AREE MONTANE
L’esame degli ambienti umidi del Cadore, dei popolamenti presenti e delle trasformazioni avvenute consente di cogliere con evidenza un aspetto di immediata importanza conservazio-nistica: la correlazione tra i caratteri geografici dei luoghi ed i rischi cui detti habitat, incluse le loro faune, sono sottoposti. Appare infatti chia-ro, almeno come tendenza generale, che:
• i siti di bassa montagna sono più vulnerabi-li e più aggrediti di quelvulnerabi-li di alta quota;
• le valli fluviali sono più povere in aree umi-de rispetto alle conche e più in generale alle morfologie glaciali, e i siti vi risultano più esigui e più effimeri;
• le aree dolomitiche in senso stretto sono più povere in aree umide, e i siti sono più vul-nerabili, rispetto a quanto si osserva sopra formazioni silicee e scistose.
I motivi sono facilmente spiegabili.
Nei declivi compresi tra i fondo valle e i 1400 metri di quota sono compresi i centri abita-ti, e quindi è massima la presenza antropica la cui incidenza sugli habitat ha portato, con recenti accelerazioni, ad eliminazioni dirette e volutamente attuate di aree umide mediante prosciugamenti e interrimenti, ad estese urba-nizzazioni, a regimazione degli alvei. Anche processi indiretti legati all’attività umana, con particolare riferimento alle pratiche tradizio-nali mantenutesi nel tempo e al loro recente abbandono, sono all’origine di scomparse o compromissioni degli habitat in esame.
La zootecnia di montagna, che ha caratteriz-zato dall’antichità la gestione dell’ambiente rappresentando fin oltre metà Novecento un fattore centrale nell’economia delle comunità residenti, richiedeva sfalci estivi per la pro-duzione di fieno e con questi il mantenimen-to perenne delle estensioni prative di bassa montagna, liberate anticamente dai boschi e dominanti nel paesaggio. In vaste estensioni la matrice del tessuto ambientale era data nelle vallate dagli ambienti di luce; ma l’abbandono di quell’economia e di quelle pratiche, presso-ché totale in molti comuni, ha determinato in Cadore, a partire dagli anni Sessanta, la pro-gressiva riespansione del bosco, relegando le superfici aperte e luminose a spazi residuali sempre più limitati e isolati (nelle figg. 44 e 45 la vallata di Tai a metà Novecento e oggi). Con-testualmente si sono ridotti fino quasi a sparire i coltivi a mais e patate e gli orti che circonda-vano i paesi (fig. 46), rigorosamente
“biologi-Fig. 44 Tai e Pieve di Cadore visti dal Col Vacher in un’imma-gine di metà Novecento, con evidenzia del tessuto territoriale dominato dai prati e dai coltivi. Collezione B. Pagnussat
Fig. 45 La piana di Tai oggi (vista dalla strada per San Dio-nisio), con scomparsa generalizzata delle aree aperte fino a ridosso delle superfici urbanizzate. (Foto M. Boccanegra)
ci” ante litteram e per lo più ribordati da fiori e vegetazione spontanea (agli orti era associata, soprattutto in settembre, una concentrazione straordinaria di lepidotteri con abbondanza tra l’altro delle appariscenti vanesse Inachis io, Polygonia c-album, Vanessa atalanta, Nymphalis antiopa). Queste trasformazioni hanno inciso profondamente sulla biodiversità, con perdita progressiva delle biocenosi legate alle esten-sioni luminose degli agroecosistemi tradizio-nali; perdita che, per i motivi più avanti evi-denziati, ha inciso profondamente anche sugli ambienti umidi.
Le relazioni tra la riespansione del bosco e le cri-ticità che gravano sulle aree umide hanno effetti tanto più rilevanti quanto più queste sono esigue e disperse; il che chiama in causa il secondo
pun-to sopra elencapun-to, la loro scarsità e le loro ridotte dimensioni nelle valli fluviali rispetto a quanto si osserva sulle morfologie glaciali. Le valli fluviali (fig. 47) presentano tipiche sezioni a V, con ver-santi a pendii accentuati nei quali i ristagni e le raccolte di acqua sono relegati a rari tratti per lo più in corrispondenza di piccole selle o vallette.
In queste si originano usualmente copri acquei esigui e allungati, soggetti frequentemente a seg-mentazione: bastano infatti fattori minimi, quali tronchi o rami caduti in acqua, perché in alcuni punti si formino accumuli trasversali di detriti e sedimenti con conseguente maggior sviluppo della vegetazione emergente, progressivo interri-mento e formazione di setti. Le superfici acquee risultano così articolate in allineamenti di più uni-tà che evolvono in modo differenziato a seconda delle profondità, delle ampiezze, dell’ombreggia-mento e dei carichi organici che vi si accumulano.
Questa condizione si riconosce ad esempio nel laghetto di Stizzinoi a Lorenzago (figg. 48 e 49), nelle pozze di Provazei ad Auronzo, nel Lago dei Rospi presso Passo Monte Croce Comelico. Per il resto gli ambienti acquei delle valli fluviali sono limitati ai torrenti che scorrono sul fondo ed ai ri-voli laterali che ne sono tributari. Importanti sono invece i siti posti sulle quote sovrastanti i versanti ripidi di queste valli, che rientrano nella tipologia dovuta ai modellamenti glaciali. A queste quote si incontrano morfologie di particolare rilevanza per le aree umide, come nei casi delle terrazze sui versanti nella destra orografica del Boite e degli alti pianori di Danta.
A differenza delle valli fluviali quelle di origi-ne glaciale, con le tipiche sezioni a U, presen-tano nei blandi pendii prossimi al fondovalle condizioni più favorevoli per le formazioni di ristagni e di invasi persistenti; da ciò la costel-lazione di superfici torbose e di laghetti, molti dei quali oggi alterati, che caratterizza a più quote la conca di Cortina (fig. 50).
Ai problemi dovuti alla ripidità dei versanti si somma, come fattore di limitazione dei siti umidi, il carsismo tipico delle rocce carbona-tiche, che determina porosità profonde e dre-nanti con sottrazione delle acque superficiali.
Da ciò la scarsità e vulnerabilità dei siti umidi dolomitici, a differenza di quanto si riscontra sopra formazioni silicee e scistose che man-tengono maggiormente le acque in superficie.
Il problema è correlato anche ai diversi
as-Fig. 47 Le valli fluviali presentano versanti ripidi che, specie quando associati al carsismo proprio delle rocce carbonati-che, drenano le acque superficiali rendendo rare le formazioni di torbiere e laghetti. Nell’immagine, il Centro Cadore e l’o-monimo lago artificiale visti dal Montanel. (Foto G. Valagus-sa, C.A.I. Domegge)
Fig. 46 Gli orti attorno a Lorenzago nei primi anni Sessanta, dove era presente una concentrazione straordinaria di lepi-dotteri oggi estremamente rarefatta. Collezione A. Valastro
setti geomorfologici conseguenti alla natura delle rocce, che nelle montagne dolomitiche sono determinati ad alta quota dai crolli con conseguenti forme verticali ed estesi ghiaio-ni di deiezione, mentre alle stesse quote, ove
le rocce sono scistose, sono caratterizzati da sfaldamenti graduali in scaglie di dimensioni modeste che originano pendii blandi e pro-gressivi. Per di più le lamelle più minute delle rocce silicee occludono, sfaldandosi, le fessure
Fig. 48, 49 I laghetti sui versanti montuosi si formano spesso in piccole selle, risultando allungati e spesso frammentati in successioni di pozze soggette ad evoluzioni diverse. Nelle immagini, la pozza iniziale e quella terminale nel laghetto di Stizzinoi, presso Passo Mauria. (Foto M. Boccanegra)
Fig. 50 La morfologia glaciale è all’origine di conche e pianori che favoriscono le raccolte d’acqua e quindi i laghetti e le torbie-re, come si riconosce a varie quote nella conca di Cortina. Nell’immagine il declivio con piani torbosi dalla forcella Albrizzola al lago Fedèra e, sullo sfondo, Cortina. (Foto M. Boccanegra)
nel substrato, a differenza di quanto avviene nelle rocce carbonatiche nelle quali la solubi-lità impedisce o ripulisce gli accumuli. Ciò si riconosce nei substrati poco drenanti e nelle forme addolcite, atipiche rispetto alle monta-gne cadorine, della Costa della Spina fino al Col Quaternà in Comelico Superiore (figg. 51 e 52), dove la natura litologica di antica origi-ne vulcanica e la geomorfologia consentono la conservazione in superficie delle acque mete-oriche originando le torbiere diffuse nell’alta Val Digòn fino oltre il Passo Silvella, con po-polamenti riproduttivi di Odonata che supe-rano la quota, eccezionale per le Alpi Venete, di 2300 metri (solo nel Lago delle Baste, nella piana di Mondeval anche questa connotata dalla presenza di antiche rocce vulcanoclasti-che, i popolamenti di Odonata si avvicinano a questa altezza).
Fig. 51, 52 Una piccola torbiera oltre il crinale di Passo Sil-vella, sotto il Col Quaternà (Comelico Superiore). Su substrati silicei, in questo caso di antica origine vulcanica con rocce che si sfaldano - fig. 52, le forme più addolcite e il mancato effetto drenante dovuto al carsismo consentono maggior persisten-za delle acque superficiali, con siti palustri e popolamenti di libellule anche a quote molto elevate. (Foto M. Boccanegra)