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Tratti comuni di un fenomeno diffuso

Nel documento TITOLO TESI / THESIS TITLE (pagine 188-200)

5 Al di là del Piemonte: cenni sulla sopravvivenza del diritto romano in altri

5.2 Tratti comuni di un fenomeno diffuso

In definitiva, è necessaria una riflessione sugli effetti, sul piano applicativo, delle codificazioni preunitarie nel loro complesso.

Scopo principale dell’introduzione dei nuovi Codici nei diversi Stati preunitari era stato appunto quello raccogliere e compendiare in un unico testo legislativo tutte le regole di diritto civile, emanate dal legislatore, o affermate per via consuetudinaria, le quali, essendo cresciute a dismisura di numero, non avrebbero potuto essere altrimenti né conosciute, né applicate garantendo l’uniformità necessaria a realizzare la certezza del diritto814

. Tuttavia, come enunciato nelle prefazioni di numerose raccolte di giurisprudenza, il legislatore non poteva affatto pretendere di regolare tutti i casi che si possono presentare nella vita giuridica di un popolo, ed è proprio attraverso questa “falla” che fu possibile la penetrazione – o meglio, la permanenza – del diritto romano.

I codici preunitari – in sede di applicazione pratica nei diversi tribunali italiani – non si dimostrarono in grado di realizzare il programmato abbandono del diritto di antico regime, sostituendo le loro disposizioni con le previgenti fonti del diritto. Tale impossibilità di superare il diritto passato si faceva più evidente nel momento in cui si presentavano i dubbi e le incertezze riguardo la soluzione normativa da applicare al caso concreto. «Ogni dubbio suppone sempre silenzio o oscurità nell’atto legislativo, giudiziario, o privato, sul quale si elevi»815

: la mancanza, dunque, di una disposizione di legge che regolasse in modo specifico la fattispecie, portava a dubbi interpretativi e nodi applicativi che necessitavano di essere risolti.

813 Ivi, p. 171.

814

C. BONCOMPAGNI, Introduzione alla scienza del diritto ad uso degli italiani, Lugano 1848, p. 103.

815

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Nonostante le codificazioni preunitarie introdotte nei diversi Stati avessero espressamente disposto che il compito dei giudici era quello di risolvere le controversie attenendosi solamente alle disposizioni del Codice, la magistratura seguiva ancora la prassi radicata di fare riferimento a un variegato panorama di principi giuridici, provenienti da diverse fonti:

«ciò che perpetua e moltiplica i dubbj legali, è essenzialmente la diversità de’ principj, che ciascuno adotta nel darne la soluzione. […] In una simile incertezza; ora si segue più la redazione monca o altrimenti viziosa dell’atto, anzi che lo spirito, con cui sia stato formato; ora si ricorre ad una legislazione abolita; ora all’autorità degli espositori; ora s’invocano i dettami della giustizia naturale; ed ora, a nostro avviso con miglior consiglio, si vince il silenzio o l’oscurità, indagandosi l’oggetto che l’autore dell’atto si abbia proposto»816.

Anche in presenza delle nuove regolamentazioni, dunque, la tendenza diffusa nei fori era quella di ricercare in altre fonti del diritto la soluzione al caso non contemplato dal codice. Indispensabile era ricondurre tale prassi nei giusti limiti, e il modo con cui fare ciò veniva suggerito appunto dal diritto romano: le massime del diritto giustinianeo permettevano ai giudici di colmare le lacune legislative, qualora il Codice non prevedesse quelle fattispecie, ma avevano anche una funzione integrativa, perché andavano ad affiancarsi alle nuove disposizioni legislative, chiarendone la portata e facilitandone la comprensione della ratio.

L’introduzione delle codificazioni mirava appunto a sanare la grave crisi che travagliava la giustizia nei diversi Regni della penisola, una crisi determinata dall’assoluta mancanza di uniformità nella ricerca della fonte sulla quale basare la soluzione dei casi controversi817. Nonostante ciò, l’attaccamento dei giudici a quel patrimonio normativo era talmente forte che, anche dopo l’emanazione dei Codici, continuavano a richiamare nelle loro pronunce le opinioni dei doctores, le regolamentazioni di carattere locale e, in prevalenza, il Corpus iuris:

«Nel foro avvocati che invocano il diritto romano per avere il campo libero da ogni assunto, per scrivere volumi in cambio di brevi memorie e per parlare due o tre ore sopra un argomento […] e i giudici i quali per abitudine, per lusso, per gara cogli avvocati e per far mostra di gran sapere […] ecco la presente condizione delle cose. Sono a questi giorni più le controversie risolute con una novella, o con una costituzione, con un

816 M. AGRESTI, Discorso del Cavaliere Agresti, Procurator generale del Re presso la Gran Corte

Civile di Napoli, alla pubblica udienza, per lo riaprimento della Gran Corte, Napoli 1829, ora in Decisioni delle Gran Corti Civili in materia di diritto, pubblicato da Michele Agresti Procurator generale del Re presso la G.C. civile di Napoli, IV, Napoli 1830, p. 16.

817

«Le leggi sono fatte pel foro, ma il foro non sempre fa delle leggi quell’uso che si richiede; sorgono da fonti nitide e pure; nel cammino s’intorbidano, e sovente col fango framischiansi e si confondono; poste e dilatate in mezzo al commercio degli uomini, corrono per varj paludosi infetti canali, trovando qui la passione che le altera, ivi l’ignoranza che non le intende, qua la malizia che le corrompe, colà l’errore che le avvelena»: F. C. SAVIGNY, La vocazione del nostro tempo per la

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responso di Ulpiano e di Paolo, coll’autorità di Bartolo e di Baldo, di Azzone o di Accursio e colla scuola di Bologna o altra men famosa, che quelle decise con una disposizione tolta da’ nostri codici, e dalle nostre leggi!»818.

Sul piano della giurisprudenza pratica, dunque, questa tendenza si era tradotta nella creazione, in seno ai tribunali e ai senati preunitari, di un ulteriore diritto, nato spontaneamente, costituito da un insieme alquanto disomogeneo di disposizioni di diversa origine ed epoca: una sorta di terzo diritto, che non era né quello antico né quello nuovo, ma un variegato insieme di differenti norme giuridiche, una sorta di nuovo diritto comune. Il ruolo dei giudici nell’affermazione di questa prassi è senza dubbio decisivo, in quanto loro era la selezione delle fonti normative sulle quali fondare le loro pronunce; d’altro canto, però, non si può non considerare che una responsabilità in tal senso deve essere attribuita anche ai legislatori dei diversi Stati, che si erano tutti limitati a disporre una generica abrogazione del diritto previgente, concedendone il richiamo solo in casi non indicati in modo preciso, lasciati alla discrezionalità dei magistrati.

Per tutta la prima metà del XIX secolo, dunque, le sentenze dei diversi Stati preunitari che si erano dotati di un codice di leggi civili presentano un continuo ricorso al diritto romano.

Nella raccolte di giurisprudenza del tempo, infatti, si avverte in modo lampante la presenza di quel diritto che era stato espressamente abolito, quindi richiamato ed invocato a vario titolo. Spesso gli avvocati ricorrevano ad esso per sostenere le proprie ragioni, ed affermarne la fondatezza sull’autorità dell’antico; i pubblici ministeri, nelle loro conclusioni, mostravano di ragionare ancora secondo quelle impostazioni tramandate dagli insegnamenti dei giuristi romani, in primo luogo dalla compilazione giustinianea; le stesse Corti, nell’emettere le sentenze, continuavano a basare le loro decisioni sul diritto romano, usato come fonte di norme giuridiche e di massime di giustizia.

Il diritto romano era infatti considerato «il più esteso, il più analitico e il più sistematico; egli è nel tempo medesimo e saggio oltremodo ed equo»819. Pur riconoscendo apertamente che uno dei grandi meriti dei nuovi codici era stato quello di aver «tratto la più gran parte del suo fondo dal romano»820, si enunciava che anche in sede di applicazione nei fori poteva realizzarsi quella amalgama di diritto vecchio e nuovo:

818

M. DE AUGUSTINIS, Del diritto romano per quel che è e debb’essere nella presente società

europea e pel nuovo diritto in Europa, in Il Progresso delle scienze, lettere ed arti, XXVIII,

Napoli 1841, p. 48. Sul pensiero di De Augustinis in tema di diritto romano, posto a raffronto con la posizione di De Thomasis, cfr. O. ABBAMONTE, Potere pubblico e privata autonomia cit., pp. 28-50.

819 G. CAPONE, Discorso sopra la storia delle leggi patrie all’altezza reale del principe D.

Ferdinando duca di Calabria, II, Napoli 1845, p. 167. 820 Ivi, p. 168.

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«nelle materie di diritto moderno, nelle quali si son ritenuti i principj antichi, il nuovo può servire di buona introduzione al vecchio, e il vecchio di comento al nuovo»821.

Del resto, risalire alle origini dell’ordinamento giuridico era un’operazione opportuna e necessaria, in tutti i casi in cui i giudici dovessero comprendere lo spirito della legislazione moderna, la quale altro non era che uno «sviluppamento» di quella antica. In tale prospettiva, poco valeva la dichiarazione – presente in tutti i codici preunitari – di superare tutto ciò che rappresentava un retaggio del passato: di fatto, non era possibile attuare un vero e proprio abbandono del diritto di antico regime, che si era stratificato nei secoli ed era penetrato così a fondo nella coscienza giuridica italiana822.

Alla luce di tutto ciò, si può affermare che l’abrogazione disposta dai Codici preunitari non avesse in realtà raggiunto il suo scopo, perché la sua sopravvivenza in moltissime pronunce attestava che si trattasse di un diritto in qualche modo ancora vigente, superato solo formalmente.

Di fronte a una tendenza così massiccia e diffusa negli organi giudiziari di quasi tutta la penisola, i tentativi di arginare questa prassi si dimostrarono sostanzialmente fallimentari, tanto che ci si domandava quale potesse essere il rimedio adeguato per superare questa prassi così radicata:

«Converrà proscrivere ogni studio di diritto antico, gioverà meglio abolire i comenti, proibire le interpretazioni dottrinali? Sarà indispensabile di ordinare doversi stare alle parole della legge, ed esser tutto vietato fuori delle parole di quella, illustrazioni, autorità, dottrine? … Vorrassi? … Ma no, non vuolsi niente di tutto questo; vuolsi distinguere l’utile dall’inutile, il vero dal falso, la legge dalla non legge, vuolsi risparmiar tempo e spesa, ma vuolsi pur giustizia, o sia vuolsi che si sappia la legge e sappiasi bene e costantemente applicarla»823.

Il problema restava sempre la certezza del diritto, l’organicità e l’uniformità dei principi, meta ardua da raggiungere in «quel disordine, quel caos,

821

Ivi, p. 75. 822

Il Regno di Napoli può valere come esempio paradigmatico della ostinata volontà di abbandonare quel «cumulo di leggi fatte in diversi secoli, per diversi popoli differenti di costumi e forme di governo, senza disegno generale, e spesso con opposti principi». Sul piano applicativo si era rivelato del tutto inattuabile, e si era radicata l’opinione secondo la quale il nuovo Codice non era altro che «un incompiuto estratto dal romano, la cui compilazione solamente potersi dire fonte perenne di equità e giustizia civile», e in ragione di ciò si giustificava l’incessabile ritorno allo studio del diritto antico, «anche perché lo stesso legislatore avea mantenute (come dalle parole che precedono i nuovi codici) le antiche leggi, le cui materie non facciano oggetto delle disposizioni in esso contenute».

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quella continua fluttuazione di giurisprudenza ne’ tribunali; quella specie di anarchia nel giudizio e di coscienza»824.

Ammessa l’impossibilità di lasciarsi alle spalle il diritto romano, dunque, bisognava almeno cercare di regolamentare, in qualche modo, le modalità di ricorso ad esso, al fine di evitare incertezze ed abusi:

«In una parola, se l’antica legislazione volle abolirsi, uopo è che si dichiari nettamente: se una parte ne fu abolita e una confermata, conviene che si dica quale, e dicasi in tutti i particolari, riproducendola nella lingua d’Italia e non in una lingua che pochi sanno, e pochissimi comprendono: è d’uopo che venga a parte pubblicata ed unitamente col nostro Codice. In ogni caso è necessario uscire dal dubbio, poiché esso uccide»825.

In quel peculiare momento storico, si trattava di uniformare i giudizi delle corti civili, di modo che risultassero conformi ad un unico sistema di norme, quello disposto dalle codificazioni preunitarie826.

Si può dire, con le parole di Giuseppe Grosso, che si trattasse di «tentativi di scuotersi di dosso un diritto, come si smette un vecchio abito, o come si scuote la polvere dei secoli»827. Dall’analisi delle fonti è emersa però una generale tendenza delle Corti civili preunitarie volta a contrastare le disposizioni abrogative del diritto previgente previste nei diversi Codici. Il suffragio di tale tesi attraverso la raccolta di riscontri concreti ha mostrato come l’incessante applicazione di alcune norme ne avesse di fatto impedito il superamento ordinato dal legislatore, attribuendo piuttosto al diritto romano un ruolo ancora importante nella giurisrprudenza delle diverse Corti preunitarie.

824

Ibidem.

825

Ivi, p. 52.

826 L’indiscutibile valore dei codici appena introdotti è riconosciuto dal procuratore Agresti, il quale afferma che «dopo tante opere e dopo il corso di tanti secoli, se la giurisprudenza è stata in parte rischiarata, questo vantaggio è dovuto unicamente al beneficio incalcolabile de’ nuovi codici, ed alle meditazioni de’ pochi che ne hanno penetrato lo spirito», da M.AGRESTI, Discorso delle

Gran Corti Civili cit., p. 18. 827

G. GROSSO, Il tradizionalismo dei giuristi, in “Annali del seminario giuridico dell’Università di Catania”, VI-VII, 1953.

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Conclusioni

Il presente lavoro ha cercato di ricostruire le sorti del diritto romano nel Regno di Sardegna nel periodo compreso tra il dominio napoleonico e la codificazione unitaria, descrivendo la consistenza del fenomeno di sopravvivenza e di uso pratico delle norme giustinianee nella giurisprudenza, con particolare attenzione per il diritto di famiglia.

La scelta di prendere ad esame il Piemonte di età preunitaria, analizzando il ruolo del diritto romano sul piano teorico e su quello applicativo, è stata dettata dalla considerazione che nei territori sabaudi già nel XVIII secolo era stato avviato il cammino verso il superamento del diritto comune. Con le Regie Costituzioni, infatti, il sovrano sabaudo aveva imposto ai giudici il divieto di ricorrere all’opinio doctorum, consentendo al tempo stesso l’uso delle norme del Corpus giustinianeo opportunamente epurate dall’interpretatio. Con l’avvento della codificazione napoleonica, poi, l’abrogazione del diritto previgente era stata completa, al punto tale che si era scontrata con la resistenza di parte dei giuristi sabaudi, e che si espresse sia sul piano dottrinale che su quello giurisprudenziale.

Sul piano della dottrina, si diffusero opere che avevano la finalità di facilitare l’insegnamento e più in generale la divulgazione del diritto francese, ma che si ponevano a metà strada tra l’accoglimento del nuovo sistema legislativo e il tentativo di non abbandonare del tutto il diritto romano. L’attaccamento alla tradizione romanistica negli studi giuridici sembra evidente in Brun e Pansoya, i quali operavano un costante rinvio alle fonti romane nell’esposizione del diritto francese.

Una analoga tendenza si riscontra anche nella giurisprudenza: il Recueil de jugemens e la raccolta di Sirey, infatti, nell’affrontare le questioni più problematiche richiamavano e ponevano a confronto la legislazione romana e quella francese.

Con la caduta della dominazione napoleonica e il ripristino della legislazione sabauda di antico regime, il ritorno al diritto previgente non incontrò alcuna difficoltà, sia sul piano teorico che su quello pratico: i commentari – ad esempio quello di Grosso – e le raccolte di giurisprudenza – in primo luogo quelle di Duboin e Arrò – mostrano una tendenziale univocità nel riconoscere il ruolo essenziale del diritto romano, ma anche dell’interpretazione giudiziale, nell’ordinamento giuridico restaurato.

L’attaccamento al diritto romano non si affievolì neppure con la codificazione albertina, la quale si scontrò con la decisa opposizione da parte delle alte magistrature sabaude, espressione del tradizionalismo del Regno. La persistenza del confronto delle singole disposizioni del testo albertino con le corrispondenti norme del Corpus giustinianeo, presente già prima in diverse

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opere di natura comparatistica ed esegetica (quali il commentario di Pastore, il Manuale forense e le Concordances di Saint-Joseph) si riscontra anche nella dottrina piemontese successiva alla codificazione. Tra le opposte spinte verso il superamento del passato e verso il recupero della tradizione, i contributi di Merlo, Buniva e Tonso avevano dimostrato uno stretto legame con la tradizione giuridica, per la quale miravano a conservare uno spazio anche dopo l’introduzione del Codice del 1837.

Nel susseguirsi, dunque, di diverse normative – quella di antico regime, quella francese e infine quella albertina – il diritto romano mostrava una peculiare resistenza ai tentativi di superamento, in particolare sul piano applicativo.

Nella giurisprudenza delle Corti sabaude successiva alla codificazione si riscontra la tendenza a continuare a fare uso del diritto romano nelle sentenze. Gli Annali di giurisprudenza, la raccolta di Mantelli e quella di Bettini, infatti, dimostrano la costante presenza delle norme giustinianee nelle pronunce, come si è riscontrato in quelle in tema di diritto di famiglia e successorio qui esaminate. Per alcuni istituti, come la dote congrua, la potestà sui figli, l’autorizzazione maritale e in generale i rapporti patrimoniali tra i coniugi, l’attaccamento alla disciplina del diritto romano è apparso particolarmente tenace.

Il riscontro di tale prassi non solo nel Regno sabaudo, ma anche nel Regno delle Due Sicilie, nel Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, nel Ducato di Modena e nel Regno Lombardo-Veneto mostra l’ampiezza e la diffusione di questo fenomeno che non rappresentava un caso isolato, ma interessava quasi l’intera penisola. Nonostante i diversi Codici preunitari avessero disposto l’abrogazione del diritto romano, la disamina di numerosi casi giurisprudenziali indica come in concreto la volontà del legislatore non abbia avuto piena applicazione. La frequenza con la quale i giudici nelle loro pronunce richiamavano il diritto romano può essere l’indizio di una forma particolare di sopravvivenza, ad opera essenzialmente delle Corti dei diversi Stati preunitari. Le modalità di questo fenomeno sono varie ed eterogenee.

In primo luogo, in alcune pronunce il diritto romano sembra aver mantenuto la funzione sussidiaria che gli era stata riconosciuta durante l’antico regime. Era cioè richiamato per colmare lacune del testo legislativo: quando la fattispecie dedotta in controversia non era disciplinata dal Codice in modo preciso, i giudici ricorrevano spesso alle norme del Corpus iuris che fornivano una soluzione più puntuale al quesito giuridico. Talvolta, però, si trattava di un mero pretesto, in considerazione del fatto che il dettato del Codice, pur non regolando espressamente quella particolare fattispecie, poteva agevolmente essere applicato senza che fosse necessario il supporto della norma giustinianea.

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In altre pronunce, il diritto romano era espressamente menzionato come fonte di principi di giustizia, come ratio scripta alla quale i giudici, anche in presenza di una norma del Codice che enunciasse la stessa regola, facevano riferimento, e su di essa fondavano le loro argomentazioni giuridiche. Le Corti, dunque, mostravano di sentirsi indirizzate da queste massime di diritto romano, a tal punto che frequentemente queste assumevano più rilevanza delle stesse norme di diritto positivo racchiuse nel Codice, poiché ritenute un patrimonio di principi giuridici eterni ed immutabili.

Il diritto romano era richiamato anche come fonte di autorità, il cui rispetto spesso portava le Corti a ritenere che, per risolvere determinate controversie, il Corpus giustinianeo fornisse una regola più precisa e conforme a giustizia. In questi casi i magistrati mostravano di non riuscire ad abbandonare la forma mentis acquisita e consolidata durante l’antico regime, in quanto continuavano a ragionare secondo quegli schemi ritenuti più validi e dunque più utili per risolvere le questioni che si presentavano nei fori.

Talvolta, le norme di diritto romano addirittura costituivano la base giuridica delle sentenze: ciò avveniva non solo quando la Corte si trovasse a pronunciarsi su un diritto sorto durante la vigenza del diritto di antico regime, ma anche in altri casi, nei quali la fattispecie, pur essendo sorta dopo l’entrata in vigore del Codice, veniva risolta applicando un diritto ormai abrogato. In questi casi i giudici, ben consapevoli dell’impossibilità di decidere basandosi su un diritto ormai superato, nel dispositivo richiamavano l’articolo del Codice che si presumeva fosse il più attinente alla controversia, quando però avevano svolto l’intero percorso argomentativo su norme del Corpus iuris. Ai fini di una pura legittimazione formale, dunque, i giudici ricorrevano a formule quali «a queste norme è corrispondente l’articolo x del Codice», per mostrare che la pronuncia

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