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Come conseguenza degli eventi succedutisi nei primissimi anni settanta, con il cambiamento della leadership in campo petrolifero, e come conseguenza ad una domanda mondiale in continua crescita, era necessaria la ricerca di nuove fonti energetiche. Le Compagnie, per aggirare i diktat dell’OPEC, oltre a caldeggiare l’ipotesi della ricerca di nuove fonti energetiche come il nucleare, optarono per la diversificazione dell’approviggionamento di petrolio, in particolare in Alaska e nel Mare del Nord.

225

Ibidem.

127

6.1 la scommessa del Nord Europa

La crisi del ’73 accelerò i tempi per lo sfruttamento dei bacini offshore del Mare del Nord, diviso tra governo inglese, colpito in maniera considerevole dalle misure dell’embargo, e quello norvegese. L’attività di ricerca in questa zona del pianeta iniziò soltanto dopo la spartizione dei fondali marini, in ottemperanza alla Convenzione di Ginevra del 1958. Con la Continental Shelf and territorial sea regulation227, al

governo britannico venne attribuita la metà a ovest delle acque, mentre il settore est venne attribuito alla Norvegia.

Il governo britannico optò per un sistema di licenze, che avrebbe autorizzato le Compagnie che avevano i requisiti necessari per la ricerca. Quelle che si aggiudicarono i lavori furono ben 12. Tra queste le più grandi anglo-americane, e le indipendenti, in virtù della loro esperienza pluriennale. Se si vuole avere un’idea della loro presenza nei due settori, in percentuale, esse operavano per il 47% in Norvegia e per il 43% in Gran Bretagna228.

Una variabile da tenere in considerazione, erano le condizioni meteorologiche molto precarie a cui la zona era soggetta, oltre al fatto

227 Spantigati, , Petrolio, op.cit. p. 56.

228

Macaulay Alexander, John, North sea oil, Department of Library and Business information, Edimburg College of Commerce, 1974, p. 17.

128 che non si trattava di lavorare sulla terraferma, ma su delle

piattaforme, che per quanto stabili, dovevano resistere alla forza del mare. Erano quindi necessari ingenti capitali da investire per realizzazione dello sviluppo dei bacini.

Anche se le prime ricerche venivano datate alla fine degli anni cinquanta, fu solo alla fine degli anni sessanta che i britannici dimostrarono un forte interesse nella ricerca di greggio, a causa dell’irrompere imminente dell’OPEC sulla scena petrolifera mediorientale.

La prima significativa scoperta di indrocarburi fu quella portata avanti dalla Exxon-Shell, quando nel 1959, scoprirono a Groningen, un giacimento di gas229. Il successo di Groningen fu un monito per le altre Compagnie, che ben presto si attivarono nell’esplorazione dei bacini offshore nel Mare del Nord, ma per la scoperta del petrolio si dovette attendere ancora un decennio.

Il 1969 fu un anno di festeggiamenti, grazie alla scoperta da parte della Phillips, dopo, una serie di insuccessi, del gigantesco giacimento di Ekofish nel settore norvegese230 e dell’Amoco, che in quello britannico scoprì il giacimento Montrose.

Le scoperte si susseguirono negli anni seguenti con un ritmo incalzante.

229 Yergin, Il premio, op.cit. 544.

129 Un anno dopo, nel 1970, la BP scoprì il campo Forties, a 110 miglia a

nord di Aberdeen231. Solo un anno più tardi la Exxon e la Shell scoprirono il giacimento del Brent, che, per analogia, diede il nome alla qualità di greggio proveniente da quella parte del globo, fungendo da benchmark nei mercati internazionali.

Furono ben 52 le licenze concesse. Oltre alla Exxon –Shell, la BP e la Phillips, si immersero nelle acque del nord anche le americane Mobil, Chevron (ex Socal) e la Texaco, appena spodestate, seppur parzialmente, dal Regno saudita. La prima si aggiudicò il giacimento di Statfjord e Beryl, la seconda quello di Ninian e Dan e la Texaco quello di Tartan, con dei risultati eccezionali232.

Per quanto il prezzo fosse di gran lunga più elevato rispetto alla varietà Arabian light, nei primi anni di produzione non fu effettivamente realizzato dai consumatori, in quanto dal 1970 fino all’embargo OAPEC i prezzi del petrolio mediorientale erano quadruplicati. Quindi la differenza non era stridente, e il petrolio del Mare del Nord, rappresentò una valida alternativa a quello mediorientale, almeno negli anni settanta233.

231

Ibidem.

232 Macaulay Alexander, John, North sea oil, Department of Library and Business

information, Edimburg College of Commerce, 1974, pp.16-18.

130 Infatti è stato stimato che la produzione britannica già nel 1977

ammontava a 38 milioni di tonnellate al giorno, mentre quella norvegese a 16234. La produzione avrebbe poi raggiunto il picco alla fine degli anni ottanta, per poi diminuire dagli anni novanta, a causa degli ingenti costi di estrazione e degli ingenti rischi ambientali.

6.2. L’Alaska

La diversificazione spaziale, come politica intrapresa dalle Compagnie anglo-americane per la ricerca di nuove fonti petrolifere al di fuori dell’area OPEC, spinse queste ultime a spostare la loro attenzione in Alaska.

Il territorio, se dal punto di vista politico presentava il vantaggio di vantare un governo stabile, appartenendo alla Federazione degli Stati Uniti, presentava gli stessi connotati geografici dei giacimenti del Mare del Nord, cioè si trattava anche in questo caso di bacini offshore.

Dal punto di vista legislativo, fin dal 1920 lo Stato dell’Alaska aveva autorizzato l’esplorazione e lo sviluppo e la produzione di ogni risorsa

131 naturale, stabilendo inoltre delle condizioni, limiti e royalties ben

precise235.

Le prime trivellazioni vengono datate già negli anni venti, a opera della Standard Oil of California236, ma si dovette aspettare gli anni sessanta per la scoperta di giacimenti di notevole rilevanza.

Ancora una volta protagonisti del petrolio in Alaska furono le Compagnie Anglo- americane, che nella metà degli anni sessanta approdarono nella freddissima regione del North Slope.

La Standard Oil of New Jersey, in collaborazione con la Richfield Oil, una indipendente californiana, riuscì ad acquisire 2/3 della Prudoe Bay237. La percentuale restante venne acquisita dalla BP in collaborazione con la Sinclair Oil.

La più grande scoperta del petrolio in Alaska, fu quella condotta nel 1968238, dall’ARCO, un consorzio costituito dalla Richfield Oil e dalla Atlantic Refining, presieduto dal presidente Anderson.

Dopo mesi di ricerche, nel dicembre del 1968 si pervenne alla scoperta di un giacimento, definito supergiant, nel pozzo n.1 a Prudoe Bay, che si affaccia sul Mare Artico.

235

www.princeton.edu.gov

236

Jerry McBeath, The political economy of oil in Alaska : multinationals vs. the state, Lynne Rienner, Publishers, 2008, p. 25

237 Daniel Yergin, Il premio, op.cit. p. 470. 238

132 Le stime dei geologi erano chiare, si trattava del più grande giacimento

nord americano, il terzo al mondo dopo quello di Ghawar in Arabia Saudita e dopo quello di Bugar nel Kuwait239.

L’enorme quantitativo di greggio avrebbe, ridimensionato la dipendenza americana del petrolio proveniente dal Medio oriente, se non avesse incontrato l’ostacolo del trasporto.

Quello del trasporto, fu un problema che impedì fin da subito l’arrivo del greggio fino agli Stati Uniti, in quanto la costruzione di un oleodotto che avrebbe trasportato il greggio dall’Alaska negli Stati più a sud, incontrò le proteste degli ambientalisti e della popolazione locale, per l’impatto negativo che avrebbe avuto sull’ecosistema. Per questo motivo il tentativo dell’ARCO, della BP e della Humble Oil di costruire la Trans –Alaska Pipeline System, fu bloccato sul nascere240.

Dopo anni di dibattiti, nel 1974, in piena crisi energetica, il Congresso decise di autorizzare la costruzione dell’oleodotto, che iniziò ad essere operativo solo tre anni più tardi241. L’importante opera ingegneristica, orgoglio della nazione, ebbe un costo di 8 miliardi di dollari e già

239

Daniel Yergin, Il premio, op.cit. p. 471.

240

http://www.akhistorycourse.org/articles/article.php?artID=140

133 nell’anno successivo immetteva oltre un milione di barili al giorno nel

mercato USA, arrivando a superare i 2 milioni nei primi anni ottanta242.

134

CAPITOLO 4

La breve parentesi dell’età dell’oro dell’OPEC si può riassumere nel biennio che va dal 1974 al 1975.

In quel breve periodo il nuovo cartello243 alle redini dell’industria mediorientale, riuscì, anche se con enormi difficoltà iniziali, ad imporsi sulla scena petrolifera, esercitando finalmente quel potere che si prefiggeva fin dai tempi della sua costituzione, dato che controllava circa il 55% della produzione mondiale244.

L’impianto del cartello però non poggiava su solide fondamenta. L’equilibrio e la stabilità in seno all’Organizzazione erano state fino ad allora garantita dall’Arabia Saudita, il cui ruolo guida è stato già illustrato nel capitolo precedente.

Lo shock petrolifero del 1973 rappresentò una pietra miliare.

Da quel momento venne inaugurata una politica rialzista, sostenuta soprattutto dai cosiddetti “ falchi” dell’organizzazione, ovvero Libia e Iran in testa, seguiti da Algeria, Nigeria, Iraq, Gabon ed Ecuador. La politica rialzista incontrava spesso i dinieghi sauditi e degli Emirati Arabi, che puntavano sempre al ribasso, in ottemperanza alle richieste di Washington, portavoce del mondo industrializzato245.

243 L’OPEC, come le Sette sorelle, è stato definito un cartello da più autori,

come Maugeri e Ali Johani.

244

Leonardo Maugeri, Petrolio, op.cit. p. 53.

135 Le politiche divergenti in materia di prezzo vanno spiegate tenendo

conto, oltre alla dimensione politica, delle esigenze interne246.

La scelta saudita, capofila dell’ala moderata, di mantenere un prezzo ragionevolmente equilibrato derivava anche dal fatto che il paese, presentando un basso tasso demografico, non avendo particolari esigenze di investimenti interni, non nutriva la necessità di incamerare introiti sempre crescenti, a differenza del vicino Iran, il cui tasso demografico era in continuo aumento.

Per i sauditi esisteva un’altra motivazione di fondo: essendo il paese con il più alto numero di riserve, la crescita del prezzo del petrolio poteva indurre più facilmente il mondo occidentale a ricorrere ad altre fonti energetiche, una situazione che avrebbe significato un accumulo sconfinato di greggio nei bacini sauditi e il collasso di un’ economia. Paesi come l’Iran, la Libia, e gli altri a seguire, vantavano un tasso demografico di gran lunga superiore rispetto all’ala moderata247

, pertanto, necessitavano di maggiori introiti per finanziare lo sviluppo locale, e non da ultimo, presentavano un saldo passivo nella bilancia dei pagamenti. Inoltre, un innalzamento del prezzo del greggio poteva

246 Giuliano Garavini, Dopo gli imperi, op. cit. p. 230.

247 Per esempio, la popolazione dell’Arabia Saudita era ¼ di quella iraniana.

136 essere legittimato in ragione dell’innalzamento dei prezzi di altre

materie prime a livello globale, come il grano.

La fine della compattezza dell’OPEC, risiedeva proprio nella mancata convergenza di interessi e vedute tra paesi membri, che erano caratterizzati da una storia e da una politica interna ed estera differente248.

Ciò che accomunava i paesi esportatori era l’ondata di petrodollari che inondò le casse dei governi di tutti i paesi esportatori e che generò un

surplus esponenziale. Infatti è stato stimato che dal 1973 al 1977

questo passò dai 3,5 a 40 miliardi di dollari249.

Se nella prima metà degli anni settanta, il Medio Oriente si trovò impegnato ad affrontare la guerra del Kippur, la seconda metà fu scandita da una serie di accordi che di volta in volta decretavano un incremento del prezzo del petrolio con la conseguenza di generare frizioni fra paesi membri.

Si vedrà infatti che proprio dal 1975 mancò quell’unità d’azione che avrebbe dovuto caratterizzare le scelte OPEC, secondo quanto contemplato dallo Statuto stesso.

248 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/10/23/la-crisi- naviga-nel-golfo.html 249

137 Senza ombra di dubbio l’Arabia Saudita, anche dopo gli eventi del

1973 è riuscita a condurre la leadership dell’Organizzazione, rivestendo il ruolo di price leader, monitorando l’andamento dei prezzi, aumentando o diminuendo la produzione250 quando fosse stato necessario.

Il Vertice di Vienna del 1975, per esempio, fu l’occasione dell’ennesimo scontro tra l’ala moderata e quella rialzista.

Alla proposta iraniana di un incremento del 20%, l’Arabia Saudita si oppose con un congelamento dei prezzi251, ma alla fine della Conferenza si pervenne ad un incremento unanime del 10% .

Solo un anno dopo però Yamani si impose. Nel successivo Vertice di Doha del 1976, Yamani decretava un congelamento dei prezzi, tanto che da quella volta l’Organizzazione si divideva: l’Arabia Saudita seguita dagli Emirati Arabi, optò per un congelamento dei prezzi, mentre l’ala rialzista decretò un incremento del 15%, consapevoli che le loro mire al rialzo sarebbero state neutralizzate da un incremento della produzione saudita252.

Yamani, nonostante le intimidazioni di alcuni membri dell’Organizzazione, fra tutti l’Algeria, attuò un incremento della

250 Si ricorda che il potenziale produttivo saudita è il più alto al mondo. 251 Spantigati, Petrolio, op.cit. p. 36

252

138 produzione, superando di gran lunga il tetto di produzione. Da

8.840.000 del 1976 a 10.700.000 del 1977253.