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Una visione d’insieme

Dopo aver preso conoscenza della visione degli operatori e di quella dell’utenza è ora possibile verificare se vi siano delle congruenze tra i dati emersi.

Anche qui ho deciso di mettere in luce degli indicatori: ho scelto il linguaggio, i rapporti con il territorio e accessibilità del servizio, collaborazione e partecipazione, autodeterminazione e empowerment. Infatti dopo un attenta analisi sono giunta a comprendere che questi sono elementi centrali per un’analisi del processo inclusivo e sono elementi chiave per la realtà di Casa Faro in quanto emergono molti elementi interessanti sia dai questionari che dalle interviste e anche dall’osservazione.

Linguaggio:

Per quanto riguarda il linguaggio posso constatare dalle risposte ricevute sia dagli operatori che dagli utenti che Casa Faro ponga una particolare attenzione su quest’aspetto. Vi sono però ancora dei miglioramenti possibili, in quanto vi sono delle forme di linguaggio a cui ancora non viene data abbastanza importanza: come Ascanio, anche altri utenti potrebbero preferire, infatti, altre forme di comunicazione, diverse da quella verbale. Ampliare gli orizzonti e andare oltre i normali schemi implica un notevole sforzo in più da parte degli operatori, ma porta sicuramente a dei grandi vantaggi. Pensare anche a forme diverse di comunicazione permette, infatti, a persone come Ascanio di abbattere una grande barriera. «Il coinvolgimento delle persone con disabilità […] ha tra le altre cose, il merito di consentire il riemergere di una pluralità di linguaggi, capace di sfidare l’egemonia del linguaggio scritto e abile obbligando le intelligenze umane a

trasformarsi in reti complesse di interpretazione e a costruire spazi di conversazione plurimi e poliedrici54».

Come affermato anche in Disability studies. Emancipazione, inclusione scolastica e

sociale cittadinanza55: «Lo spazio parla, comunica, relaziona costituendosi così come un

sistema culturale in cui la denominazione del luogo con scritte o icone identifica e proietta rappresentazioni: il luogo e il linguaggio che lo definisce dicono della disabilità, parlano di essa, intrappolandola così in un discorso che le impedisce di uscire dai vincoli che il luogo gli ha posto».

L’inclusione porta dunque a pensare oltre gli schemi, implica favorire una partecipazione non ridotta al contesto, ma estesa anche al territorio circostante.

Con il proprio disegno, Ascanio ha stupito tutti gli operatori, soprattutto quelli che lavorano con lui da diversi anni, facendo emergere una parte biografica di sé molto importante, di cui nessuno era a conoscenza.

In un’ottica inclusiva è importante dar spazio alla biografia della persona: «attraverso la propria narrazione, infatti, si entra nel merito della proposta socioeducativa del servizio di riferimento, individuando elementi problematici, risorse possibilità e barriere». Inoltre «l’ascolto e pieno coinvolgimento delle persone con disabilità […] permettono di far emergere elementi di una realtà personale che va ben oltre la condizione individuale56».

Rapporti con il territorio e accessibilità del servizio:

Da quanto emerso sia dai questionari degli operatori che dall’intervista, è evidente che Casa Faro risulta essere percepita come una struttura abbastanza chiusa e poco accessibile dall’esterno.

Come già affermato, le attività sono svolte in prevalenza con le persone che vivono a Casa Faro o con persone di altri istituti. Vi è ancora poco dialogo con il territorio circostante. Ciò accade anche in altri istituti in cui ho lavorato, come ad esempio il Foyer Casa Bianca dell’OTAF, in cui vi era la stessa tendenza.

La disabilità e l’istituzionale ad essa legata portano, come sostenuto da Murphy57, a una ridefinizione e a una ricollocazione sociale in cui vi è una riduzione quantitativa e qualitativa dell’universo relazionale.

La persona si ritrova così in una condizione di vita sospesa, liminale, ovvero in una sorta di limbo sociale, in una condizione di vita sospesa58, in cui ha poche occasioni di incontrare nuove persone con cui stringere dei legami.

                                                                                                               

54 Medeghini R. et al., Inclusione sociale e disabilità.  Linee guida per l’autovalutazione della capacità inclusiva di un

servizio, op.cit., p. 61.

55 Medeghini R. et al., Disability studies. Emancipazione, inclusione scolastica e sociale, cittadinanza, Trento, Erickson, 2013. p. 82

56 Medeghini R. et al., Inclusione sociale e disabilità.  Linee guida per l’autovalutazione della capacità inclusiva di un

servizio, op.cit, p.52  

57 Robert Murphy, direttore del dipartimento di Antropologia alla Columbia University,

58 Murphy descrive la condizione di liminalità, ovvero il limbo che afflige chi è disabile, come una condizione di vita sospesa, in cui la persona non è né sana né malata e in cui si dichiarano diritti e possibilità d’azione, ma allo stesso tempo si definiscono rappresentazioni e condizioni che generano dipendenze. Cfr. Medeghini R. et ali, Disability studies, cit., p.74.

Gli spazi di Casa Faro inoltre non sono inoltre accessibili a persone esterne: l’atelier ad esempio, resta chiuso al di fuori dagli orari di lavoro e alle persone esterne non è permesso utilizzarne lo spazio in maniera costruttiva.

Sarebbe invece importante in un’ottica inclusiva che il servizio facesse parte del territorio, aprendo i suoi spazi e creando delle occasioni per stare bene tutti assieme.

Nel libro Idee per l’inclusione: dalla cura della persona alla cura del territorio59, a proposito di ciò si afferma che: «Fare azione nel territorio per promuovere l'inclusione significa essere soggetti del cambiamento culturale e sociale, laddove i servizi per disabilità sono presenti, acquistando un ruolo che sappia trasformarli in punto di riferimento, non solo per le persone con disabilità e le famiglie, ma anche per altre realtà, cittadini, associazioni, altri servizi e mantenendo reti di accordo e se necessario di coordinamento. Attraverso strategie per generare forme di collaborazione utili a promuovere partecipazione, cittadinanza, appartenenza e benessere collettivo. In modo da generare piccoli cambiamenti nel modo di pensare e gestire i servizi, strutture, interventi, pratiche e attività affinché essi acquisiscano un valore inclusivo e senza costi aggiuntivi, perché cambiare il modo di pensare costa fatica ma non richiede nuove risorse».

Solo aprendo le porte è possibile creare un dialogo costruttivo con il territorio, permettendo di uscire dalla logica ʽdentro/fuoriʼ e offrendo così anche al territorio la possibilità di conoscere realmente Casa Faro, abbattendo di conseguenza gli stereotipi che la circondano.

Partecipazione, Autodeterminazione e empowerment:

Da quanto emerso, posso dedurre che Casa Faro cerca di promuovere la partecipazione dei suoi ospiti e spinge all’autodeterminazione attraverso vari strumenti: vengono, infatti, proposte varie attività giornaliere tra le quali gli ospiti posso scegliere; gli spazi possono essere personalizzati e vengono anche organizzati dei momenti di espressione, durante i quali l’utenza può esprimere il suo parere su diverse situazioni. Casa Faro dispone anche di un formulario, nel quale gli ospiti possono segnalare eventuali critiche al funzionamento e all’organizzazione del servizio.

Risulta esserci però ancora una limitazione nell’autodeterminazione degli ospiti per quanto riguarda alcuni settori: la lavanderia, ad esempio, non è accessibile all’utenza, così come la cucina, che viene aperta dagli operatori solo durante i pasti, sebbene alcuni degli ospiti abbiano espresso il desiderio di poterli aiutare nella preparazione. Esiste un’attività legata alla cucina, ma anche questa pone dei limiti agli ospiti, giacché il menù viene scelto dall’operatore..

Il fatto di non poter cucinare o accedere alla lavanderia potrebbe, secondo me, costringere le persone in un indifferenziato temporale: infatti viene loro negato di eseguire dei compiti che qualunque adulto al di fuori dell’istituto potrebbe compiere. Si crea dunque                                                                                                                

59 Nuzzo A., Idee per l’inclusione. Dalla cura della persona alla cura del territorio, in Medeghini R. et al., Inclusione

Sociale e disabilità. Linee guida per l’autovalutazione della capcità inclusiva dei servizi, Trento, Erickson, 2013, pp. 73-

nuovamente un netto contrasto tra dentro/fuori, limitando spazialmente l’esperienza della persona con disabilità. Sarebbe invece importante per un servizio riconoscere l’adultità della persona e creare le necessarie condizioni affinché questa possa vivere lo statuto di adulto in tutti i suoi aspetti.

È inoltre emerso che la maggior parte degli ospiti si riconosce nei progetti di sviluppo individuale e questo dato è confermato anche dagli operatori: nella progettazione viene dato ampio spazio alle aspettative dell’utenza e vengono accolte le varie richieste, ponendo tuttavia degli obiettivi condivisi e realistici.

Gli ospiti si sentono inoltre supportati dagli operatori nei loro progetti di vita e si sentono liberi di confidare le difficoltà quando emergono e chiedere il supporto necessario per affrontarle.

Risulta tuttavia come nella progettazione venga a mancare in parte un estensione del progetto al territorio, rendendo così l’esperienza di vita della persona piuttosto limitata al servizio.

Collaborazione:

In un’ottica inclusiva la collaborazione tra gli attori della rete è fondamentale: ogni membro è parte importante della rete e ne costituisce un nodo essenziale.

Senza una vera collaborazione, il progetto rischia di non essere condiviso e potrebbe dunque creare una barriera per la persona in istituto.

«Prendersi cura di qualcuno significa comprendere quanto l’ambiente sociale in cui si

opera e la qualità delle relazioni che in esso si sviluppano siano determinanti nel costruire esclusione e disagio piuttosto che inclusione e benessere” dunque è

importante “ promuovere occasioni d’inclusione sociale e di sensibilizzazione

attraverso la costruzione di esperiente e contesti dove relazionarsi, annodando reti informali che coinvolgano in progetti concreti e di varia natura i semplici cittadini, le istituzioni, le scuole, gli oratori, i centri giovanili,…. Creare occasioni per stare bene

assieme»60.

Da quanto emerso dal questionario e dalle interviste a Casa Faro vi è una collaborazione tra gli attori della rete, ma questa a volte sembra essere limitata, soprattutto per quanto riguarda i famigliari e il territorio. Il rischio è quello che si crei un’autoreferenzialità dei servizi, favorendo così una separazione netta tra due mondi: quello all’interno dell’istituto e quello all’esterno.

Il servizio deve invece divenire parte del territorio, non deve più essere visto come un’offerta limitata a una categoria di persone, ma come un servizio rivolto all’intera collettività, pronto ad accogliere e a collaborare con i cittadini e con le altre associazioni, affinché si possa creare un luogo di vita per la comunità. Solo in questo modo si permetterà alle persone di partecipare attivamente a un mondo fino ad ora rimasto                                                                                                                

60 Nuzzo A., Cittadinanza, umanizzazione e dignità nella presa a carico delle persone adulte con disabilità complesse, Forum sulla non autosufficenza Bologna, in :

nascosto, così da coglierne le risorse ed eliminare gli vari stereotipi sulla disabilità. Come in ogni esperienza ciò che non si conosce spaventa, e spesso ci si lascia influenzare dai preconcetti. Solo una volta entrati in quel mondo ci si potrà rendere conto di quanto sia simile al nostro. In questo modo sarà anche possibile avviare un processo di cambiamento culturale e sociale, che certamente richiederà tempo, ma che permetterà di garantire una piena partecipazione di tutti.

Come anticipato, vi sono alcuni questionari che sono risultati incompleti. Agli operatori in questione mancavano molteplici informazioni necessarie alla compilazione dello stesso. Anche altri operatori che hanno finito il questionario hanno presentato delle difficoltà nella compilazione della parte riguardante le formazioni: molti hanno ammesso di non sapere se i colleghi avessero seguito o meno dei percorsi formativi in campo inclusivo. Questo mi fa pensare che vi potrebbe essere una difficoltà nel passaggio di informazioni all’interno dell’équipe, tesi sostenuta anche da Marilù che nell’intervista afferma che «non capisco di cosa parlano gli operatori durante lo scambio della 13, visto che le informazioni non vengono passate».

Da quanto ho potuto osservare, nell’équipe di Casa Faro vi potrebbe effettivamente essere una difficoltà di questo tipo: come stagista, mi sono resa conto di come molte volte fossi io a dover dare ragguagli agli altri operatori, poiché durante il cambio di fine turno, spesso per mancanza di tempo, le informazioni erano dimenticate o tralasciate. È importante che vi sia collaborazione anche all’interno dell’équipe e che le informazioni siano accessibili a tutti; una mancanza in questo senso potrebbe infatti creare dei disagi all’utenza e generare ostacoli nel progetto di vita della persona.

5. Conclusioni

5.1 Riflessione generale sul lavoro svolto e ruolo dell’operatore sociale

Questo lavoro di ricerca mi ha portato a riflettere su quanti siano gli aspetti legati al tema dell’inclusione e su quanto ancora si debba fare affinché la società in cui viviamo diventi a misura di tutti.

Ho compreso che inclusione significa non solo pensare in grande, ma soprattutto concentrarsi sui piccoli aspetti quotidiani. Spesso, presi dai tempi frenetici del nostro lavoro che ormai vanno di pari passo a quelli della società, perdiamo di vista questioni importanti. Ho compreso anche che non esiste una ricetta magica che possa venir applicata ad ogni istituto per far sì che vi sia inclusione, poiché questa è il frutto di un processo che richiede molto tempo e tante energie e soprattutto è un percorso individualizzato. Ad esservi implicato non è solo l’istituto o la persona, ma la collettività tutta, politiche comprese.

Assumere un’ottica inclusiva non è sempre facile perché spesso significa sforzo, andare oltre la rassicurante routine, problematizzare le situazioni alla ricerca di barriere e ostacoli, al fine di rimuoverli e superarli. Anche l’operatore sociale è chiamato a cambiare la propria

identità: non deve più essere colui che aiuta una persona bisognosa, limitandosi a una semplice dualità operatore- utente, ma deve essere un operatore pronto a superare le mura dell’istituto e a creare nella società le condizioni necessarie affinché la persona possa sentirsi partecipe della vita della comunità.

5.2 Difficoltà

Durante questo lavoro di ricerca ho riscontrato varie difficoltà, prima tra tutte quella nel delimitare l’ambito di ricerca poiché, spinta dall’entusiasmo, sentivo il desiderio di includere molti più aspetti di quelli che in realtà riguardano il tema dell’inclusione.

Inoltre, avendo utilizzato tre diversi strumenti di ricerca, non è stato facile riuscire a conciliare i tempi per raccogliere tutti i dati necessari: per svolgere le interviste, per esempio, ho dovuto trovare dei momenti che andassero bene agli ospiti e che allo stesso tempo si accordassero a quelli della struttura.

Come già accennato, Inoltre, durante le interviste vi sono state delle interruzioni da parte degli operatori, che hanno involontariamente modificato lo stato d’animo di chi avevo di fronte e in parte compromesso il mio lavoro. Altre volte, la maggiore difficoltà è stata quella di riuscire a far pienamente comprendere la domanda al mio interlocutore. Sono stata spesso costretta a ripetere e riformulare la domanda parecchie volte prima di ottenere una risposta che fosse coerente.

Durante le primissime interviste, inoltre, una difficoltà personale è stata quella di formulare le domande in maniera neutra, perché mi sono accorta che talvolta concludevo il mio quesito con parole come «vero?» o «neh?». Anche la trascrizione delle risposte è stata impegnativa e ha richiesto molto tempo. D’altro canto devo ammettere che le interviste hanno reso il mio lavoro molto piacevole: dar voce a chi abita nella struttura, sentirne le idee e le opinioni, mi ha molto arricchita professionalmente. Troppo spesso, infatti, si ha la tendenza a dimenticare di chiedere l’opinione a chi la disabilità la vive tutti i giorni.

Gli stessi questionari hanno posto varie difficoltà e in taluni casi è stato necessario assistere gli operatori durante l’intera compilazione, poiché molte domande risultavano di difficile comprensione, soprattutto per gli operatori con formazioni diverse da quella educativa. Anche l’analisi dei dati ottenuti è stata impegnativa, perché ha richiesto l’uso di strumenti statistici per poter ottenere una visione globale dei risultati.

5.3 Riflessioni sulla domanda di ricerca e conclusioni

Come un contesto istituzionale come Casa Faro può promuovere l’inclusione delle persone che ospita e accompagna in tutti i suoi aspetti? Quali dinamiche possono invece frenare tale processo? Questa è la domanda che ha guidato il mio lavoro e, conclusa la

ricerca, ho compreso come possa essere estesa a ogni realtà istituzionale, ma anche a ogni semplice cittadino. Grazie anche le direttive ONU, promuovere l’inclusione è infatti un obiettivo primario che richiede la piena collaborazione di tutti: delle istituzioni e delle politiche ma anche, e soprattutto, dell’intera collettività.

Le analisi mi hanno fatto comprendere che promuovere l’inclusione significa uscire dai classici schemi in cui la persona disabile è bisognosa di assistenza e ha la necessità di essere collocata in una struttura che da sola si occuperà di ripristinarne una condizione il più simile vicino alla normalità.

Come sostenuto dal professor Medeghini, nessuno nega che alle persone con disabilità servano delle attenzioni speciali, ciò che si mette in discussione è il fatto che queste attenzioni speciali debbano essere date soltanto all’interno di luoghi speciali. Tali attenzioni possono, infatti, essere date anche dal di fuori della struttura, in qualsiasi luogo, ciò che si rende necessario è un dialogo utile ad abbattere le barriere che confinano le persone e ne limitano le esperienze di vita.

Casa Faro promuove dunque l’inclusione dei suoi ospiti all’interno della struttura favorendo l’autodeterminazione tramite alcune libertà, come la scelta degli arredi della propria camera, e proponendo varie attività opzionali, con le quali creare occasioni in cui stare tutti assieme, nonché organizzando attività al di fuori dell’Istituto stesso. Il tentativo di aprirsi all’esterno è evidente in alcuni progetti che Casa Faro sta avviando, come in quello del mercatino, o in collaborazioni con altri servizi, come i bar.

Vi sono vari fattori che possono invece frenare il processo inclusivo ecco quelli che sono emersi maggiormente in questo lavoro di ricerca.

Il linguaggio: Casa Faro utilizza prevalentemente un linguaggio orale, questo delimita la

possibilità di espressione di alcuni utenti.

La collaborazione: la collaborazione con i membri della rete è limitata e vi sono ancora

dei soggetti che ne rimangono in parte esclusi, come i famigliari. Anche il territorio non è sufficientemente preso in considerazione nei progetti. Come visto anche il passaggio di informazioni all’interno dell’équipe non funziona in maniera ottimale.

Il territorio: Casa Faro si trova in un quartiere residenziale particolare. Questo territorio,

così come l’Istituto, rimangono piuttosto chiusi in sé stessi, e la struttura è influenzata dalla visione negativa e stigmatizzante che la popolazione ha di essa. Ad aggravare questa situazione è il fatto che la Casa non offra attività aperte ai cittadini, e che limiti i suoi spazi a chi vi abita, generando un’autoreferenzialità che riduce al minimo le relazioni tra gli utenti e l’esterno. L’utilizzo di mezzi di trasporto speciali, inoltre, non fa che limitare ulteriormente il contatto degli ospiti con il mondo esterno.

La comunicazione con l’esterno tramite media: il giornalino, che potrebbe essere uno strumento utile per affermare la partecipazione alla comunità degli utenti di Casa Faro, limita il processo inclusivo, perché distribuito solo all’interno del servizio e non coinvolge minimamente la comunità. Inoltre Casa Faro non dispone di una pagina web dove i cittadini possano informarsi sulla struttura.

Il regolamento: anche il regolamento di Casa Faro pone alcuni limiti al processo

inclusivo. Vietando l’accesso in alcune aree delle Casa e l’esercizio di talune attività non si permette alla persona di esercitare a pieno il ruolo di adulto e inoltre si viene a creare una situazione di bisogno e di dipendenza dall’operatore.

Le attività: come detto più volte, le attività vengono svolte prevalentemente con le

persone che vivono a Casa Faro o con altri servizi specializzati: le attività con i cittadini sono rare, delimitando così molto l’universo relazionale delle persone che abitano nell’istituto.

5.4 Interrogativi aperti

Il presente lavoro di ricerca mi ha permesso di individuare alcuni punti centrali, come le barriere all’inclusione, ma ancora non mi è facile comprendere come si possa avviare concretamente un processo di cambiamento che coinvolga il territorio e le politiche locali, affinché si possa uscire dal microcosmo di un servizio autoreferenziale per raggiungere più vasti orizzonti e una visione progettuale più ampia, che coinvolga tutti, e a lungo termine. L’inclusione è infatti un processo che richiede molto tempo e anche energie da