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La disciplina fiscale del trust nell'imposizione diretta e indiretta: profili evolutivi ed aspetti problematici

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SOMMARIO

PREMESSA……….………3

CAPITOLO PRIMO: L’ISTITUTO DEL TRUST 1.1 Brevi cenni sull’origine storica del Trust……….……….……5

1.2 La convenzione dell’Aja, le caratteristiche strutturali del Trust ed i suoi effet- ti……….7

1.3 Tipologie di Trust…..……….………13

1.4 Gli attori del Trust………..………....16

1.4.1 Il disponente………..17

1.4.2 Il trustee……….20

1.4.3 Il beneficiario……….21

1.4.4 Il guardiano………23

CAPITOLO SECONDO: IL TRUST E L’IMPOSIZIONE DIRETTA 2.1 La soggettività passiva ai fini dell’imposta sui redditi…..……….25

2.1.1 La soggettività passiva nel trust prima della legge 296/06…………..26

2.1.2 Le novità introdotte dalla Finanziaria 2007 e il nuovo art. 73 del Testo unico delle imposte sul reddito……….….……….31

2.2 Le novità in materia di imposte dirette…………..………….………37

2.2.1 I chiarimenti sulla residenza del trust……..……..………...38

2.2.2 Le presunzioni di residenza dei trust alla luce dei chiarimenti della cir- colare 48/E.………...……….43

2.3 Le norme sull’estero vestizione nei trust………...………...46

2.4 Il trasferimento dei beni in trust………...………...48

CAPITOLO TERZO: IL TRUST TRASPARENTE 3.1 La trasparenza nel trust………...…………...………...……50

3.2 L’individuazione dei beneficiari e l’attribuzione del reddito……….53

3.3 La lettera g-sexies dell’art. 44 del Tuir e l’orientamento della circolare 61/2010……….61

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3.4 L’interposizione del trust………...……….65

CAPITOLO QUARTO: IL TRUST E L’IMPOSIZIONE INDIRETTA 4.1 L’imposta sulle successioni e donazioni e i chiarimenti dell’Agenzia delle entrate………..……….68

4.1.1 La giurisprudenza di merito sull’imposta sulle successioni e donazioni.. ………....78

4.1.2 Imposta sulle successioni e donazioni e trust esteri………..83

4.2 Le altre imposte indirette………...………….87

CONCLUSIONI………..……….90

BIBLIOGRAFIA………..91

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PREMESSA

Il trust è un istituto del diritto anglosassone che ha avuto enorme successo su scala mondiale. La parola trust significa in lingua inglese affidamento, ed è infatti la fiducia l’elemento qualificante di questo particolare strumento negoziale, il quale ha avuto una enorme diffusione soprattutto per il fatto di rappresentare il più semplice ed economico strumento per dissociare l’amministrazione e la disposizione dei beni dal godimento della ricchezza da essi rappresentata ed anche perché si presta ad essere uno strumento molto versatile, utilizzabile infatti in una moltitudine di campi.

L’istituto in esame ha fatto il suo ingresso nel nostro ordinamento a seguito del recepimento della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, ad opera della legge n. 364 del 16 ottobre 1989, con effetto dal 1° gennaio 1992. Ciò che è sempre mancata, da allora, è stata una chiara disciplina fiscale dell’istituto.

Con il presente lavoro si intende, dopo aver delineato brevemente le caratteristiche del trust, andare ad analizzare la disciplina fiscale ad oggi applicabile all’istituto, ripercorrendo la sua evoluzione.

Si analizzeranno gli interventi legislativi diretti a dettare una disciplina con la quale regolamentare l’imposizione, sia diretta che indiretta, del trust, le lacune e i dubbi venutisi a creare a seguito di detta introduzione e gli interventi della dottrina, giurisprudenza e dell’Amministrazione finanziaria con i quali si è riuscito a tratteggiare una disciplina fiscale coerente.

Il presente lavoro è suddiviso in quattro capitoli. Nel primo si analizzeranno, brevemente, l’introduzione nel nostro ordinamento del trust e le sue principali caratteristiche. Nel secondo e terzo capitolo verrà analizzata la disciplina fiscale dell’istituto in ambito di imposizione diretta, dalla sua introduzione con la legge finanziaria 2007 agli interventi dell’Amministrazione finanziaria susseguitisi negli anni e le critiche della dottrina, soffermandosi su una particolare tipologia di trust, ossia i trust trasparenti. Infine, nel capitolo finale, saranno affrontate le problematiche dell’istituto in esame nell’ambito dell’imposizione indiretta,

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partendo anche qui dall’introduzione della disciplina fino ad arrivare all’analisi degli interventi dell’Agenzia delle entrate e della giurisprudenza.

Bientina, settembre 2014

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CAPITOLO PRIMO L’ISTITUTO DEL TRUST

1.1 Brevi cenni sull’origine storica del Trust

Il Trust è un importante istituto giuridico di antiche origini e di stampo anglosassone, “creato dai tribunali di equità dei paesi della Common law1”, che

non trova una specifica disciplina all’interno dell’ordinamento italiano; inoltre gli effetti giuridici di tale istituto non sono riconducibili alle categorie ed agli istituti di diritto nazionale, configurandosi come assolutamente originali2.

L’istituto del trust nasce nel sistema di tutela duale, articolata tra Common law ed equity3, nel diritto inglese di epoca medioevale. Le sue origini risalgono ai tempi del tardo medioevo, durante i quali si diffuse tra i ricchi proprietari terrieri la consuetudine di affidare parte del loro patrimonio, specie immobiliare, a persone di loro fiducia.

Scopo principale di questa usanza era quella di preservare una certa riservatezza sulla consistenza del proprio patrimonio, per questo il proprietario sceglieva una persona di fiducia alla quale trasmettere parte dello stesso. Quest’ultima diveniva quindi l’intestatario del patrimonio e aveva l’obbligo di corrispondere al disponente o ad altri soggetti da lui indicati una rendita, la quale avrebbe

1 Premessa della Convenzione dell’Aja del 01/07/1985 2

T. Tassani, La convenzione dell’Aja e la legittimazione del Trust, in Master Euroconference: il Trust come strumento di tutela dei piccoli patrimoni, 2013, pag. 7

3 Lo sviluppo storico del diritto inglese è caratterizzato dalla progressiva introduzione e dalla successiva coesistenza di varie autorità giurisdizionali, le più importanti delle quali sono rappresentate dalle corti di Common law e dalla Cour of Chancery, quest’ultima la fonte dell’equity. Le origini dell’equity sono più complesse di quelle della common law prodotta dalle Corti; mentre la common law nacque e si sviluppò sistematicamente per effetto dell’attività delle corti regie istituite dal Re, l’equity nacque e crebbe, in contrasto con la stessa common law, grazie ad interventi operati dal Cancelliere del Re che, essendo un soggetto di natura culturale per lo più ecclesiastica, giudicava secondo coscienza e che, in tal senso, convocava le parti in controversia di fronte a sé, le interrogava e se del caso esercitava il proprio potere per porre rimedio a situazioni di ingiustizia sostanziale, ordinando ai singoli destinatari dei suoi provvedimenti di agire secondo coscienza nonostante quanto contrariamente spettante loro ai sensi della common law. L’esercizio continuo nel tempo di questa attività di correzione diede origine a numerose regole e principi di correzione, ed il corpo di regole e principi emergente dai provvedimenti del Cancelliere diretti a mitigare la durezza e la rigida applicazione delle regole di common law divenne comunemente noto come equity. Proprio dall’equity nacque, quale suo più rilevante prodotto, il trust

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consentito ai suddetti di godere dei frutti senza apparire all’esterno come proprietari4.

Tale meccanismo non era scevro da rischi, poiché poteva accadere che il soggetto che doveva amministrare il patrimonio ricevuto non rispettasse gli accordi e si approfittasse dell’intestazione formale per godere personalmente dello stesso. Veniva così violato un obbligo che a quei tempi aveva solo natura etica e non vi erano rimedi previsti dal sistema giuridico di Common law.

Di conseguenza, la risoluzione di tale problema venne in seguito affidata alla Cancelleria Regia cui si chiedeva di risolvere la questione non in base ad un criterio di giustizia formale, e quindi fondato su regole di diritto preesistenti, ma secondo un criterio di giustizia più sostanziale basato sull’equità. Col tempo le decisioni prese da tale istituzione diedero vita ad un corpo di norme autonomo al Common law e i decreti con cui si esprimeva avevano forza esecutiva e tutto ciò portò, nel tempo, l’obbligo di natura etica a divenire un obbligo giuridico tipizzato nell’istituto del Trust.

L’istituto in questione si diffuse in seguito nelle colonie inglesi, in cui venne esportato il sistema di Common law, e contemporaneamente si allargò anche il suo ambito di applicazione, aggiungendo al suo scopo originario di conservazione del patrimonio altri scopi diversi tra loro, come scopi benefici, previdenziali, familiari ed economici, rendendolo così un istituto molto versatile e giustificando il largo impiego dello stesso all’interno dei Paesi di Common law5.

Dalla sommaria esposizione storica è evidente come la fonte del trust sia riconducibile a una pratica consolidata da secoli, non essendo mai esistita una legge scritta che compiutamente disciplinasse l’istituto.

Negli anni, la crescente integrazione economica e sociale ha reso più evidente la mancanza di una disciplina dell’istituto in esame nei paesi di civil law, ciò ha comportato l’approvazione di una convenzione di diritto internazionale che

4 C. Siano, Le origini e le caratteristiche del Trust, in Lezioni di diritto privato comparato lezione VIII Il Trust, 2006, pag. 4

5 L. Ragazzini, Trust interno e ordinamento giuridico italiano, in Rivista del Notariato, 1999, fascicolo 2, p. 279 e ss.

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disciplinasse la legge applicabile e imponesse il riconoscimento del trust. Si tratta della Convenzione dell’Aja relativa alla legge applicabile ai Trust e al loro riconoscimento del 1 luglio 1985.

Oggi in Italia, il Trust è entrato a pieno diritto nel nostro ordinamento e ha visto numerosissimi casi di applicazione, nonostante sia estraneo alla cultura giuridica italiana.

1.2 La convenzione dell’Aja, le caratteristiche strutturali del Trust ed i suoi effetti.

La Convenzione dell’Aja è stata ratificata in Itala con la Legge n. 364 del 16 ottobre 1989 entrata in vigore il 1 gennaio 1992, essa dispone il riconoscimento del Trust e indica i requisiti minimi dell’istituto e i relativi effetti nei confronti dei soggetti interessati e dei terzi.

Le sue finalità sono principalmente due: garantire l’efficacia internazionale dei trusts, fissando criteri univoci per il loro riconoscimento, e garantire un sistema di regole in modo da non assoggettare l’istituto a discipline contraddittorie e di assicurare ai giudici dei riferimenti normativi che risolvano i problemi di qualificazione della fattispecie.

La Convenzione definisce all’art. 2 i trusts come “i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente, con atto tra vivi o mortis causa, qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico”, e continua delineando le caratteristiche strutturali del trust che sono:

a) i beni del trust costituiscono una massa indistinta e non si confondono con il patrimonio del trustee

b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee

c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle

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8

disposizioni dell’atto istitutivo e le norme particolare impostegli dalla legge.

La medesima disposizione prosegue specificando che non precludono l’applicazione della Convenzione né le eventuali clausole che prevedano la conservazione in capo al disponente di alcune prerogative, né quelle che concedano al trustee alcuni diritti in qualità di beneficiario. L’art. 2 non è però una disposizione con efficacia prescrittiva6, quanto piuttosto una elencazione di alcune caratteristiche del trust.

La definizione di trust dettata dalla Convenzione è caratterizzata da una particolare ampiezza e genericità tanto che esso è stato definito un istituto

“amorfo7”, proprio a voler indicare il fatto che la scelta definitoria operata con

questo documento normativo non riesce a descrivere, in modo completo, l’essenza del trust, e di conseguenza, questa definizione, è anche tale da poter ricomprendere molteplici istituti giuridici previsti dagli Stati contraenti, sia di Common law che di Civil law.

La Convenzione si applica ai soli trusts costituiti volontariamente e comprovati per iscritto8 e quindi con atto tra vivi o mortis causa da parte del disponente, restando quindi esclusi quelli istituiti legalmente o giudizialmente.

Nel secondo capitolo della stessa, dagli articoli dal 6 al 10, vengono introdotti i criteri di determinazione della legge applicabile al trust. L’art. 6 prevede che il

trust sia regolata dalla legge scelta dal costituente9 e l’art. 7 contiene la regola

generale secondo cui “qualora non sia stata scelta alcuna legge, il trust sarà

6

M. Petrulli e F. Rubito, Il Trust: nozione giuridica ed operatività del sistema italiano, Halley Editrice, 2006, pag. 29: “rimane ferma la considerazione che la disposizione di cui all’art. 2 della Convenzione non ha efficacia prescrittiva, ma contiene solo la descrizoine di alcune delle caratteristiche dei trust, la cui importanza è però ritenuta tanto decisiva da condizionare la stessa esistenza del trust. Soltanto la presenza contemporanea di questi caratteri fondamentali, quantunque ve ne siano sicuramente altri parimenti significativi, è condizione necessaria per ogni tipo di trust e in conseguenza della loro mancanza, pertanto, non si potrà nemmeno parlare di trust, ma al limite di uno schema negoziale diverso.”

7

L’espressione amorfo è di M. Lupoi ed è stata usata per definire il trust così come risulta dalla Convenzione dell’Aja, si veda il trust amorfo, in vita notarile, 1995, pag. 51. Si veda anche: “il Trust riconosciuto in Italia – Profili civilistici e tributari” studio realizzato dal Gruppo di lavoro presso la Direzione delle Entrate dell’Emilia Romagna “definito amorfo perché non vi sono disposizioni sostanziali uniformi volte a dare una compiuta definizione dell’istituto”.

8 Art 3. Convenzione dell’Aja

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regolato dalla legge con la quale ha più stretti legami”. In attuazione del principio del collegamento più stretto, il secondo comma dello stesso articolo, individua quattro cristeri che sono: il luogo di amministrazione del trust, l’ubicazione dei beni, la residenza o domicilio del trustee, gli obiettivi del trust e i luoghi dove dovranno essere realizzati.

All’interno del terzo capitolo della convenzione viene trattato il riconoscimento del trust e le disposizioni in esso contenute servono ad assicurare il funzionamento dell’istituto nei paesi dove il trust non è conosciuto (come l’Italia). L’art. 11 sancisce il principio di obbligatorietà del riconoscimento da parte degli stati contraenti, quando il costituente abbia istituito un trust che sia corrispondente alle caratteristiche enunciate dall’art 2 della Convenzione. Questo riconoscimento è in parte limitato dagli articoli seguenti10, in base ai quali non sono riconoscibili i trusts che producano effetti contrastanti con norme inderogabili o di applicazione necessaria del foro o con principi di ordine pubblico.

Ma la limitazione più importante è dettata dall’art. 1311, il quale pone un limite di carattere generale consentendo al giudice di non riconoscere un trust quando alcuni dei suoi elementi siano più strettamente legati ad ordinamenti che non conoscono l’istituto o la categoria del trust in questione. La convenzione però non indica quali siano questi elementi, specificando solo che non devono essere presi in considerazione la legge scelta del disponente, il luogo di amministrazione del trust e il luogo di residenza del trustee.

Questa norma è stata introdotta come clausola di salvaguardia a favore degli Stati che non conoscevano il trust, con l’intento di consentire al giudice di rifiutare il riconoscimento al trust nel caso in cui egli reputi che la situazione oggetto di esso sia meglio riconducibile al diritto interno. In assenza di una disposizione come questa, il giudice italiano si vedrebbe costretto a riconoscere, in Italia, gli effetti di un trust regolato da una legge straniera anche nel caso in cui si rendesse

10

Art. 15,16,18

11 Art. 13 “nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione”.

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conto che la realizzazione degli effetti di quel trust potrebbero configurare un abuso del diritto.

La previsione normativa contenuta nell’art 13 della Convenzione è stata da una parte della dottrina12 interpretata come l’ostacolo maggiore a una libera utilizzabilità del trust nei paesi di civil law, nel caso in cui l’unico elemento di estraneità sia la legge applicabile13. Secondo questa interpretazione non si potrebbe scegliere una legge straniera per regolare il trust se non in presenza di almeno un ulteriore elemento di estraneità dello stesso, che si ricolleghi a Stati che prevedano tale istituto o comunque la categoria di trust in questione. Se si aderisse a tale posizione si arriverebbe a risultati che potrebbero essere contrari alla Costituzione e in particolare verrebbe violato il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, perché sarebbe obbligatorio riconoscere trust costituiti da stranieri aventi ad oggetto beni situati in Italia e regolati da una legge estera ma sarebbe negato il riconoscimento di un trust identico ma costituito da un cittadino italiano14.

Secondo un'altra opinione15, invece la Convenzione può applicarsi, considerando come unico elemento di estraneità la legge straniera scelta, poiché dall’art. 13 non si evince un principio generale di limitazione al campo di applicazione della stessa Convenzione.

Il riconoscimento di questa tipologia di trust, dunque, dipende dalla considerazione che l’operatività del limite di cui all’articolo 13 è rimessa ad una scelta discrezionale del giudice. Se i redattori della Convenzione avessero voluto vietare il riconoscimento di trusts privi di elementi di estraneità, lo avrebbero fatto espressamente, mentre la presenza di tali elementi, all’interno dell’ordinamento in cui si chiede il riconoscimento, non costituisce un dato che da solo consente di legittimare il diniego del riconoscimento, poiché, a questo fine, è richiesto che l’ordinamento medesimo non regoli il trust in questione. In tale prospettiva, l’abusivo impiego del trust dovrà essere oggetto di specifica

12

Gambaro, Il Trust in Italia, in Convenzione relative alla legge sul trusts e al loro riconoscimento, p.1918,

13

Trattasi del “Trust interno” la cui definizione è data nel paragrafo 3 del presente capitolo. 14 Lipari, Fiducia statica e trusts, in Rassegna di diritto civile, 1996, p. 490

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motivazione, perché si giustifichi il diniego del riconoscimento da parte del giudice nazionale16.

Con la ratifica della Convenzione dell’Aja, e sulla base di una prassi che ne ha rapidamente assorbito struttura e funzione, l’ordinamento italiano ha fatto indirettamente proprio l’istituto del trust, anche se tutt’oggi manca una razionalizzazione normativa dell’istituto se non nell’ambito del diritto tributario, nel quale, con la finanziaria del 2007, vi è stato il riconoscimento della soggettività passiva del trust.

Pertanto il trust è un istituto giuridico la cui fattispecie è regolata da norme estranee all’ordinamento giuridico italiano, con l’effetto che gli elementi strutturali dell’istituto sono da ricercare altrove, ovvero nella legge regolatrice che ne delinea la disciplina legale.

La legge italiana, come si è detto, contempla attualmente il trust con riferimento ai suoi profili fiscali, e così per istituire e regolamentare un trust è necessario rivolgersi altrove, facendo riferimento ed applicando la legislazione di un paese anglofono, essendo il trust di origine anglosassone 17.

Il trust è quindi un atto dispositivo a contenuto patrimoniale, con il quale il disponente trasferisce effettivamente la proprietà dei suoi beni al trustee il quale ne diviene il proprietario con il vincolo, però, di esercitare il diritto di proprietà rispettando le linee guida dategli dal disponente nell’atto costitutivo a tutela dei beneficiari, vi è cioè una compressione del diritto di godimento dei beni affidatigli18.

I beni che possono essere oggetto di trasferimento in trust sono sia mobili che immobili nonché qualunque altro diritto disponibile, ossia un qualsiasi bene tutelato dall’ordinamento giuridico e, quindi, suscettibile di una valorizzazione. I beni, cosi funzionalmente destinati, non generano alcuna soggettività giuridica,

16

S.M. CARBONE, Trust interno e legge straniera, 2003. 17

A tal proposito spesso viene usata la legge dell’Isola di Jersey, perché è assai flessibile, ma con le difficoltà di avere a che fare con un ordinamento che ha principi ispiratori diversi dal nostro. Vedi A. Busani, il diritto estero indicato va applicato con cura, in “il sole 24 ore”, 10 gennaio 2011, p.9:.

18 T. Tassani, Le caratteristiche strutturali del trust, in Master Euroconference: il Trust come strumento di tutela dei piccoli patrimoni, 2013, pag. 8

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saranno di proprietà del trustee anche se rimangono segregati dal suo patrimonio personale.

Il carattere peculiare del trust risiede nello sdoppiamento del concetto di proprietà, tipico dei sistemi di common law, cioè si avrà un proprietario legale (“legal ownership”), il trustee, che è proprietario dei beni e amministratore degli stessi, e un beneficiario che non può amministrare tali beni, ma gode dei benefici economici derivanti dagli stessi usufruendo della proprietà sostanziale (“equitable ownership”).

Con il trust si ha un effetto segregativo del patrimonio, cioè i beni oggetto di tale istituto vanno a costituire un patrimonio separato e autonomo rispetto al patrimonio del disponente, del trustee e del beneficiario (o beneficiari). Da ciò deriva che:

i beni che fanno parte del trust non possono essere aggrediti dai creditori personali del trustee e lo stesso vale per i creditori del disponente e del beneficiario;

i creditori del trust non possono aggredire i patrimoni personali del disponente, del trustee o del beneficiario;

i beni del trust non si confondono con il patrimonio del trustee, non entrano nella successione mortis causa del trustee, nei regimi matrimoniali e nella massa fallimentare del trustee.

I beni in trust risultano quindi efficacemente sottoposti ad un vincolo di destinazione, in sostanza sono destinati al raggiungimento dello scopo prefissato dal disponente nell'atto istitutivo, e ad un ulteriore vincolo di separazione, cioè sono giuridicamente separati sia dal patrimonio residuo del disponente sia da quello del trustee.

Il patrimonio risulta vincolato solo al soddisfacimento delle obbligazioni contratte dal trustee nell’amministrazione dello stesso.

Il grado di protezione che viene a determinarsi consente astrattamente al trust di poter essere usato per fini vietati dal sistema giuridico, ad esempio per occultare patrimoni all’amministrazione finanziaria, ai creditori o per finalità di riciclaggio di capitali di dubbia provenienza.

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Ulteriori effetti dell’istituto in esame sono quelli che attribuiscono al beneficiario il diritto a ricevere i redditi che scaturiscono dall’amministrazione del patrimonio segregato, e la perdita in capo al disponente, non solo della titolarità del patrimonio ma anche il controllo dello stesso, avendo delegato al trustee l’attuazione delle finalità indicate dall’atto istitutivo.

1.3 Tipologie di Trust

Dopo aver analizzato, seppur brevemente, le caratteristiche del trust e gli effetti che derivano dalla sua costituzione, si rende necessario, quantomeno, individuare le varie tipologie di questo istituto che possono venire in considerazione.

Se muoviamo dall’analisi della struttura del trust, cioè che in linea di principio, come già detto, esso si configura come un rapporto in virtù del quale un determinato soggetto (il disponente) trasferisce ad un altro soggetto (il trustee) alcuni beni perché egli li amministri nell’interesse di uno o più beneficiari o per un determinato scopo, possiamo individuare già due tipi di trust, il trust di scopo e il trust con beneficiari:

il trust di scopo: è una tipologia, dell’istituto in questione, che è caratterizzata dal fatto che non vi è un beneficiario individuato, ma il trust è stato realizzato per raggiungere un determinato fine, solitamente benefico o un altro scopo che sia possibile e non contrario a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume;

il trust con beneficiari: si tratta di quei trust in cui il disponente individua, nell’atto costitutivo, uno o più soggetti, persone fisiche o giuridiche, prevedendo che alla cessazione del trust essi divengano i titolari dei beni e delle utilità prodotta dal patrimonio oggetto del trust.

Si possono poi individuare altre due tipologie di trust se andiamo ad analizzare il vincolo di destinazione che si viene a creare con la sua istituzione. Avremo quindi:

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14  un trust auto-dichiarato19ogni qualvolta il vincolo di destinazione si formi all’interno dello stesso patrimonio del disponente, senza che si realizzi alcun trasferimento di proprietà, cioè i beni vengono segregati all’interno del patrimonio del disponente, e in questo caso la figura del trustee viene a coincidere con quella del costituente;

un trust con trasferimento quando i beni del disponente, oggetto del trust, vengono trasferiti ad un altro soggetto. In questo caso disponente e trustee sono soggetti diversi.

Il trust auto-dichiarato ha posto un problema concernente la sua riconoscibilità o meno all’interno dell’ordinamento italiano. Infatti, se andiamo a leggere quanto dispone l’art. 2 della Convenzione dell’Aja, vediamo che per trust si intendono quei rapporti giuridici istituiti da un soggetto, il disponente, qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee. Dal tenore letterale della disposizione sembrerebbe infatti che disponente e trustee debbano essere soggetti diversi.

La dottrina italiana era divisa su due fronti, secondo un autore20 la soluzione avrebbe dovuto essere negativa perché nel testo definitivo dell’art. 2 della Convenzione si parla di disponente e di trustee e ciò implica la differenza soggettiva tra le due figure.

Altra autorevole dottrina21 optava, invece, per la soluzione positiva facendo leva sull’ultimo paragrafo dell’art. 2, che consente al disponente di conservare “diritti e facoltà” relative al trust dopo la sua istituzione, per concludere che l’espressione tra virgolette comprende anche l’ipotesi in cui il disponente si auto-dichiarasse trustee.

19

Per approfondimenti si veda: Bartoli, Il trust autodichiarato nella Convenzione dell’Aja sui trusts, in Trust e attività fiduciarie, 2005, p. 355, e Siclari, Il trust interno tra vecchie e nuove prospettive: il trust statico, in Vita notarile, 2002, p 743-749.

20

V. Salvatore, Il Trust. Profili di diritto internazionale e comparato, Cedam, 1996. “[…] presupporrebbe un rapporto di alterità fra disponente e trustee, e quindi la necessaria distinzione fra i due soggetti, sarebbe la Convenzione stessa a opporsi a un tal ricnonoscimento”.

21 L. Fumagalli, Convenzione relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento, in Nuove leggi civili, 1993.

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15

La giurisprudenza italiana di merito, a partire dal 2001, ha emesso le prime pronunce in materia di trust interni auto-dichiarati22, tutte riferite alla questione della loro trascrivibilità presso le conservatorie dei registri immobiliari, ammettendola nella maggior parte dei casi. La questione del trust auto-dichiarato e stata poi affrontata dal Tribunale di Reggio Emilia nella sentenza del 14 maggio 2007,23 il quale ha ribadito che la nozione di trust contenuta nell’art.2 è assai ampia, che non è necessaria la distinzione tra la figura del disponente e quella del trustee e che non è elemento essenziale il trasferimento dei beni da un soggetto all’altro, bensì è sufficiente il controllo degli stessi da parte del trustee. Ne consegue quindi che un trust che abbia tutte le caratteristiche previste dall’art. 2 deve essere riconosciuto come esistente e produttivo di effetti, ancorché auto-dichiarato.

Un’altra tipologia di trust è quella costituita dal cosiddetto trust interno24 ovvero

si intente con tale espressione un trust che è caratterizzato dal fatto che tutti gli elementi soggettivi e oggettivi siano legati ad un ordimento non trust, cioè che non prevede tale istituto (come l’Italia), salvo che per la legge applicabile, che il disponente sceglierebbe facendo riferimento ad un ordinamento che prevede il

22 Trattasi, in ordine di tempo, di Trib. Pisa (decr.) 22 dicembre 2001 in Rivista Notariato, 2002, 188; Trib. Milano (decr. ) 8-29 ottobre 2002 in il diritto commerciale d’oggi 2003; Trib. Verona (decr. ) 8 gennaio 2003 il diritto commerciale d’oggi 2003, 409; Trib. Napoli (decr.) 1° ottobre 2003, in il diritto commerciale d’oggi 2004, 74; Trib. Parma (decr.) 21 ottobre 2003, in il diritto commerciale d’oggi 2004, 73; App. Napoli (decr.) 27 maggio 2004 (che ha confermato Trib. Napoli 1° ottobre 2003, in il diritto commerciale d’oggi, 2004.

23

Si riporta parte del testo della sentenza: “Come è stato osservato in dottrina, la nozione di trust contenuta nel primo paragrafo dell’art. 2 della Convenzione de L’Aja è assai ampia, dato che la norma afferma l’esistenza di un trust allorché il trusteeabbia il “controllo” sui beni, senza cioè esigere che vi sia un “trasferimento” di beni a costui: non è richiesta, dunque, per aversi un trust ai sensi della menzionata Convenzione, una distinzione soggettiva tra il disponente e il trustee essendo sufficiente che i beni siano posti “sotto il controllo” di quest’ultimo. Tra l’altro, lo stesso art. 2, all’ultimo comma (la Convenzione consente al settlor di riservarsi “rights and powers”, locuzione mal tradotta nella versione ministeriale con “prerogative”) non esclude in linea di principio una coincidenza tra due soggetti del trust, purché ciò sia consentito dalla legge regolatrice prescelta dal disponente (nel caso, è pacifico che laTrusts (Jersey) Law permetta la costituzione di trust autodichiarati). Dal riconoscimento del trust, istituito in conformità alla legge regolatrice (e su questo si tornerà in seguito), deriva (automaticamente) l’effetto segregativo nel patrimonio del trustee e la conseguente impossibilità per i creditori di quest’ultimo di attaccare i beni trasferiti; inoltre, per effetto del trasferimento al trustee, nessun diritto sui beni in trust spetta più al disponente”, reperibile su www.ilcaso.it.

24 Definizione data da M. Lupoi in Trusts, Giuffrè, 2001, p. 546: “ove si individua tale fattispecie quando tutti gli elementi soggettivi ed obiettivi siano legati ad un ordinamento che non qualifica lo specifico rapporto come trust (nel senso accolto dalla convenzione) mentre esso è regolato da una legge straniera che gli attribuisce quella qualificazione”.

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16

trust e lo disciplini espressamente. Sull’ammissibilità o meno di questa tipologia di trust se ne è già discusso nel paragrafo precedente in merito alla limitazione introdotta dall’art. 13 della Convenzione.

Se poi ci concentriamo sulle finalità perseguibili dal trust possiamo avere:

trust di famiglia: cioè un trust utilizzato negli ambiti più disparati del diritto di famiglia come ad esempio per disciplinare casi di successione, rapporti di convivenza, crisi matrimoniali ecc;

trust per la tutela dei soggetti deboli: ad esempio un trust istituito per gestire il patrimonio di una persona disabile o di un minore;

trust utilizzati per il passaggio generazionale della ricchezza, in tale ambito l’istituto del trust si presta ad essere, per esempio, un ottimo strumento per il passaggio generazionale delle aziende;

trust utilizzati in procedure fallimentari e concorsuali, finalizzati alla risoluzione della crisi d’impresa.

Questi sono solo alcuni tipi di trust che possono venire a configurarsi e questa sua versatilità, la sua molteplicità di possibili utilizzi lo hanno reso uno strumento flessibile e dinamico, suscettibile di essere redatto su misura, per ogni esigenza e queste sono le ragioni del crescente successo di questo istituto.

1.4 Gli attori del trust

Prima di passare alla trattazione delle problematiche fiscali dell’istituto in esame, bisogna analizzare i soggetti che vengono in considerazione con il trust.

Secondo la classica configurazione, delineata all’interno della Convenzione25, il

trust sembrerebbe che necessiti della presenza di tre soggetti: 1. Il disponente, il quale trasferisce determinati beni al trustee;

2. Il trustee, il quale acquista la proprietà legale del bene o dei beni a vantaggio del beneficiario,

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3. Il beneficiario, il quale acquista la proprietà sostanziale, del bene o dei beni oggetto del trust. Il beneficiario è un soggetto eventuale e non necessario all’istituzione del trust, poiché come già detto precedentemente può esistere anche il cosiddetto trust di scopo in cui non vi sono beneficiari individuati.

Oltre questi tre soggetti vi è un quarto soggetto eventuale, come il beneficiario. Si tratta del guardiano al quale viene dato il compito di controllore dell’attività del trustee, così da poter controbilanciare i poteri sempre maggiori conferiti a quest’ultimo.

1.4.1 Il Disponente

Il disponente (o settlor nella terminologia anglosassone) è quel soggetto che istituisce il trust mediante un atto volontario e unilaterale, detta il contenuto dell’atto di regolamento e si spoglia dei propri beni conferendoli nel trust e di conseguenza trasferendoli al trustee.

Disponente può essere sia una persona fisica, purché dotata di capacità d’agire, sia una persona giuridica, e più in generale, anche da un organismo collettivo dotato di autonomia patrimoniale. Ciascun trust può avere anche più di un disponente, ciò, si verifica quando una pluralità di soggetti ha provveduto ad istituirlo, conferendo a tal fine una parte dei loro patrimoni.

In alcuni casi, per ragioni di riservatezza, il disponente può desiderare di restare anonimo. Questa esigenza può essere facilmente soddisfatta, poiché le leggi di determinati Paesi26 non richiedono necessariamente l’indicazione del costituente nell’atto istitutivo.

Con il conferimento dei beni nel trust, il disponente perde completamente e definitivamente la proprietà dei beni, ciò significa che egli non è più proprietario del patrimonio conferito, non gode nemmeno di alcun diritto giuridicamente valido per rientrare in possesso dei beni, e ne consegue che gli stessi non sono

26 Si ricordi che è possibile scegliere la legge regolatrice del trust ai sensi dell’art. 6 della Convenzione dell’Aja.

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più rivendicabili neppure dai suoi creditori o dall’amministrazione finanziaria, fatta salva la possibilità di ricorrere all’azione revocatoria ordinaria o fallimentare qualora ne sussistano i presupposti.

L’effettivo distacco del disponente dai beni conferiti in trust, rappresenta una condizione essenziale al fine di evitare contestazioni da parte dei terzi, per questo motivo, sebbene le legislazioni di alcuni paesi lo consentano, solo raramente nella pratica il disponente si riserva contrattualmente poteri caratteristici della funzione di trustee27. Del resto, pur senza riservarsi tali poteri, esso è comunque in grado di esprimere nell’atto istitutivo le linee che dovranno essere seguite dal trustee, sia nella gestione dei beni sia nei confronti dei beneficiari.

Non viene esclusa la possibilità che il disponente mantenga un rapporto con i propri beni conferiti nel trust, come nel caso in cui egli trasferisca una posizione giuridica non piena, ad esempio nuda proprietà, usufrutto, uso o abitazione, oppure si riservi il potere di apportare alcune modifiche al trust stesso. Bisogna evidenziare a tal proposito che ogni altro tipo di ingerenza deve essere considerata indebita, con la conseguenza che da questa potrebbe derivare l’effetto di rendere l’atto di trust irrimediabilmente nullo.

È inoltre possibile, all’interno del trust, prevedere degli specifici accorgimenti giuridici che consentano al disponente di esercitare un controllo successivo al conferimento sull’operato del trustee. Ciò è possibile in primo luogo ricorrendo alle lettere d’intento, inviate dal disponente al trustee, contenente una serie di consigli sulle regole da seguire nella gestione. Formalmente esse contengono consigli e nulla di più, non sono cioè vincolanti e possono essere disattese dal trustee. Un altro accorgimento consiste della nomina di uno o più guardiani (o protector nella terminologia anglosassone), previsti all’atto della costituzione da parte del disponente, cui affidare il potere sia di controllare l’operato del trustee che di influenzarne le scelte di gestione.

Nonostante il disponente possa mantenere alcuni poteri di controllo nei confronti del trustee, è necessario comprendere la portata di tali poteri e i limiti di esercizio

27 La Convenzione dell’Aja stessa riporta all’art.2 , come già analizzato, che: “il fatto che il costituente conservi alcune prerogative non è di per sé incompatibile con l’esistenza di un trust”:

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degli stessi. Affinché ci sia un trust, è necessario che i beni siano posti effettivamente sotto il controllo del trustee, il quale deve agire in piena autonomia nell’esercizio delle sue funzioni. Diversamente nel caso il trustee segua puntualmente tutte le istruzioni e le indicazioni del disponente saremo in presenza non di un trust ma bensì di un mandato. Il punto essenziale è quindi l’individuazione dei limiti, superati i quali la riserva di poteri in capo al disponente e il fatto che il trustee non abbia autonomia di gestione, configura l’esistenza di un mandato con ovvie conseguenze sul punto della opponibilità a terzi.

Un ultima considerazione riguarda l’ambito fiscale della posizione giuridica del disponente, e in particolare, devono essere valutati i negozi dispositivi che realizzano il trasferimento della titolarità giuridica di beni e diritti dal disponente al trustee, di cui si tratterà più approfonditamente nei capitoli successivi, e che vanno a formare il patrimonio del trust.

In termini generali, nel nostro sistema fiscale, il trasferimento di beni e diritti da un patrimonio di un soggetto ad un altro può configurare fattispecie realizzative e di conseguenza tassabili tanto nelle imposte dirette quanto in quelle indirette. Nelle imposte sui redditi, il problema si pone se il disponente è un soggetto imprenditore che conferisce nel trust beni dell’impresa potendosi considerare la destinazione a finalità estranee all’impresa. Attualmente è infatti questa la tesi proposta dall’amministrazione finanziaria ed estesa anche al campo di applicazione dell’IVA, con la sola possibilità di evitare la tassazione di plusvalenze latenti di impresa e operazioni IVA nei casi di trasferimento di azienda per un verso, perché ai sensi dell’art. 58 TUIR, il trasferimento non oneroso di azienda è fiscalmente neutrale, per l’altro, perché la fattispecie traslativa d’azienda è fuori dal campo IVA ai sensi dell’art. 2 comma 3 lettera b) del D.P.R. n. 633/72.

Altra imposta che viene in considerazione è quella di donazione e successione, perché il trasferimento non oneroso dei beni rientra nel presupposto del tributo. Nell’applicazione dell’imposta secondo l’Agenzia delle entrate, come si avrà modo di vedere successivamente, occorre valutare la fattispecie del trust come in

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grado di realizzare un solo trasferimento, valorizzando il rapporto giuridico e personale tra disponente e beneficiario finale. Nell’imposte ipotecarie e catastali, invece, la possibile pluralità di trasferimenti determina la prassi degli uffici finanziari di applicare i tributi in occasione di ogni trasferimento.

1.4.2 Il trustee

Il trustee è senza dubbio il soggetto più importante del trust, rappresenta il cuore di tale istituto, il vero gestore del patrimonio segregato ed esecutore del programma.

In qualità di gestore del patrimonio conferito nel trust, il trustee è tenuto ad amministrate e disporre dei beni secondo le istruzioni impartite nell’atto istitutivo. Il trustee viene definito28 come quel soggetto al quale il disponente, trasferisce beni mobili o immobili o un qualsiasi altro diritto con l’obbligo di amministrare o impiegare i beni in trust in proprio nome a vantaggio dei beneficiari e per realizzare lo scopo previsto.

Tale incarico può quindi essere affidato ad una persona fisica o giuridica, ovvero a soggetti professionali o non professionali e tale funzione può essere svolta da uno solo o da più soggetti. I soggetti incaricati devono, ovviamente, godere della fiducia del disponente e la loro nomina e sostituzione vengono disciplinate nell’atto istitutivo del trust.

Il trustee deve operare, ovviamente, in totale autonomia e nel rispetto delle finalità indicate dal disponente nell’atto costitutivo e in eventuali atti successivi. Per quanto riguarda i poteri esercitabili dal trustee viene fatta una distinzione 29 tra poteri dispositivi e poteri gestionali. I primi riguardano la destinazione dei beni conferiti nel trust e dei relativi frutti come ad esempio la nomina di un

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F. Ciani, Il trust nell’ordinamento giuridico italiano, My solution, 2012, p. 33: “il trustee si può definire come qualsiasi persona fisica, giuridica, impresa o associazione alla quale un altro soggetto (disponente) trasferisce, dietro compenso o meno, con effetto verso i terzi, beni mobili o immobili o un qualsiasi altro diritto – effetto traslativo – con l’obbligo di amministrare o impiegare i beni in trust in proprio nome, quale indipendente ed autonomo titolare, a vantaggio dei beneficiari e per realizzare lo scopo previsto. 29 T. Tassani, Le caratteristiche strutturali del trust, in Master Euroconference: il Trust come strumento di tutela dei piccoli patrimoni, 2013, pag. 17

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beneficiario all’interno di una rosa indicata dal disponente, la corresponsione della quota dei beni o dei frutti ai beneficiari; i secondi invece riguardano la gestione dei beni, ad esempio vendita di uno o più beni, investimento del denaro, manutenzione dei beni ecc.

Tali beni, come già detto in precedenza, costituiscono una massa distinta dal patrimonio personale del trustee, pur essendo nella sua titolarità giuridica, e di conseguenza non rientrano nel suo attivo ereditario e non possono essere aggrediti dai suoi creditori personali.

Infine il trustee ha l’obbligo di rendicontare, ai beneficiari, le operazioni compiute in merito ai beni in trust e permettere loro di ispezionare in qualsiasi momento, la relativa contabilità e dare informazioni e spiegazioni riguardo alle suddette se richieste. Esso deve comunque creare un canale di contatto con i beneficiari, in modo da poterli consultare, se necessario, e ascoltare le loro richieste.

1.4.3 Il beneficiario

Il beneficiario è quel soggetto, eventuale, che, in sede di costituzione del trust o con una decisione intervenuta successivamente, è designato dal disponente, o in casi particolari dal trustee, come destinatario degli effetti finali del trust; è il soggetto titolare di una posizione soggettiva rispetto ai vantaggi economici, ossia attribuzioni di beni e diritti, che il trustee ha l’obbligo o il potere di fargli ottenere.

Autorevole dottrina30 ha definito i beneficiari come un optional del trust, in quanto trattasi di un elemento puramente facoltativo, infatti come detto nei paragrafi precedenti possono venire a configurarsi dei trust privi di beneficiari31. Chiunque può essere beneficiario del trust, sia che si tratti di persone fisiche, sia che si tratti di persone giuridiche ed enti di svariata natura o addirittura anche

30 M. Lupoi, Trusts, Giuffré, 2001, p. 284 31 Trust di scopo.

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altri trust. Possono essere anche beneficiari, a loro volta, sia il disponente sia il trustee.

Il beneficiario non è il proprietario dei beni conferiti in trust bensì, è titolare del diritto di godere dei beni solo secondo le modalità previste dall’atto costitutivo. Per diventare il proprietario dei beni, il beneficiario deve porre fine al trust stesso e in quel momento, però egli non è più beneficiario, ma il soggetto istituito successivamente al trustee per ricevere il diritto oggetto del trust, quindi la pienezza del titolo viene ricostitutiva in capo al beneficiario perché il trust viene meno32, quindi nessuna facoltà del titolare di un diritto reale compete ai beneficiari di un trust e nessun bene è da essi apprensibile o direttamente utilizzabile.

Per quanto riguarda i diritti che spettano ai beneficiari si può dire innanzi tutto che essi hanno il diritto a che la programmazione economico-giuridica delineata nell’atto istitutivo del trust o successivamente, sia eseguita in conformità alle indicazioni del disponente, al fine di perseguire gli interessi dei beneficiari stessi; hanno poi diritto a richiedere informazioni relative alle operazioni poste in essere dal trustee e sul rendiconto dallo stesso predisposto; hanno il diritto, in taluni casi, ad essere consultati dal trustee il quale deve mantenere sempre un contatto con i beneficiari poiché opera nel loro interesse e, sempre nei limiti delle prescrizione dell’atto costitutivo, non ha ragione di ignorarne le richieste.

Per quanto riguarda i poteri in capo ai beneficiari, bisogna dire che essi possono esercitare un potere di controllo che può giungere, in casi di grave entità, alla formalizzazione di una richiesta di sostituzione del trustee inadempiente ai propri obblighi.

Sono anche titolari di un potere definito “tracing” con il quale, i beneficiari possono rivendicare il diritto di proprietà sui beni illegittimamente sottratti al trust non solo nei confronti del trustee, ma anche nei confronti de terzi, salvi gli effetti della buona fede di quest’ultimi. Infine con decisione unanime, hanno inoltre il potere di far cessare il trust, liberando con ciò il trustee dai suoi obblighi e responsabilità.

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Per quanto attiene invece l’ambito fiscale, come si vedrà meglio nel prosieguo del presente lavoro, bisogna dire che è prevista la tassazione dei redditi creati dal trust direttamente in capo ai beneficiari se individuati. Infatti, ai sensi dell’art. 73 comma 3 del Tuir33, quando vi siano beneficiari individuati, i redditi del trust sono imputati e tassati non in capo al trust stesso come soggetto passivo Ires, e quindi con aliquota proporzionale del 27,5%, ma in capo ai beneficiari stessi come redditi di capitale (o di impresa nel caso in cui il beneficiario sia una impresa commerciale).

1.4.4 Il guardiano

Per completare il novero dei soggetti protagonisti del trust, bisogna spendere qualche parola anche sul cosiddetto guardiano34. Pur non essendo una figura necessaria ai fini del trust, il guardiano ha assunto sempre maggiore importanza, soprattutto in quei casi in cui si rende necessaria la presenza di una figura terza, che rivesta il ruolo di controllore dell’attività svolta dal trustee, così da poter controbilanciare i poteri conferiti a quest’ultimo. La presenza di questo soggetto rappresenta un’importante garanzia sia per il disponente, perché gli permette di controllare l’operato del trustee, sia per gli eventuali beneficiari soprattutto quando abbiano difficoltà nel controllo diretto dell’attività svolta dal trustee. La figura del guardiano trova il suo fondamento giuridico nella facoltà, riconosciuta

33 Art. 73 comma 3: Nei casi in cui i beneficiari del trust siano individuati, i redditi conseguiti dal trust sono imputati in ogni caso ai beneficiari in proporzione alla quota di partecipazione individuata nell'atto di costituzione del trust o in altri documenti successivi ovvero, in mancanza, in parti uguali.

34 La figura del guardiano non è menzionata all’interno della Convenzione dell’Aja, essa si rinviene all’interno di leggi estere regolatrici dei trust, infatti questa figura si è sviluppata, successivamente all’introduzione di testi istituzionali inglesi in materia di trust, nel contesto di quelli che gli inglesi definiscono gli offshore trust, cioè quei trust costituiti, per lo più per ragioni di natura fiscale, in paradisi fiscali quali Jersey, Guernsey, Isola di Man, Bahamas, Cayman Islands, British Virgin Islands ecc.; i primi atti istitutivi di trust che prevedevano questa figura, si riferivano a questa designandola come adviser, appointor, protector. Agli inizi la figura del guardiano appariva essere più o meno quella di un controllore del trustee nell’interesse del disponente. Di regola il guardiano era un parente stretto o un amico del disponente, ed il suo compito era quello di garantire che il trustee adempisse correttamente ai vari doveri pendenti in capo al medesimo. Oggi la figura del guardiano è presente nella maggior parte dei trust e con compiti e responsabilità più ampie rispetto al passato.

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al disponente, di conservare ma anche di attribuire a terzi, alcune prerogative sottraendole al trustee.

Può ricoprire il ruolo di guardiano sia una persona fisica, sia una persona giuridica, singolarmente o collettivamente. La nomina dello stesso viene effettuata nell’atto istitutivo o in un atto separato, anche successivo. Tali atti possono prevedere che il guardiano abbia poteri di veto, cioè che per alcune decisioni che devono essere prese dal trustee, si rende necessario acquisire il consenso del guardiano, in modo tale da limitare la discrezionalità del trustee stesso soprattutto in relazioni a decisioni di particolare importanza come ad esempio l’alienazione dei beni. Altri poteri che possono essere riservati al guardiano sono, a titolo esemplificativo, la revoca e nomina del trustee, controllo sulla capacità del trustee di rivestire quel ruolo, revisione e approvazione del rendiconto, ecc.

Infine, sempre con riguardo ai poteri attribuibile al guardiano, bisogna dire che quando si ecceda nell’attribuzione di tali poteri, soprattutto attribuendo a tale soggetto non funzioni di controllo ma esercizio diretto di poteri dispositivi e gestionali appartenente al trustee, si rischia che il guardiano sia considerato, anche ai fini fiscali, come un trustee stesso.

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CAPITOLO SECONDO

IL TRUST E L’IMPOSIZIONE DIRETTA

2.1 La soggettività passiva ai fini dell’imposta sui redditi

Il trust in Italia, come descritto nel primo capitolo, è stato introdotto a seguito della ratifica della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, ad opera della legge n. 364 del 16.10.1989 entrata in vigore dal 1° gennaio 1992. Nonostante la sua introduzione è sempre mancata, nel nostro ordinamento, una chiara disciplina fiscale dell’istituto, anche perché, sotto questo profilo, la Convenzione lasciava la massima discrezionalità agli Stati. Ciò ha portato la dottrina35, la giurisprudenza36 e l’Amministrazione Finanziaria37 in sede di risposta ad interpelli, a delineare, in

via interpretativa, una disciplina fiscale coerente.

In seguito, una prima esplicita regolamentazione legislativa ha fatto l’ingresso nel nostro ordinamento dapprima con la Legge n 286 del 24.11.2006, in sede di conversione del D.L. n. 262 del 03.10.2006, la quale ha modificato la disciplina in materia di tassazione dei trasferimenti a titolo gratuito, quali donazioni, successioni mortis causa e trust, ripristinando la previgente imposta sulle successioni e donazioni che era stata abrogata nel 2001, e poi con la L. 296 del 2006, conosciuta come Finanziaria 2007, che è entrata in vigore il 1° gennaio 2007, è stata introdotta per la prima volta una disciplina ai fini delle imposte sui redditi del trust, ad opera dell’art 1 commi 74-75-76.

35 Si veda a tal proposito: L. Perrone, La residenza del trust, in Rassegna tributaria, 1999, fasc. 6 pag. 1601-1608; A. Giovannini, Problematiche fiscali del trust, in Bollettino tributario d’informazioni, 2001, fasc. 16-16, pag. 1125-1128; M.T. Chimienti, Trusts interni disposti inter vivos: orientamenti in materia di imposte dirette, 2003, fasc. 2, pag. 303-322; F. Paparella, Considerazioni in tema di disciplina dei trusts nel sistema delle imposte sui redditi delineato dalla legge delega di riforma dell’ordinamento tributario n. 80 del 7 aprile 2003 e le prospettive di riforma, in Bollettino tributario d’informazioni, 2003, fasc. 23, pag. 1683-1689; G. Luschi – D. Stevanato, il trust tra imposte indirette e sistemi di imputazione dei redditi, in Dialoghi di diritto tributario, 2004, fasc. 5, pag. 751-756; G. Semino - R.L.- D. Stevanato, Trust trasparenti e imputazione dei redditi ai beneficiari, 2005, fasc. 12, pag. 1611-1628; E. Covino – R.L., La soggettività tributaria del trust in ambito Ires: punti fermi ed interrogativi nella interpretazione dell’agenzia delle entrate, fasc. 9, pag. 1209-1221.

36

Sentenza del Tribunale di Lucca del 23 settembre 1997 su www.il-trust-in-italia.it; Commissione tributaria provinciale di Treviso 27 marzo 2001 inwww.ricerca24.ilsole24ore.com

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Tale legge, con la modifica dell’art. 73 del Tuir, ha espressamente previsto che tra i soggetti passivi IRES debba essere annoverato anche il trust e nel caso vi siano dei beneficiari individuati, a questi ultimi debba essere imputato il reddito prodotto dal trust in relazione alla quota di partecipazione ad essi riferibile.

Prima però di passare alla trattazione dell’introduzione della suddetta regolamentazione, dei problemi e dubbi che ha comportato, sarebbe opportuno argomentare la situazione, sempre ai fini fiscali, antecedente alla modifica dell’art. 73 Tuir.

2.1.1 La soggettività passiva nel trust prima della legge 296/06

Innanzi tutto bisogna dire che, l’art. 19 della Convenzione dell’Aja dispone che la medesima “non deroga alla competenza degli stati in materia fiscale” di conseguenza la ratifica della stessa non ha comportato l’introduzione di una regolamentazione fiscale del trust, ma ha lasciato ampia autonomia agli Stati contraenti in materia di disposizioni fiscali applicabili. L’art 19 della Convenzione, è stato l’unico riferimento in materia tributaria sull’argomento in esame per molti anni, infatti, prima di arrivare all’introduzione di una regolamentazione fiscale dell’istituto in esame, il legislatore italiano è rimasto in una posizione d’attesa fino a che il fenomeno non ha raggiunto dimensioni tali da richiedere l’emanazione di una legge38.

Si venne cosi a creare, per molti anni, un vuoto normativo in materia di fiscalità del trust che ha portato a conclusioni discordanti tra coloro che si sono occupati dell’argomento.

38

A. Poddighe, I Trust in Italia anche alla luce di una rilevante manifestazione giurisprudenziale, in Diritto e pratica tributaria, 2001, fasc. 2 pag. 311: “l’art. 19 della Convenzione dell’Aja del 1985 dispone che la medesima non <<non pregiudicherà la competenza degli Stati in materia fiscale>>. L’entrata in vigore di tale accordo internazionale non ha comportato perciò innovazioni nel sistema di diritto tributario italiano, lasciando autonomia agli Stati contraenti in materia di disposizioni fiscali applicabili. Al riguardo il legislatore italiano ha assunto una posizione d’attesa sino a quando il fenomeno assuma dimensioni tali da richiedere l’emanazione di una legge.

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Parte della dottrina39 aveva ipotizzato che soggetto passivo ai fini impositivi continuasse ad essere il disponente, ma solo in casi marginali, e cioè quando l’oggetto del trust non riguardi la piena proprietà del bene o di un diritto di godimento ma la nuda proprietà. Questa posizione era stata però criticata, giustamente, da altri autori40 sostenendo che il disponente non poteva essere soggetto passivo d’imposta poiché esso si spoglia dei beni che trasferisce nel patrimonio del trust perdendone la titolarità e la disponibilità al fine del raggiungimento dei fini dell’istituto e di conseguenza chiedere il pagamento al disponente equivale a disconoscere lo scopo, l’utilità e la natura stessa del trust. Altra opinione era quella di coloro41 che sostenevano che soggetto passivo dovesse essere il trustee, che a questo dovessero essere imputati i redditi prodotti dai beni conferiti in trust in quanto quest’ultimo diviene l’unico titolare della fonte produttiva del reddito. A questa conclusione si arrivava guardando innanzi tutto alla normativa della Convenzione dell’Aja, che, come abbiamo già avuto modo di vedere, da delle precise indicazioni sul regime giuridico dei beni che escono dal patrimonio del disponente e confluiscono in quello del trustee, e dalla lettura combinata degli art. 2 e 8 c.1 della convenzione, sembrava difficile negare

39 Marchese, Il bilancio del trustee: aspetti contabili, in Trust e attività fiduciaria, 2000, p. 197; V. Screpanti, Trusts e tax planning, in Il Fisco, 1999, pag. 9391: secondo questi autori il soggetto passivo ai fini impositivi è il soggetto disponente, nonostante si sia spogliato di alcuni beni destinandoli nel trust found, quando l’oggetto del trust non riguardi la piena proprietà del bene o di un diritto di godimento, ma la nuda proprietà e che questa soluzione sia ammissibile, ad esempio, in un trust di scopo quale il trust di sindacariato azionario in quanto i proventi incassati dal trustee andrebbero girati al disponente al quale, per tale motivo, andrebbero imputati i redditi da partecipazione e di capitale. Gli stessi sostengono anche che, nel caso dei trust in cui il disponente si costituisca trustee in relazione ai beni di sua proprietà appare difficile accogliere la tesi della perdita del possesso del bene fonte e del relativo reddito, da cui consegue che l’imposizione dei redditi avvenga in capo al disponente.

40

R. Lupi, la tassazione dei redditi del trust, in il trusts in Italia oggi, Milano, 1996, p. 323; E. Covino, R.L., op.cit., pag. 1210: “ciò premesso, si è ipotizzata l’attribuzione della qualifica di soggetto passivo al settlor (ossia il disponente), ma chiedere il pagamento delle imposte relative ai beni che il soggetto in questione ha <<segregato>> in uno specifico ente di diritto privato equivale a disconoscere l’utilità, lo scopo ed – in fin dei conti- la natura stessa del trust. D’altronde, immaginare che il distaccamento dei beni conferiti in trust dal patrimonio originario non vi sia mai stato sarebbe una fictio juris priva di sensate argomentazioni di supporto”.

41

F. Gallo, Trust, interposizione ed elusione fiscale, in Rassegna tributaria, 1995, p. 1043; Ficari, il Trust nelle imposte dirette, un articolato modulo contrattuale oppure un autonomo soggetto passivo? in Bollettino tributario, 2000, p. 1526; Marino, la residenza fiscale del trust, in Trust e attività fiduciarie, 2000. p. 72; Palumbo, profili tributari dei “common law trust”, in Rivista di diritto tributario, 1995, fascicolo 1, p. 195; Palumbo, pianificazione fiscale di trust alla luce della giurisprudenza italiana e svizzera, in Il Fisco, 1999, p. 1655.

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la posizione di effettivo proprietario del trustee, nonostante vi siano vincoli di destinazione e di separazione sui beni facenti parti il patrimonio del trust.

Altro punto a favore di questa tesi, derivava dall’analisi dell’allora art. 87 c.2 del Tuir42, in quanto nella parte in cui preveda tra i soggetti passivi dell’IRPEG43 “le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifichi in modo unitario ed autonomo”, non potevano essere ricondotti i trusts ritenendo insufficienti gli elementi tipici dell’organizzazione da esso posseduti44, e che questa facesse parte dell’attività di

gestione e amministrazione dei beni svolta dal trustee e di conseguenza il reddito e la relativa obbligazione dovevano essere attribuiti ad esso.

Ovviamente anche questa tesi apriva la strada alle critiche, infatti secondo altra parte della dottrina45, il trustee pur essendo il proprietario dei beni conferiti in trust non ne può disporre né godere dei frutti, se non nei limiti previsti nell’atto istitutivo dell’istituto, e considerarlo come soggetto passivo porterebbe all’applicazione dell’imposta sulle persone fisiche, a scapito di quella a carico delle società e degli enti, con l’evidente aspetto negativo individuato nell’effetto della progressività a carico del trustee dovuto alla somma dei redditi personali, di quest’ultimo, con i redditi prodotti dai beni ricevuti in trust.

Di conseguenza, si avrebbe una maggiore tassazione dei redditi derivanti dal trust nel caso in cui il trustee sia titolare di redditi personali di rilevante

42 Oggi sostituito dall’art. 73 del Tuir. 43

Oggi sostituita dall’IRES. 44

F. Paparella, op.cit., p. 1684:”in negativo, invece, è stata correlativamente esclusa qualsiasi ipotesi di personificazione, ritenendo insussistenti nel caso dei trusts gli elementi tipici dell’organizzazione con la conseguenza di ritenere inapplicabile l’attuale art. 87, comma 2, del T.U.I.R. nella parte i cui prevede fra i soggetti passivi dell’IRPEG << le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifichi in modo unitario ed autonomo>>”.

45

E. Covino e R.L., op.cit, p. 1211: “ora, se è pacifico che costui è tenuto a gestire e prendersi cura in prima persona del patrimonio del trust, è altrettanto indiscusso che questo patrimonio non possa essere considerato come riferibile al trustee: tanto è vero che i suoi stessi creditori personali non possono vantare alcun titolo per aggredirlo. D’altra parte il trustee è si proprietario dei beni trasferiti, ma non può godere dei frutti, né disporne, se non nei limiti e secondo quanto disposto nell’atto istitutivo del trust. A questa considerazione ne va aggiunta una ulteriori di carattere prettamente fiscale: tassare i redditi del trust unitamente al patrimonio del suo gestore comporta, in qualsiasi moderno sistema di imposizione progressiva, un ingiustificato cumulo dei redditi riferibili a capacità contributive del tutto distinte. Si pensi ad un modesto trust affidato in gestione ad un facoltoso imprenditore proprio per le sue indiscusse capacità di amministrazione. I redditi di questo piccolo trust si vedrebbero, in base alla teoria esaminata, sottoposti ad una onerosa imposizione solo a causa degli altri redditi posseduti dal trustee. Sarebbe come tassare pesantemente i pochi redditi ottenuti da una persona legalmente incapace solo perché chi ne ha la rappresentanza legale è, per accidente, molto ricco.

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