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I tumulti del 1848-1849

5. La dissoluzione del Granducato di Toscana

5.3 I tumulti del 1848-1849

La scintilla rivoluzionaria si accese a Palermo il 12 gennaio 1848, quando un gruppo di autonomisti siciliani pensò di festeggiare il compleanno del re Ferdinando II organizzando un'insurrezione nella quale motivi patriottici, ragioni sociali e sentimenti di opposizione ai regnanti e a Napoli si mescolavano inestricabilmente. L'insurrezione ebbe successo e sembrò volersi trasmettere alla parte continentale del regno. Ferdinando II allora reagì giocando d'anticipo: il 29 gennaio annunciò pubblicamente di voler concedere una Costituzione al Regno delle due Sicilie, la quale sarà effettivamente pubblicata il 10 febbraio successivo. Ciò non bastò a sedare la rivolta

150 D. Orlandi, Pietrasanta tra Granducato e Risorgimento, cit., pp.19-20. 151 D. Orlandi, La Versilia nel Risorgimento, cit., p.556.

siciliana, ma per il momento venne mantenuta sotto controllo la parte continentale del regno.

Da qui partì l'«effetto domino»: altri sovrani italiani, che alla fine del 1847 si erano conquistati una larghissima popolarità presso l'opinione pubblica liberale, sentirono di non potersi far scavalcare da un sovrano che, fin allora, non si era distinto per speciali simpatie verso le idee nazionali e liberali.

Così l'8 febbraio il re di Sardegna, Carlo Alberto di Savoia annunciò la concessione di uno Statuto costituzionale per il suo regno, che verrà pubblicato il 4 marzo seguente e noto col nome di Statuto Albertino.

L'11 febbraio fu invece Leopoldo II a rendere pubblica la sua intenzione di concedere uno Statuto. Il Granduca di Toscana fu rapidissimo: appena quattro giorni dopo (15 febbraio 1848) firmò il testo costituzionale153.

Papa Pio IX, dal canto suo, annunciò riforme costituzionali il 14 febbraio, le quali, pure in questo caso, si tradussero nella concessione di uno Statuto per lo Stato pontificio, che fu promulgato il 14 marzo 1848.

Le varie Carte presentavano numerosi caratteri comuni, sia perché la loro concessione scaturì da pressioni ed istanze pressoché identiche nella penisola, sia perché tutte si ispirarono alla costituzione francese del 1830 e, per alcuni aspetti, a quella belga del 1831, sia perché conservarono il carattere di carte octroyées, ossia concesse dai sovrani nel pieno esercizio della loro autorità.

Tutte, frutto di un ambiguo, improvvisato accordo tra sovrani restii a cedere parte del loro potere a forze liberali sostenitrici di un programma politico-sociale sostanzialmente conservatore, ebbero un'impronta fortemente moderata. La persona del re venne dichiarata sacra e inviolabile; furono create due Camere: una elettiva con sistema censitario, l'altra vitalizia di nomina regia; ad esse ed al re, cui solo spettava sanzionare e promulgare le leggi, venne affidato il potere legislativo; il potere esecutivo rimase a pieno titolo nelle mani del sovrano, né venne garantita l'indipendenza della magistratura. La religione cattolica fu proclamata religione ufficiale dello Stato, tuttavia in Toscana, come in Piemonte, furono tollerati gli altri culti. La stampa, dichiarata libera, rimase soggetta a censura repressiva, preventiva per le sole opere concernenti materie religiose.

Si trattò, nel complesso, di carte brevi che, demandando la soluzione di importanti questioni a successive leggi, contennero piuttosto i principi direttivi dei rapporti tra i sovrani e i cittadini, anziché un insieme di disposizioni compiute e pronte a funzionare.

Il problema più urgente era evidentemente definire le modalità per l'elezione dei deputati. Le varie leggi elettorali promulgate nei differenti Stati presentarono tutte criteri rigidamente selettivi,

di modo da limitare la partecipazione al dibattito pubblico. Ad esempio, la legge elettorale per il Granducato di Toscana prevedeva come requisiti per esercitare il diritto di voto, oltre all'età ed alla stabile dimora nel distretto elettorale, una rendita superiore alle 300 lire, l'esercizio di un'industria o commercio, il possesso di «capacità»; ogni elettore era anche eleggibile.

In questo modo fu mostrata la volontà dei sovrani di evitare che la concessione delle franchigie costituzionali fosse solo l'avvio, come auspicava la parte più avanzata del movimento liberale, di una evoluzione in senso democratico della vita politica. Se la svolta costituzionale aveva rappresentato l'estremo tentativo di arginare e incanalare un movimento che, per la forte componente popolare, rischiava di assumere pericolose tinte di «rivoluzione sociale», le leggi elettorali ribadivano ora il carattere fortemente moderato di quella svolta e l'avversione per qualsiasi programma che sembrasse minacciare l'egemonia politica dei ceti aristocratici ed alto borghesi154.

Comunque sia, mentre in Italia si festeggiavano i cambiamenti, altrove in Europa il contagio rivoluzionario si tradusse in momenti molto più drammatici e violenti.

In Francia, dall'estate del 1847, i gruppi politici di opposizione (liberali progressisti, radicali e repubblicani) organizzarono una campagna di banchetti per raccogliere consensi a favore di una riforma della legge elettorale che concedesse il suffragio universale maschile. Il re, Luigi Filippo di Borbone-Orléans, e i liberal-moderati a sostegno del suo governo, erano però contrari e decisero per questo di proibire il banchetto del 22 febbraio 1848. Scoppiò così una rivolta che l'esercito non riuscì a sedare: il 24 febbraio Luigi Filippo capendo di non poter più controllare la situazione decise di abdicare e di abbandonare la Francia, recandosi in Inghilterra. Il Parlamento nominò un governo provvisorio a maggioranza repubblicana guidato dal poeta Alphonse de Lamartine, il quale proclamò subito la Repubblica.

Tra lo sbalordimento di tutti, il modello rivoluzionario francese venne replicato a Vienna, cuore del conservatorismo europeo. Qui, ill 13 marzo una grande folla si riversò nelle strade per forzare il governo a concedere riforme paragonabili a quelle che si stavano facendo in Francia e in Italia.

Due giorni dopo si ebbero manifestazioni di piazza anche a Budapest, dove venne formato un governo autonomo che rivendicava l'indipendenza dell'Ungheria.

Non passarono altri tre giorni che l'agitazione si trasmise al Regno Lombardo-Veneto. A Venezia il 17 e il 18 marzo si tennero imponenti manifestazioni di ispirazione indipendentista. Il 18 marzo insorse Milano: dopo cinque giorni di scontri durissimi, tra patrioti armati alla meglio e protetti dalle barricate da un lato, e la guarnigione militare austriaca dall'altro, Milano venne liberata.

Il 22 marzo anche a Venezia un'insurrezione quasi del tutto incruenta condusse alla liberazione

della città e alla proclamazione della Repubblica, guidata da Daniele Manin.

Il 23 marzo, quando l'impero austriaco sembrò essere sopraffatto, il re di Sardegna, Carlo Alberto, decise di dichiarare guerra all'Austria: il 26 marzo le sue truppe sono già a Milano, accolte favorevolmente dalla popolazione, inoltre giunsero in loro aiuto corpi misti di regolari e volontari dalla Toscana, dallo Stato pontificio e dal Regno delle due Sicilie.

Prima che Carlo Alberto dichiarasse guerra all'Austria e che fossero state decise le sorti delle cinque giornate di Milano, Leopoldo II annunciò di scendere in armi per la causa italiana. La decisione di entrare in guerra contro l'Austria ovviamente non fu di sua spontanea volontà. Sia Ferdinando II che Pio IX avevano già spedito truppe nel Nord, la Toscana dunque sarebbe stata l'unico Stato sovrano di tutta la penisola a non partecipare alla guerra d'indipendenza. Un rifiuto di Leopoldo II avrebbe significato la rivolta armata, ed egli si trovò di fronte all'alternativa: adesione alla guerra o rivoluzione. Visto l'entusiasmo nazionalista che regnava nel Paese, l'idea della neutralità apparve al Sovrano assolutamente da scartare. Eppure egli sapeva che, in conseguenza di un patto militare che la Toscana aveva stretto con l'Impero asburgico poco dopo il Congresso di Vienna, avrebbe dovuto affiancarsi all'Austria. Fortunatamente per Leopoldo II, Vienna non avanzò però richieste in tal senso. Né, d'altra parte, il granduca avrebbe potuto contare sul suo appoggio, nel caso di una rivoluzione: in quel frangente Vienna non sarebbe stata in grado di fornirglielo, presa com'era dai problemi che da tutte le parti le piovevano addosso155.

Così, sotto la pressione del movimento patriottico, la sera del 21 marzo Leopoldo II emise un proclama col quale annunciava la partenza delle truppe toscane per le frontiere.

Illustrazione XIX: Manifesto del 21 marzo 1848 di Leopoldo II che annunzia la partenza delle truppe toscane per le frontiere. Pietrasanta è una delle due cittadine indicate come luoghi di radunata. Museo del Risorgimento Firenze.

Testo illustrazione XIX

TOSCANI

L'ora del completo risorgimento d'Italia è giunta improvvisa, né può chi davvero ama questa nostra Patria comune ricusarle il soccorso che reclama da lui.

Io vi promisi altra volta di secondare a tutta possa lo slancio dei vostri cari in circostanze opportune; ed eccomi a tenervi parola.

Ho dato gli ordini necessari perché le truppe regolari marcino senza indugio alle frontiere su due colonne, una per Pietrasanta l'altra per S. Marcello. Le città, e la capitale stessa sono affidate alla Civica Sedentaria. I volontari che desiderano seguire le regolari milizie riceveranno una

organizzazione istantanea e sotto esperti ufficiali potranno partire.

Duole che l'egregio Collegno, a cui improvvisa infermità tolse la possibilità di spinger più innanzi l'ordinamento di Volontari, non possa oggi esser con loro.

In mezzo allo slancio de'vostri cuori per la santa causa d'Italia non dimenticate la moderazione che abbella ogni impresa.

Io voglio col mio Governo sugli altri bisogni del Paese, e intanto affretto colle mie premure la conclusione d'una potente lega Italiana, che ho sempre vagheggiata, e della quale pendono le trattative.

Il General Comandante delle Truppe regolari, il Prefetto e il Gonfaloniere di Firenze formano una Commissione incaricata del movimento immediato di quella per Pietrasanta.

Viva l'Italia Costituzionale! Dato in Firenze, 21 Marzo 1848. LEOPOLDO

Il Presidente del Consiglio dei Ministri F. Cempini.

Il Ministro Segretario di Stato per l'Interno C. Ridolfi.

Il Ministro Segretario di Stato Incaricato provvisoriamente del Ministero della Guerra G. Baldasseroni.

Complessivamente furono circa 3000 i volontari Toscani che si recarono in Lombardia a combattere contro l'Austria; fra questi molti erano gli studenti universitari di Pisa con i loro professori, insieme a 361 soldati delle truppe regolari del Paese.

Secondo i piani dell'esercito toscano si doveva formare a Pietrasanta un deposito di volontari dove curare il loro addestramento. A capo del movimento dei soldati fu posto il colonnello Cesare De Laugier, ex ufficiale napoleonico che seppe accattivarsi la simpatia del piccolo e non amalgamato esercito toscano. Durante la battaglia del 29 maggio di Curtatone e Montanara egli ebbe il comando di tutte le truppe toscane. Come noto l'esito non fu favorevole, tuttavia questa battaglia assunse subito un significato ideale che trascendeva la sua importanza militare, trasformandosi in un simbolo. Giovani volontari, male equipaggiati ed armati, non addestrati, e truppe di linea in gravissima inferiorità numerica, avevano tenuto testa per un intero giorno ad uno dei più potenti e addestrati eserciti europei, dimostrando tutto il valore della gioventù della nascente nazione italiana e la forza delle idee che li sorreggevano.

I toscani a Curtatone e Montanara ebbero 166 morti e 518 feriti, tra cui molti erano giovani. La notizia di tante perdite suscitò grande emozione: lo stesso Granduca si fece interprete del dolore di tutti in un proclama del 2 giugno, in cui invitava a pregare per la pace di tutti quei morti. Nell'ambito di queste direttive anche l'amministrazione civica di Pietrasanta ordinò a sue spese solenni funerali per quei caduti.

Conclusasi infelicemente la campagna del '48, De Laugier e il suo esercito ridotto a poco più di 2000 uomini rientrarono in Toscana156.

Anche qui però la situazione si era surriscaldata: alla fine di luglio numerose dimostrazioni popolari organizzate dai democratici alle notizie provenienti dai campi di Lombardia e tolerate dalla guardia civica imposero le dimissioni del governo moderato di Ridolfi e la formazione di un ministero più aperto alle istanze liberali e patriottiche. Il montare delle tensioni per l'ingresso delle truppe austriache nei Ducati e nelle legazioni rese particolarmente difficile la soluzione della crisi, conclusasi finalmente il 17 agosto con la creazione del debole ministero Capponi.

La crescente pressione del movimento democratico ebbe un immediato sbocco rivoluzionario a Livorno. Centro di transito non solamente di merci ma anche di uomini e idee, caratterizzata da un tessuto sociale e da una struttura economica che avevano assunto connotati più moderati rispetto a quelli della restante regione, la città aveva rappresentato un terreno assai fertile per le idee democratiche, anche le più radicali, ed era perciò guardata con più ostilità e diffidenza dai moderati. Per il convergere di vari elementi, non ultimo la grave crisi economica e finanziaria che la

travagliava, fu possibile nell'estate la formazione di una coalizione di forze intorno ad un programma democratico-patriottico che fece di Livorno il centro della riscossa contro il ministero moderato. Il 25 agosto, in seguito all'arresto ordinato dal governo Capponi di padre Alessandro Gavazzi, frate assai popolare per il suo ardore patriottico, e di vari democratici livornesi, si verificarono i primi disordini. Per cercare di ristabilire l'ordine vi fu inviato un contingente di soldati, ma ciò provocò un'insurrezione generale che fu possibile sedare solamente con l'intervento del democratico Guerrazzi, che assunse di fatto il potere nella città, senza che peraltro la sua autorità venisse riconosciuta dal governo di Firenze.

Era rientrato intanto in Toscana Giuseppe Montanelli, professore dell'università di Pisa, partito volontario con gli studenti e creduto morto a Curtatone. Capponi credette di poter risolvere con la sua nomina a governatore di quella città la questione livornese. Montanelli giunse a Livorno il 7 ottobre e fu accolto con grande entusiasmo.

Le dimostrazioni antigovernative si erano intanto estese agli altri centri del granducato, a Lucca, Arezzo, Pistoia. Il 12 ottobre Capponi presentò al Granduca le dimissioni del suo ministero. La crisi si risolse il 27 ottobre con la creazione del governo Montanelli-Guerrazzi, «fatale necessità» per scongiurare la guerra civile, che segnava il primo successo delle forze democratiche toscane. Il nuovo governo, soprattutto per l'influsso di Guerrazzi, adottò una linea politica cauta, tesa a non spaventare troppo gli avversari e a non rompere col Granduca. Nonostante la chiusura verso le frange più intransigenti della democrazia, ormai inclini alla soluzione repubblicana, e le misure volte al ristabilimento dell'ordine e della fiducia, il Consiglio generale rimase ostile al ministero. Guerrazzi ordinò perciò lo scioglimento dell'assemblea ed indisse nuove elezioni per il 20 novembre. Falliti i tentativi dei democratici più estremi di imporre il suffragio universale, le elezioni confermarono la maggioranza moderata.

Presto però si acuirono le discordie tra Montanelli, sempre più propenso ad appoggiare le correnti democratiche, e Guerrazzi, fautore di una politica che tranquillizzasse i moderati ed il Granduca.

Nel frattempo a Roma era stata proclamata la repubblica. L'annuncio del decreto romano del 16 gennaio, con cui si stabiliva l'elezione di cento rappresentanti della Costituente italiana, suscitò vivacissime dimostrazioni in Toscana. Il Parlamento fu così costretto ad accordare l'elezione a suffragio universale di 37 deputati toscani per la Costituente italiana. Leopoldo II non approvò la legge e nel febbraio fuggì, chiedendo ospitalità a Ferdinando II delle Due Sicilie a Gaeta, dove già si era rifugiato Pio IX. Il potere fu assunto da un triumvirato composto da Guerrazzi, Montanelli, Mazzoni. Il nuovo governo provvisorio decretò lo scioglimento delle Camere ed indisse le elezioni per il 12 marzo. I democratici, sostenuti da Montanelli, premevano ora per la proclamazione della

repubblica e la fusione con lo Stato romano, ma Guerrazzi si oppose tenacemente ad un simile progetto, impedendone la realizzazione finché l'attenzione non fu catalizzata dalla guerra austro- piemontese157.

Fino dai primi giorni del Governo Provvisorio, a Pietrasanta si ebbero infuocate manifestazioni di piazza in favore della repubblica. Sulla Piazza Maggiore fu innalzato l'albero della libertà. I repubblicani gridarono i loro evviva, abbatterono e stracciarono ritratti di Pio IX e Leopoldo II. Il sacerdote Giovan Battista Bichi, che fu candidato e riuscì eletto in una lista di repubblicani all'Assemblea Costituente Toscana, tenne calorosi discorsi presso l'albero della libertà esaltando la repubblica. Disse che Leopoldo era un traditore e così pure il De Laugier; e che anche i regi impiegati facevano bene a convertirsi alle idee repubblicane, ora che, finalmente, si era liberi dai tiranni e si aveva un «governo repubblicano veramente santo».

Tuttavia, come stava accadendo in altre zone della Toscana, non tardarono a verificarsi anche manifestazioni in favore del Granduca. Esse partirono dall'Alta Versilia e si propagarono fino a Seravezza, mentre il 19 marzo ci fu burrasca politica a Pietrasanta: dopo una dimostrazione repubblicana del giorno, la sera la parte opposta reagì al grido di «Viva Leopoldo! Viva Pio IX!». L'albero della libertà rischiò di essere abbattuto e la situazione si mantenne tanto incerta che il Vicario chiese rinforzi a Lucca senza però ottenerne, perché non se ne disponeva158.

Nel frattempo le ostilità fra Regno di Sardegna e Impero Austriaco giunsero al termine: il 23 marzo l'armata piemontese fu sconfitta nella battaglia di Novara.

Alla notizia della sconfitta piemontese la nuova Assemblea, eletta il 12 marzo ed investita da Guerrazzi di poteri costituenti, ritenne opportuno adottare provvedimenti straordinari e conferì, il 27 marzo, pieni poteri a Guerrazzi. Questi, convinto che solo il ritorno del granduca potesse ormai evitare l'occupazione austriaca, cercò senza successo accordi coi moderati e rimase isolato. Il 12 aprile a Firenze i moderati della municipalità assunsero i poteri in nome del Granduca. Ma Leopoldo II già in febbraio aveva chiesto l'aiuto austriaco ed ora, succube dell'ambiente reazionario di Gaeta, rispose negativamente all'invito di rientrare subito in Toscana159.

A Pietrasanta si percepiva chiaramente che gli austriaci erano sul punto di varcare i confini. Il 28 aprile a Porta, posto di confine, si svolse un colloquio tra il Vicario di Pietrasanta e il generale austriaco Costantino d'Aspre, il quale comunicò che non più tardi del 5 maggio le sue truppe sarebbero entrate in Toscana per recarsi nello Stato Pontificio e per sedare la ribellione ancora in

157 A. Scirocco, L'Italia del Risorgimento, cit., pp.298-308.

158 D. Orlandi, Pietrasanta tra Granducato e Risorgimento, cit., pp.29-31. 159 A. Scirocco, L'Italia del Risorgimento, cit., p.310.

atto a Livorno.

Qui infatti le correnti democratiche poterono acquistare forza nel proletariato composto in parte di lavoratori del porto organizzati corporativamente, in parte di operai industriali, in parte di giornalieri addetti a lavori sussidiari del commercio e delle industrie, occupati in modo non permanente e assai scarsamente retribuiti. Così a Livorno vi fu una situazione agitata da lotte di classe e di ceto molto più acute che nelle altre città toscane, dove invece le masse popolari erano composte prevalentemente di artigiani e in misura assai limitata di salariati160.

La mattina del 5 maggio fu consegnato al Vicario pietrasantino un messaggio che il prefetto di Lucca aveva stilato in piena notte:

Qualora gli austriaci avanzando in Toscana entrassero in codesta sua giurisdizione, le nostre milizie debbono rimanere al proprio posto e lasciar loro libero l'ingresso. Niuna protesta dée aver luogo.

Non a caso quello stesso giorno il D'Aspre varcò il confine e appena giunto a Pietrasanta lanciò un proclama ai Toscani, col quale annunciò di venire a tutelare i diritti del legittimo sovrano, per contribuire al ristabilimento dell'ordine turbato dalla fazione perversa. Così continuava:

Vengo a far rinascere, a render salda la pubblica e privata sicurezza: all'ombra loro soltanto le istituzioni costituzionali impartitevi dal vostro legittimo Sovrano potranno prender salde radici, portar buoni e numerosi frutti.

Aggiungeva poi che, riguardo alla disciplina, le sue truppe erano avvezze a mantenerla, ma che nessuno osasse nutrire l'idea della resistenza, perché avrebbe incontrato «la spiacevole e dura necessità dell'uso delle armi161».

Dopo ciò il D'Aspre proseguì la sua marcia. Si recò a Livorno, dove le masse popolari imposero il 10 maggio la resistenza ad oltranza: dopo una giornata di accaniti combattimenti la città, lasciata sola a fronteggiare un nemico troppo forte, cadde in mano agli occupanti vincendone le tenaci resistenze. Alla fine del mese gli austriaci presero facilmente possesso di Firenze.

Come ricordato dal poeta Giuseppe Giusti nelle sue Cronaca dei fatti di Toscana, le conseguenze