4. IL TRILITE GRECO
4.1 Templi greci
4.1.6 Una colonia: Paestum
I primi greci giunti in Italia provenivano dall’isola Eubea e si insediarono nel 750 a.C. ad Ischia, allora chiamata Pithekoussai. Altri, provenienti da Corinto fondarono Siracusa, e successivamente i calcidesi fondarono Cuma, i megaresi Augusta, gli achei Crotone e gli spartani Taranto. Appena dopo un secolo, questi centri erano già talmente prosperosi e potenti da fondare essi stessi altre città come Selinunte, Neapolis, Poseidonia e nel V secolo altri greci, tra cui Pitagora, contribuirono alla nascita di Pozzuoli.
Le colonie erano nuove città fondate per evitare la sovrappopolazione e che l’incremento demografico riducesse il potere e le risorse economiche dello stato greco. Queste nuove città della Sicilia e dell’Italia meridionale, erano autonome rispetto alla madre-patria, ma nonostante ciò erano legate ad essa da continui scambi commerciali e culturali, con un movimento oltre che di merci, anche di idee ed artisti. Talmente imponente fu la colonizzazione greca dell’Italia meridionale, da conferire all’insieme di colonie fondate il nome di Magna Grecia. Alcune colonie divennero più ricche e potenti della stessa città da cui provenivano i fondatori.
Gli storici evidenziano il carattere dorico come quello caratterizzante l’architettura delle colonie e sottolineano anche il ruolo assolutamente non passivo giocato dalle popolazioni autoctone che assorbirono la cultura greca ma, nel contempo, contribuirono anche al suo progressivo arricchimento, con la propria storia e tradizione. Importanti furono i contatti con la civiltà micenea avvenuti prima della colonizzazione greca, che in parte influenzarono l’architettura della Magna
Grecia. A conferma di ciò, il capitello a corona di foglie bacellate della Basilica di Paestum (VI secolo a.C.), che trova il suo riscontro in un capitello pre-ellenico, presente in un tempio dell’Acropoli di Tirinto, denominato appunto capitello
achèo.
I coloni greci di Sìbari, fondarono nel VII secolo la città di Poseidonia, oggi meglio conosciuta con il nome che le diedero e romani: Paestum. Essa è situata nella valle del fiume Sele, tra le propaggini occidentali dei Monti Alburi ed il mare. In essa, vennero costruiti tre templi che sono giunti fino a i giorni d’oggi e che costituiscono un’importante testimonianza dell’ordine dorico arcaico:
Tempio di Cèrere; La Basilica;
Tempio di Nettuno.
4.1.6.1 Tempio di Nettuno (V secolo.a.C.)
Si annovera come uno degli esempi meglio conservati e migliori di dorico maturo, attento alla perfezione e al rispetto delle
regole. Il materiale votivo trovato negli stipi del tempio, ha permesso di ipotizzare che l’edificio sacro riportato in figura 4.3, fosse dedicato alla dea
Hera e non a Poseidon (Nettuno), il dio
protettore della città.
Come gli altri templi greci, presenta la
faccia rivolta verso l’oriente e tutte le componenti architettoniche in relazione tra loro, dal punto di vista sia della logica sia delle proporzioni. Esso è periptero con 6 colonne sui fronti (esastilo) e 14 sui lati, aventi un interasse di 4,5 metri. La loro altezza, compreso il capitello, è pari a 8,88 metri, quella degli architravi e del fregio è rispettivamente pari a 1,488 e 1,433 metri. Le colonne sono caratterizzate da un’entasi non tanto pronunciata, con il diametro che varia da 2,052 alla base a 1,493 metri in sommità. Il peristilio, il cui calpestio è sensibilmente più in basso rispetto a quello del naos, è più largo rispetto al corrispondente spazio dei templi della Grecia metropolitana. Infatti, una caratteristica dei templi delle colonie è
Figura 4.3: Tempio di Nettuno, Paestum, V sec a.C. (Adorno, 1986)
quella di presentare grandi spazi, atti ad accogliere nel tempio le masse di fedeli, a differenza di ciò che avveniva nella madre-patria.
Questo tempio presenta caratteristiche più severe e più arcaiche di quelle delle coeve costruzioni della Grecia. Basta pensare al fatto che il Tempio di Nettuno è contemporaneo al Partenone, ma le novità introdotte da Fidia, tardavano a giungere in un logo come Paestum, lontano da Atene e maggiormente legato alle proprie tradizioni.
Dal punto di vista dei materiali usati, i costruttori del tempio scelsero: 1. travertino, per gli elementi strutturali;
2. arenaria, per i triglifi e le cornici del fregio.
Il travertino venne usato per realizzare gli elementi portanti della struttura a trilite, cioè colonne, capitelli ed architravi. Essi dovevano assorbire grandi sforzi ma non svolgevano alcuna funzione decorativa, coerentemente con la scarsa lavorabilità del travertino tramite scalpello. Attualmente, le colonne in travertino mostrano i segni del degrado: cavità rimaste al posto degli steli vegetali, in origine mescolati al carbonato di calcio, precipitato nelle acque paludose che per due millenni caratterizzarono la pianura malsana ed acquitrinosa del fiume Sele.
L’arenaria si distingue per il colore bruno-giallastro. Alla caratteristica di buona lavorabilità, necessaria per realizzare gli elementi con ruolo decorativo, accoppia però la scarsa resistenza al degrado, dovuta alle trasformazioni fisico-chimiche. Infatti, l’acqua entra nella pietra e deposita cristalli di sale che, rigonfiandosi all’interno dei fori, producono uno stato tensionale che tende ad espellere le scaglie superficiali. La pietra, avendo una bassissima resistenza a trazione non riesce a contenere questa spinta verso l’esterno e inoltre, nel caso in cui l’acqua lievemente acida rimanga nei capillari per molto tempo, essa reagisce con i sali minerali presenti nell’arenaria (i silico-alluminati) e li trasforma in materia argillosa di scarsissime qualità meccaniche. Si verifica così il fenomeno della sfaldatura, notevolmente favorito da una elevata microporosità, come appena dimostrato.
Da ricordare che il tempio era rivestito da uno strato di stucco chiaro che gli conferiva un aspetto marmoreo e che, nel coronamento, vi erano parti
vivacemente colorate. Quest’ultima peculiarità è tipica delle costruzioni del mediterraneo, dovuta all’intensa luminosità delle località meridionali che ha sempre costretto, fin dall’antichità, ad accentuare il valore cromatico delle superfici per superare l’abbagliamento solare.