

“I primi accordi tra Roma e Cartagine risalgono al consolato di L. Giunio Bruto e Marco Orazio, i primi consoli istituiti dopo la caduta dei re, sotto i quali avvenne anche la consacrazione del tempio di Giove Capitolino. [2] Questo avvenne ventotto anni prima che Serse passasse nella Grecia. [3] Li ho trascritti, dopo averli tradotti il più precisamente possibile: c’è infatti una tale differenza presso i Romani tra la lingua di ora e quella arcaica che anche le persone più istruite alcune cose possono spiegarle a fatica con grande impegno.

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33

[4] Gli accordi sono più o meno questi: “a tali condizioni vi sia amicizia tra i Romani e i loro alleati e i Cartaginesi e i loro alleati: [5] I Romani e i loro alleati non navighino [con navi lunghe]93 al di là del Promontorio Bello, a meno che non vi siano

costretti da una tempesta o da nemici. [6] Se qualcuno vi fosse portato per forza maggiore, non gli sia consentito né vendere, né acquistare alcunché, ad eccezione di ciò che gli è indispensabile per riparare la nave o per compiere un sacrificio, [7-8] ed entro cinque giorni riparta. Per coloro che vengono per commercio, nessun contratto abbia valore se non in presenza di un banditore o di un segretario, [9] e il prezzo di tutto ciò che venga venduto alla presenza di questi, sia assicurato al venditore da pubblica garanzia, se la vendita avviene in Libia o in Sardegna. [10] Se un Romano arriva nella parte della Sicilia che si trova sotto dominio cartaginese, egli goda in tutto diritti uguali ai Cartaginesi. [11] I Cartaginesi non rechino alcun torto alle popolazioni di Ardea, Anzio, Laurento, Circei, Terracina, né ad alcun altro popolo latino soggetto (ai Romani). [12] Quanto a quelli non soggetti (ai Romani), (i Cartaginesi) si tengano lontani dalle loro città. Nel caso che ne prendano qualcuna, la consegnino intatta ai Romani. [13] Non costruiscano (i Cartaginesi) fortificazioni nel Lazio. Qualora entrino nel territorio come nemici, non vi trascorrano la notte.94

a) La datazione stando alle fonti

Con la datazione di Polibio (507 o, secondo alcuni95, 509 a.

C.), Livio e Diodoro non concordano: entrambi collocano il primo trattato tra Roma e Cartagine nel 348 a. C.

93 I commentatori hanno aggiunto ᾶις  (con navi lunghe). 94 Trad. di B. Scardigli, I trattati romano-cartaginesi, Pisa 1991, pp.

53-54.

95J. Serrati, Neptune’s Altars cit., pp. 114 ss., G. Brizzi, Cartagine e

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34

Diodoro usa come riferimento temporale il nome dell’arconte eponimo ateniese (Licisco) e, ad uso del lettore romano, quello dei consoli (Marco Valerio Corvo e Marco Popilio Lenate):

“ἐπ᾽ ἄρχοντος δ᾽ Ἀθήνησι Λυκίσκου Ῥωμαῖοι κατέστησαν ὑπάτους Μάρκον Οὐαλέριον καὶ Μάρκον Ποπίλιον, Ὀλυμπιὰς δ᾽ ἤχθη ἑκατοστὴ καὶ ἐνάτη, καθ᾽ ἣν ἐνίκα στάδιον Ἀριστόλοχος Ἀθηναῖος. ἐπὶ δὲ τούτων Ῥωμαίοις μὲν

πρὸς Καρχηδονίους πρῶτον συνθῆκαι ἐγένοντο96.”

Sulla stessa linea si muove Livio e, facendo prima riferimento ai supremi magistrati M. Popilio Lenate e M. Valerio Corvo, scrive:

[2] eodem anno Satricum ab Antiatibus colonia deducta

restitutaque urbs quam Latini diruerant. et cum

Carthaginiensibus legatis Romae foedus ictum, cum

amicitiam ac societatem petentes venissent97.

Una fonte molto più tarda, l’apologeta cristiano Paolo Orosio, fa riferimento al primo trattato tra Roma e Cartagine datandolo in modo simile a Livio e Diodoro:

“Numerandum etiam inter mala censeo, primum illud ictum cum Carthaginiensibus foedus, quod iisdem temporibus fuit: praesertim ex quo tam gravia orta sunt mala, ut exin coepisse videantur. Anno siquidem ab Urbe condita CCCCII legati a

Carthagine Romam missi sunt, foedusque pepigerunt98”.

Polibio fa ricorso a tre riferimenti, già menzionati, per inquadrare cronologicamente l’accordo:

antichi ai moderni, Bearzot-Landucci-Zecchini (a cura di), Milano 2005, p. 30 ss.

96 Diod. 16.69.1.

97 Liv. Ab Urbe Condita 7.27.2.

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35

• il consolato di L. Giunio Bruto e Marco Orazio (i primi istituiti post reges exactos-μετὰ τὴν τῶν βασιλέων κατάλυσιν, a detta dello storico di Megalopoli),

• la consacrazione del tempio di Giove Capitolino, e

• il passaggio di Serse in Grecia, avvenuto ventotto anni dopo la stipulazione.

Per spiegare la contemporaneità, professata da Polibio, tra la consacrazione del tempio di Giove Capitolino e i primi consoli istituiti dopo la cacciata dei Re (μετὰ τὴν τῶν βασιλέων κατάλυσιν) occorre un brevissimo cenno ai sistemi di datazione nel mondo romano. In Roma si usava la datazione ab Urbe

Condita, cioè dalla fondazione della Città Eterna (tradizionalmente il 21 aprile 753 a. C.), e quella post aedem

Capitolinam dicatam, cioè dalla consacrazione del tempio di

Giove sul Campidoglio. A quando risale questo evento, così importante da assurgere a riferimento per il conto degli anni (e non è certo estranea ai moderni l’idea che gli anni siano numerati a partire da un evento riguardato come decisivo e rivoluzionario, un fatto o un atto che muta, nella percezione di

una società, la direzione stessa della Storia99)? Con il nuovo

tempio si introdusse l’uso dell’affissione annuale di un clavus (annualis) nella cella di Minerva, al ricorrere della data della consacrazione, cioè le idi di settembre. Nel 304 a. C., l’edile

Gneo Flavio100 attestò la presenza di 204 clavi: “la Era

Capitolina se remontaba así, de una manera exclusiva al año 508 a.C. y de manera inclusiva –la propia de los Romanos– al año 507 a.C., dos años después de la expulsión de los reyes, si

99 A partire almeno dal secondo millennio dell’era volgare si

computano gli anni dalla nascita di Cristo, il messia della rivelazione giudaico-cristiana.

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36

atendemos a la tradición literaria101”. Secondo Espada

Rodríguez, la cui opinione pare condivisibile, i Fasti consulares possono ritenersi attendibili solo fino al 503 a. C. Il fatto che per Polibio non ci sia alcuno spatium temporis significativo tra la cacciata del re Tarquinio e la consacrazione del tempio di Giove Capitolino discende dalla circostanza che, nei secoli successivi, l’Annalistica, su questo punto seguita sia dallo storico acheo che da Livio, finì per rendere i due eventi sincronici. Polibio ricorre al συγχρονισμός anche per il suo valore letterario giacché, presso gli autori antichi, se ne usava per istituire paralleli tra accadimenti storici pregnanti di significato ma non direttamente correlati.

b) Alcune opinioni moderne sulla datazione

Il problema della datazione del primo trattato, appena illustrato sulla base delle fonti, ha visto molti influenti studiosi del recente passato scontrarsi. Ecco alcuni esempi delle opinioni discordanti:

• Theodor Mommsen nella Storia di Roma102 colloca il

foedus all’inizio dell’età repubblicana salvo poi adottare,

nell’opera “Die Römische Chronologie103”, una datazione

basata su Livio, e quindi sull’Annalistica romana, pensando al 348 a. C.;

• Beloch finisce per accettare la datazione “bassa” del IV

sec. a. C.104;

101 J. Espada Rodríguez, El primer tratado romano-cartaginés:

análisis historiográfico y contexto histórico, Valencia 2009, pp. 546-548.

102T. Mommsen, Storia cit.

103 T. Mommsen, Die Römische Chronologie, Berlin 1859, pp.

320-325.

104 K. J. Beloch, Der italische Bund unter Roms Hegemonie, rist. Rom

(38)

37

• Gaetano De Sanctis aderisce alle posizioni liviane, sostenendo che la conclusione del primo trattato

avrebbe avuto luogo nell’anno 348 a. C.105;

• Barbara Scardigli106 analizza puntualmente il contesto

storico relativo al trattato concluso dai primi consoli (secondo Polibio), optando per la datazione “alta” (507 a.C.);

• Piganiol ritiene che il primo trattato sia il secondo che Polibio ci riporta e che sia stato stipulato intorno al 348

a. C.107;

• Capogrossi Colognesi, constatando il valore “probatorio” delle lamine auree di Pyrgi, opta per la tradizionale collocazione del foedus agli albori della respublica (la

data tradizionale è il 509 a. C.)108;

• Serrao, sempre esaltando le implicazioni della scoperta delle suddette lamine auree, ritiene confermata la

datazione del 509 a. C.109

3. La struttura del trattato

Il testo polibiano contiene un iniziale inquadramento cronologico del trattato e spiega come l’Autore avrebbe provveduto, con l’aiuto di esperti, a tradurre l’arduo latino

arcaico in cui era redatto l’atto110.

105 G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. II, Firenze 1988, pp.

248-251.

106B. Scardigli, Trattati cit.., pp. 26-28

107 A. Piganiol, Le conquiste dei romani, Milano 2010, pp. 158-159. 108 L. Capogrossi Colognesi, In margine al primo trattato tra Roma e

Cartagine, in “Studi in onore di E. Volterra”, Milano 1971, pp. 171 ss.

109 F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella storia di

Roma, vol. 1, Napoli 1984, p. 29.

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La notazione di Polibio secondo cui “τηλικαύτη γὰρ ἡ διαφορὰ γέγονε

τῆς διαλέκτου καὶ παρὰ Ῥωμαίοις τῆς νῦν πρὸς τὴν ἀρχαίαν ὥστε τοὺς συνετωτάτους ἔνια μόλις ἐξ ἐπιστάσεως διευκρινεῖν111”, potrebbe fornire

un argomento a favore della datazione “alta” perché di certo un testo del IV a. C. non sarebbe risultato tanto enigmatico per “le persone più istruite” (τοὺς συνετωτάτους) del II secolo a. C.

Alla premessa segue il testo vero e proprio del trattato112, che

contiene:

1. indicazione delle parti113;

2. condizioni per i Romani114: divieti di navigazione,

disposizioni in caso di forza maggiore, prescrizione della invalidità dei contratti conclusi senza la necessaria presenza di un banditore o di un segretario (ἐπὶ κήρυκι ἢ

γραμματεῖ) e la pubblica garanzia, riconoscimento della parità di diritti per il Romano che si rechi nella Sicilia ἧς

Καρχηδόνιοι ἐπάρχουσιν (sotto il dominio cartaginese) e, secondo quanto riporta Polibio nel suo commento al

foedus115, a Cartagine;

3. condizioni per i Cartaginesi116: divieto di recare danno

ad alcune città latine indicate espressamente e a quelle soggette a Roma (ὑπήκοοι), obbligo di astenersi dall’andare nelle città latine non soggette (ἐὰν δέ τινες μὴ

ὦσιν ὑπήκοοι) e di consegnarle ai Romani intatte in caso di conquista, infine, divieto di costruire fortificazioni nel

111 “C’è infatti una tale differenza presso i Romani tra la lingua di ora

e quella arcaica che anche le persone più istruite alcune cose possono spiegarle a fatica con grande impegno”. Traduzione di B. Scardigli, Trattati cit., p. 54. 112 Polyb. 3.22.4-13. 113 Polyb. 3.22.4. 114 Polyb. 3.22.5-10. 115 Polyb. 3.23.4. 116 Polyb. 3.22.11-13.

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