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Il carcere fra ideale e reale: prospettive per la "nuova" pena detentiva.

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Academic year: 2021

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Indice

INTRODUZIONE...3

CAPITOLO 1 LA PENA E IL CARCERE : FUNZIONE EVOLUZIONE STORICA6 1.1 Funzione della pena...6

1.2 Evoluzione storica: dallo splendore dei supplizi al sistema penitenziario...10

1.3 Storia della pena in Italia: dall'Ottocento alla riforma penitenziaria...26

CAPITOLO 2 IL CARCERE: LUCI E OMBRE...50

2.1. La pena detentiva: tra idea innovatrice e scacco della giustizia penale...50

2.2 Le critiche attuali...56

2.3 La polemica contro le misure alternative... ...77

2.4 La critica al regime di "carcere duro": art. 41Bis...80

2.5 Il futuro: il disegno di legge Orlando...83

CAPITOLO 3 UNA SOCIETA' SENZA CARCERE?...86

3.1. L'abolizione della pena: storia di una presunta utopia...86

3.2. L'affermazione del principio di dignità...91

3.3. La mediazione come via per escludere il carcere...95

CAPITOLO 4 PROPOSTA DI UNA "NUOVA" PENA DETENTIVA: L'ESEMPIO NORVEGESE...106

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pena detentiva. ...106

4.2. Il carcere di Bastoy: modello di carcere "reale"...124

4.3. L'esempio di Halden e progetti che funzionano nelle carceri italiane...136

4.4 La "rieducazione" della società...141

CONCLUSIONI...153

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INTRODUZIONE

"Non si può asciugare l'acqua con l'acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco,, quindi non si può combattere il male con il male" (Lev Tolstoj)

Durante lo studio del diritto penale, ci viene posta una domanda :"Perchè punire?" ed è proprio da un interesse alla risposta a questo quesito, che nasce il presente lavoro di tesi.

Da sempre l'uomo ha cercato di rispondere adducendo motivazioni più o meno coerenti, dando alla pena una funzione più o meno nobile, ma resta comunque irrisolto il perchè si debba punire arrecando sofferenza.

La pena era ed è una condanna alla sofferenza anche se i metodi con i quali si impartisce sono cambiati, almeno apparentemente.

La nostra Costituzione parla chiaro affermando che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso dell'umanità e ne indica il fine tendenziale nella rieducazione; tuttavia un secolare e sedimentato modo di concepire la pena e le resistenze che vengono dai consociati ad un "addolcimento" dei trattamenti penitenziari, hanno frenato il processo di adeguamento dell'ordinamento a tale principio.

Dunque, la domanda che sorge spontanea di fronte a questa constatazione non è tanto rivolta a ricercare le motivazioni del punire, bensì a capire come mai l'uomo che ha fatto enormi progressi sfidando la natura e la scienza, non sia ancora riuscito a pensare prima di tutto, e poi a creare una pena che sappia rinunciare a quel tanto di violenza che la caratterizza. Le ragioni sono tante e questa tesi cerca di dare una risposta facendo un'analisi dei meccanismi che non permettono tale trasformazione.

Prima di questo però è stato necessario procedere ad una critica distruttiva della pena e fra tutte, quella detentiva, che è il simbolo del

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diritto di punire che si esercita nei confronti del condannato e allo stesso tempo della sofferenza che questo produce. Quando si parla di carcere, si parla di un istituto che è sopravvissuto nei secoli immutabile. Nonostante i molti interventi e le molte proposte tesi al miglioramento, mai si è riusciti ad incidere nella sua essenza.

Forse perchè non vi è stata una viva intenzione di farlo o forse perchè ciò risulta impossibile.

La prima parte si sviluppa evidenziando i punti deboli del carcere senza la necessità di appellarsi a tutti quei diritti che in esso e per mezzo di esso vengono violati, la inosservanza dei quali può essere solo una conferma ma non la motivazione della sua inadeguatezza. La seconda parte è invece la pars costruens del lavoro, che con un ragionamento controfattuale cerca di immaginare quali potrebbero essere gli esiti di una rinuncia alla pena detentiva, ma che, considerando in una seconda fase dell'argomentazione, la necessità della stessa ragioni che illusterò, giunge a esplicitare quali siano le condizioni della sua esistenza. Si procede dunque all'illustrazione di tutta una serie di modifiche necessarie per far rientrare la pena detentiva nei canoni sanciti dall'art. 27.

Forte del fatto che il presente progetto di tesi non sia il frutto di una sola mente stravangante in questo grande mondo, ma che molte sono le voci e gli esempi in Italia e all'esterno che in modo sempre più pressante chiedono un mutamento e che cercano di dimostrare che un modo "diverso" di concepire la pena sia possibile, concludo con le parole di Luigi Manconi: "D'altro canto, la Costituzione non parla mai di carcere, né di pena detentiva. Anche se i costituenti conoscevano solo il carcere (per averlo personalmente scontato durenate il regime fascista) e la pena capitale, in modo saggio e miracolosamente lungimirante, non oggettivarono le pene, lasciando ampo libero ad un legislatore che volesse cambiare radicalmente fisionomia delle

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sanzioni penali.

Siamo dunque autorizzati a osare1".

1 MANCONI- ANASTASIA – CALDERONE- RESTA, Abolire il carcere, Pioltello 2015, pag. 13;

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CAPITOLO 1

"Torta miracolosa di Giusy: 3 hg di pazienza,1½ di calma, 1½ di umiltà,1½ di fiducia in sé 1 ½ di riflessione, 1 bicchiere di sorriso." (da "Ricette al fresco. 85 modi per cucinare nel carcere di Pisa")

LA PENA E IL CARCERE : FUNZIONE EVOLUZIONE STORICA

1.1 Funzione della pena

E' interessante, studiando cosa sia la pena, considerare come questo semplice interrogativo abbia nel tempo coinvolto le menti dei più disparati settori di studio: dalla sociologia, alla filosofia, fino alla scienza giuridica e al diritto penitenziario. Ognuno di questi ambiti ha cercato di offrire una propria nozione di pena usando metodi e rispondendo ad interrogativi e ad esigenze diversi. La filosofia ha fatto riferimento a determinate convinzioni di tipo valoriale, la sociologia ha studiato le reazioni sociali alla devianza, mentre le scienze giuridiche e penitenziarie hanno studiato le istituzioni penali dall'interno. Studiare cosa sia la pena e come questa sia venuta a cambiare nel tempo, vuol dire, tuttavia, attingere da tutte e tre le discipline sopra menzionate, le quali, intrecciandosi fra loro, rendono più completo e chiaro l'oggetto di indagine.

In ambito giuridico, la pena è la sanzione giuridica comminata in conseguenza della commissione di un reato. L'ordinamento giuridico proibisce alcuni comportamenti ritenendoli penalmente rilevanti e fa corrispondere alla loro realizzazione una pena da applicare; essa è lo scudo e allo stesso tempo spada: difende interessi giuridicamnte protetti ed è arma con la quale si risponde ad una loro eventuale lesione. Il concetto di pena evoca quasi in automatico l'idea di

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punizione, sofferenza, di castigo inflitto e uno dei problemi più difficili da risolvere sembra che sia proprio la inconciliabilità tra quelli che sono i fini legittimamente assegnati alla pena e le funzioni che di fatto acquistano nella realtà concreta.

Nel corso della storia del pensiero umano si sono susseguite varie definizioni di pena, tanto che sembra difficile ridurre il tutto all'unità ed è importante notare come queste varie idee si siano venute a creare soprattutto in base alla struttura sociale e statale nella quale coloro che le hanno formulate si trovavano a vivere.

Originariamente una delle funzioni che è stata attribuita alla pena, ma che ad oggi sembra difficile da condividere, è la funzione retributiva, secondo la quale la sanzione penale avrebbe lo scopo di assicurare la retribuzione del colpevole per l'offesa cagionata con il reato in ragione di un principio di 'giustizia assoluta'. Questa funzione si esprimeva a pieno, in un primo momento, tramite il meccanismo della vendetta, in applicazione del quale non vi era la necessità di stabilire una sorta di proporzione con il danno arrecato: la vendetta non aveva limiti. Nietzsche nella Genealogia della morale fa risalire questo contraccambio fra illecito e sofferenza al rapporto di debito-credito come originariamente inteso, nel quale il creditore aveva il diritto di esercitare qualunque tortura, un potere illimitato sul debitore, che è completamente assoggettato a lui a causa del contratto che li lega. C'è poi un'altra radice a cui risalire, espressa nello stesso termine 'pena', che secondo alcuni deriva dal termine latino 'punire' nel significato di 'purificare'. Già Platone e Aristotele avevano espresso questo pensiero, che la pena fosse purificazione tramite il dolore (un dolore da infliggere in modo incalcolabile, senza parificazione con la gravità del reato), passato attraverso gli scritti di Sant'Agostino, innestandosi quindi poi nella nostra tradizione. Solo successivamente si viene a creare la necessità della proporzione tra delitto e pena, è questa l'epoca

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della legge del taglione; siamo nella fase in cui il potere di punire viene affidato man mano all'autorità pubblica, lo Stato, che ha una posizione di terzietà rispetto alle parti e in cui anche le pene sono generalmente meno cruente, fino ad arrivare all'applicazione della pena carceraria. Kant ed Hegel affermano questa esigenza di retribuzione in vista sempre dell'affermazione di un principio di giustizia assoluta: la pena annulla il delitto e riafferma l'ordine giuridico, morale e sociale offeso. Ad oggi una tale concezione della pena risulta alquanto obsoleta, soprattutto ci si chiede perché lo Stato, che è garante dei diritti dei consociati, dovrebbe affermare un principio assoluto di correlazione del male al male, senza che questa porti ad un affettiva utilità per alcuno: nè per lo Stato, nè per l'offeso, nè per l'offensore. L' idea di 'giustizia assoluta' è un fondamento totalmente idealistico, filosofico, che richiama ad una sorta di 'legge superiore', un Giudice Supremo 'da onorare senza alcuna possibilità di sottrarvisi2; secondo altri, questo

tipo di funzione ha la finalità più concreta di rafforzare il senso di sicurezza fra i consociati, ma a questo punto, il grande rischio è che la pena assumerebbe un carattere puramente 'simbolico'. Ecco che nel contesto attuale è stato necessario intravedere una proporzionalità fra delitto e pena , bisogno che nasce dal fatto che pensare a questa senza un fine, applicata in ragione del solo principio di giustizia assoluta sembri alquanto assurdo. Oggi si fa riferimento alla proporzione, colonna portante del sistema penale attuale, frutto della Scuola Classica penale e ben espresso, come si vedrà in seguito, dallo stesso Beccaria. Solo quando la pena rispetti totalmente questo principio sarà possibile che il reo potrà avvertire la pena come giusta e sarà maggiormente disposto ad intraprendere un processo rieducativo. Ben presto le teorie assolute crollano e saranno sostituite dalle teorie che si basano sulla prevenzione che, a differenza della prima, sono totalmente

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protese al futuro: lo scopo è evitare la commissione di altri reati. La prevenzione generale o della deterrenza è la teoria per la quale gli uomini hanno paura delle punizioni e questo fa sì che loro rispettino i patti e gli accordi. Secondo Beccaria, l'efficacia deterrente non sta tanto nella comminazione di pene severe, ma di pene certe; l'idea della pena che previene è anch'essa molto antica: da Seneca ( '...allo stesso modo il magistrato deve trattare gli spiriti con le parole , per persuadere tutti al proprio dovere e ispirare il sentimento di giustizia, l'amore per la virtù e l'odio per il vizio'3) a Bentham e Feuerbach, ma

anche Rosmini, ci parlano di una pena che è la spinta contraria a quella criminosa. La pena è intimidazione ed è necessario creare un sistema nel quale l'uomo sia totalmente distratto dalla commissione del reato per timore della sanzione che si applica. Proprio Bentham afferma che l'origine dell'idea del delitto sta nel maggiore vantaggio che un soggetto trova nella sua commissione rispetto allo svantaggio che la pena gli procura. E proprio perché il fine è impedire quanto più possibile la commissione del fatto, la pena, con il carcere, viene ad assumere le caratteristiche 'della più grave risposta sanzionatoria tra quelle oggi riscontrabili'4, andando ad incidere sul bene della libertà

personale, privando un uomo di questa o solo limitandola. In particolar modo, questa finalità va a braccetto con la necessità di differenziare la gravità dei reati; seguendo il ragionamento che Beccaria fa nella sua opera Dei delitti e delle pene, se il rischio penale fosse identico per tutti i reati, nessuno si asterrebbe dal compiere un reato grave o dal compiere anche quello5. Se si rischia la stessa pena, anche se un

3 F.COSTA, Delitto e pena nella storia del pensiero umano 4 G.DE FRANCESCO, op.cit., p.4;

5 "Non solamente è interesse comune che non si compiano delitti, ma che siano più rari a poroporzione del male che arrecano alla società. Dunque più forti debbono essere gli ostacoli che risopsingono gli uomini dai delitti a minura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura delle spinte che portano ai delitti. Dunque vi deve essere proporzione fra delitti e pene". C.BECCARIA, Dei delitti e delle pene , Torino 1965, pag. 19;

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individuo ha solo intenzione di rubare, potrebbe essere indotto a rapinare o uccidere. E' necessario quindi che vi sia proporzione, perché un sistema penale che non si attiene a questo risulta ingiusto. Ultima finalità è quella della specialprevenzione, legata al principio costituzionale della rieducazione . Una volta commesso il delitto, non è più possibile cancellarlo ('factum infectum fieri nequit') e come nella generalprevenzione anche questa finalità guarda al futuro e allo scopo di impedire che chi abbia già commesso il reato non cada della recidiva, che il condannato sia rieducato, come afferma l'art 27 della Costituzione;

vedremo poi qual è il significato di rieducazione e come attualmente questa si applichi.

Sebbene l'art.17 del codice penale preveda varie tipologie di pena, ad oggi parlare di sanzione penale vuol dire parlare quasi sempre di reclusione, nonostante il processo di depenalizzazione.

"Si imprigiona chi ruba, si imprigiona chi violenta, si imprigiona anche chi uccide. Da dove viene questa strana pratica, e la singolare pretesa di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni?"6chiede

Foucault.

Vediamo come si è giunti a questo sistema penale, quale era la pena prima di ora e quali erano le sue funzioni.

1.2 Evoluzione storica: dallo splendore dei supplizi al sistema penitenziario

'Sorvegliare e punire. La nascita della prigione7' è l'opera di Michel

Foucault che mette in luce la trasformazione delle modalità punitive partendo dalla descrizione del supplizio di un regicida del diciottesimo secolo affiancato al regolamento di un istituto penitenziario del secolo

6 M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, nota di copertina, Torino, 1975;

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diciannovenismo. Foucault confrontando l'età classica e l'età moderna, esamina le ragioni sulla base delle quali nel giro di un secolo tutto cambia: dallo studio del reato si passa allo studio dell'individuo criminale e alla creazione di figure professionali che affiancano quest'ultimo come psichiatri, assistenti sociali.

Prima del diciannovesimo secolo, la pena era concepita in quasi tutta Europa come supplizio, che si caratterizzava per la capacità di produrre sofferenza fisica, valutabile secondo precisi codici del dolore; il supplizio che era marchiante, produceva memoria, inserito in un vero e proprio cerimoniale giudiziario che deve produrre verità. In esso si manifestava la giustizia in tutta la sua forza, un'esplosione di crudeltà nella quale risiede l'economia del potere. L'istruttoria penale era un meccanismo che produceva verità in assenza dell'accusato. Tutta la procedura rimaneva segreta sia al pubblico che all'accusato. Solo nel castigo il corpo era mostrato, esposto, tormentato, è l'elemento essenziale; il supplizio, sontuosa cerimonia pubblica, si svolgeva come un rituale essenzialmente politico, una pura manifestazione del potere. Il reato reca offesa non solo alla vittima ma anche a di chi fa valere la legge, perché c'è piena coincidenza tra legge e volontà del sovrano e la pena è soprattutto fisica perché è la forza della legge che si manifesta e che corrisponde alla personale forza del sovrano, che non è arbitro tra due contendenti, ma è colui che replica al reato. La pena in questo momento storico ha questa finalità: riparare il danno cagionato al regno ed è vendetta del sovrano, il quale proprio per raggiungere tale fine ricorre 'allo splendore dei supplizi' che manifestano la forza indomabile del sovrano in netta superiorità fisica e giuridica rispetto al reo. "Il supplizio non ristabiliva la giustizia, ma riattivava il potere"8.

Parte fondamentale del supplizio era il popolo ed è proprio a partire da questo che ben presto si ebbe la necessità di passare ad una nuova fase

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storica della pena. Si sviluppa una certa 'solidarietà' con il condannato, soprattutto se piccolo delinquente. E' la fascia che sta più in basso che inizia a contestare, è la fascia meno ascoltata dalla giustizia che inizia a temerla: una giustizia che si abbatte sulle vite impetuosamente senza misura e senza equilibrio.

Foucault segna un preciso momento storico come quello di passaggio ad una nuova fase di intendere la pena e la giustizia penale: è tra la fine del diciottesimo e l'inizio del diciannovesimo secolo che la 'lugubre festa punitiva' si va spegnendo. E' la fase in cui spariscono infatti i supplizi, che si perdono in un processo più ampio di umanizzazione: la pena non tiene più lontani dal delitto perché è 'obbrobriosa', ma perché è certa e pronta: "Quanto più la pena sarà pronta e più si avvicina al delitto commesso ella sarà tanto più giusta e tanto più utile"9; in questo

riconosciamo il contributo di grandi pensatori, primo fra tutti Beccaria, come detto anche precedentemente e come diremo in seguito. Enormi le ripercussioni: i dibattiti e le sentenze sono ora pubblici, ma l'esecuzione della pena, che intanto tende a divenire un settore autonomo, essa è ancora una vergogna. Se ne tiene dunque a distanza, tendendo sempre ad affidarla ad altri, e in segreto. E' brutto essere punibili, ma poco lodabile è punire, anche se il fine della pena non è più castigare, ma correggere, raddrizzare, migliorare.

Il castigo non tocca più il corpo, il corpo è solo uno strumento: adesso la pena è privare l'individuo della libertà considerata un diritto e insieme un bene. Accanto alla scomparsa dello spettacolo, un altro elemento dunque: l'annullamento del dolore. Accanto al condannato ci sono sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori che hanno proprio il compito di garantire che non sia il corpo il fine della pena e non sia il dolore lo strumento attraverso il quale questa si applica.

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Ecco che si affacciano castighi come i lavori forzati o la prigionia pura come privazione di libertà, si parla di 'dolcezza della pena', anche se questa rivela sempre il suo lato severo, fatto di razionamento alimentare, percosse, privazioni, limitazioni; lo stesso Foucault si chiede ' E' giusto che il condannato soffra più degli altri uomini?'10

Quello che succede dal diciottesimo secolo in poi è ben raccontato: la misura della pena diventa l'umanità, la pena deve essere 'dolce'11. Sono due i punti di origine della riforma del diciottesimo secolo: da un lato c'è una diminuzione dei delitti di sangue, sostituiti per buona parte dai delitti contro la proprietà. "C'è una modificazione delle pressioni economiche, da un innalzamento generale del livello di vita, da un forte incremento demografico, da una moltiplicazione delle ricchezze e delle proprietà e dal «bisogno di sicurezza che ne è conseguenza»12.

Dall'altro un irrigidimento della giustizia penale, le cui norme divengono in alcuni casi più severe, con un controllo maggiore del corpo sociale. Nel mirino delle critiche da parte dei riformatori è soprattutto la cattiva ripartizione del potere, la sua cattiva distribuzione: il potere penale sta tutto al centro, il sovrano è strapotente; è necessario creare dei canali, dei circuiti che meglio distribuiscano il potere in modo tale che il potere penale possa esercitarsi ovunque, producendo effetti più efficaci e costanti. Per far questo era necessario che il potere penale non dipendesse più dalla sovranità e che diventasse un potere pubblico.

10 M.FOUCAULT, op.cit., pag.15

11 "I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poichè il medesimo spirito che guidava la mano del

legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario. [...] La prima (conseguenza alla atrocità della pena) è che non è sì facile il serbare la proporzione essenziale tra il delitto la pena, perchè, quantunque un'industriosa crudeltà ne abbia variate moltissimo le specie, pure non possono oltrepassare quell'ultima forza a cui è limitata l'organizzazione e la sensibilità umana. [...]L'altra conseguenza è che la impunità stessa nasce dall'atrocità dei supplicii. Gli uomini sono racchiusi fra certi limiti ed unio spettacolo traoppo atroce per l'umanità non può essere che un passeggiero furore, ma non mai un sistema costante quali debbono essere le leggi" C. BECCARIA, op.cit. p. 60-61 12 M. FOUCAULT, op.cit.; p. 73;

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In questa nuova fase, si parte dal presupposto che il cittadino abbia accettato tutte le leggi della società, comprese quelle penali; il criminale è chi rompe questo patto e che viene punito perché il suo illecito lede l'intera società, egli diventa quindi un nemico pubblico. Il fine della pena non è più vendicare il sovrano, ma tutelare i consociati, ma per evitare la creazione di un altro strapotere, è stato necessario creare un principio di moderazione. La pena deve essere 'sensibile' e acquista questa connotazione con l'applicazione del principio del calcolo e la sua finalità non guarda più al passato, ma al 'disordine futuro' che potrebbe derivarne: " Fare sì che il malfattore non possa avere né la voglia di ricominciare, né la possibilità di avere imitatori"13.

Si apre così una fase di teorizzazione dei principi sui quali comminare la pena: la necessaria proporzione tra crimine e pena inflitta, i reali destinatari della pena, la necessità di leggi chiare e eque e la certezza della pena, la scientificità delle regole a cui affidarsi per verificare il delitto.

Servono codici, serve individualizzare la pena in modo conforme alle peculiarità di ogni criminale: la sua natura, il suo modo di vivere e di pensare, il suo passato e non più l'intenzione della sua volontà. Oggetto dell'intervento penale diventa a poco a poco la criminalità e non più il crimine, inizia un processo di generalizzazione che ha come conseguenza importante il fatto che la pena non possa più venire a definirsi come l'applicazione del potere di punire sul corpo, oggetto deve essere lo spirito.

Per fare questo si avverte l'esigenza di rendere obiettivo sia lo studio della criminalità che quello del criminale, il quale rientra infatti nel campo di oggettivazione scientifica e del trattamento correlativo e la necessità di misurare dall'interno gli effetti del potere punitivo prescrive tattiche d'intervento su tutti i criminali, attuali o eventuali.

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Questa nuova arte del punire ha come punto fondamentale la 'tecnologia della rappresentazione', " trovare per un delitto il castigo che gli conviene, trovare lo svantaggio di cui l'idea sia tale da rendere definitivamente priva di attrazione l'idea di un misfatto"14 e questo

passava attraverso delle regole, quali: l'essere il meno arbitrari possibili, cioè la pena deve essere quanto più conforme possibile alla natura del reato (ad esempio chi abusa della libertà pubblica sarà privato di questa); il delitto e la pena devono stare in rapporti esatti, Foucault parla di una 'ragionevole estetica della pena'. Questo gioco deve diminuire la propensione al delitto per i soggetti e aumentare il timore della pena, il legislatore è un architetto15 (il cosiddetto

'meccanismo delle spinte'). La pena deve poi essere modulata nel tempo perché solo così può essere utile: la pena trasforma il soggetto, ma se la pena non ha fine che senso ha questo cambiamento? Così l'individuo non avrebbe mai la possibilità di mettere alla prova la virtù che ha acquisito. La pena deve avere una certa durata e deve essere variabile, si deve attenuare insieme ai suoi effetti. Ancora, il vero destinatario della pena è il condannato ma è necessario che tutti considerino la pena come conveniente: la pena non è più clamorosa e inutile, ma deve essere la retribuzione data dal colpevole a ciascun concittadino per il delitto commesso e che ha leso tutti. In fine, una nuova idea di pubblicità: non più il pubblico castigo che faceva bene soprattutto alla sovranità, ma l'applicazione delle regole di un codice che crea dei legami tra delitto e castigo, la pena è l'applicazione di quelle leggi penali, che trovano la loro origine nel codice. Il castigo non è più una festa, ma una scuola, il criminale non è più glorificato, è

14 Idem, p. 102.

15 "Il sentimento del rispetto per la proprietà – quella delle ricchezze, , ma anche quella dell'onore, della libertà, della vita- il malfattore l'ha perduto quando ruba, calunnia, rapisce o uccide. Bisogna insegnarglielo di nuovo . E si comincerà a insegnarlo per lui stesso: gli si farà provare qullo che è perdere la libera

disposizione dei beni, dell'onore, del tempo, del corpo, perchè egli la rispetti a sua volta negli altri." M.FOUCAULT,op.cit., pagg. 105-106

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un "museo vivente"; ogni cittadino vedendo l'immagine di una pena che si applica la diffonderà e si farà di questa memoria per creare nei singoli concittadini l'idea del delitto e del castigo, l'amore delle leggi e della patria, il rispetto e la confidenza per la magistratura . La 'città punitiva' di cui parla Foucault è la città in cui tutto riflette il Codice: "ad ogni crimine, la sua legge; ad ogni criminale la sua pena"16.

Essa non è uniforme, viene prevista fra le varie pene, anche la prigionia, come castigo specifico di certi delitti che attentano alla libertà dell'uomo; anzi, in brevissimo tempo la carcerazione era diventata la modalità di punizione prevalente. Si crea una architettura chiusa, complessa, che si integra nel meccanismo statale stesso e la detenzione inizia a essere quella pena da applicare per ogni infrazione importante a meno che il condannato non meriti la morte. Finisce quindi qui l'idea di far corrispondere ad ogni delitto un castigo, ora ad ogni delitto corrisponde sempre la carcerazione che può essere di vari tipi, ma pur sempre prigionia. In realtà, in origine la detenzione era usata a scopo contenutivo e sostitutivo, facendo riferimento all'antica funzione attribuitale sotto l'Impero Romano "ad continendos homines, non ad puniendos": il suo ruolo è una presa di garanzia sulla persona, ci si assicura di qualcuno, non lo si punisce. Ben presto però un tale uso del carcere divenne illegale, poiché arbitrario e legato agli eccessi del potere sovrano. I cahiers de doleances in Francia chiedono fortemente la soppressione delle case di forza e ben presto questa avvenne.

La spiegazione del perché in realtà ben presto il carcere divenne la principale forma di castigo si rintraccia soprattutto nei nuovi modelli di carcerazione proposti soprattutto dall'Inghilterra e dall'America.

16 M.FOUCAULT, op. cit. pag. 112. Si veda anche Beccaria, nel suo libretto Dei delitti e delle pene scrive in proposito: "Quanto maggiore sarà il numero di quelli che intenderanno e avranno fralle mani il sacro codice delle leggi, tanto men frequenti saranno i delitti, perchè non v'ha dubbio che l'ignoranza e l'incertezza delle pene aiutino l'eloquenza delle passioni" C. BECCARIA, op. cit. Pag.60;

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Il primo carcere-modello fu Rasphuis di Amsterdam aperto nel 1596 e creato soprattutto per i mendicanti e i giovani malfattori e basato su tre principi: la durata della pena era decisa dall'amministrazione a seconda della condotta del condannato; il lavoro era obbligatorio e si faceva in comune, per il lavoro svolto i condannati ricevevano un salario; esistevano poi tutta una serie di strumenti per attirare i detenuti verso il bene e distoglierli dal male. Questo fu un modello originario, che fonda una trasformazione pedagogica e spirituale degli individui per mezzo di un esercizio continuo, e le tecniche penitenziarie ideate nella seconda metà del secolo Diciottesimo e che da un input anche alle tre istituzioni successivamente attuate che attueranno secondo diverse direzioni tali principi.

La casa di forza di Gand organizza il lavoro penale soprattutto intorno ad imperativi economici. L'obbligo del lavoro e della retribuzione permettono al detenuto di migliorare la sua vita dentro e fuori la detenzione. Si vuole ricostruire l'homus oeconomicus, il che esclude pene molto brevi poiché non darebbero modo al condannato di correggere sé stesso.

Al principio del lavoro, il modello inglese aggiunge un altro elemento: l'isolamento. Lo schema era stato dato nel 1775 da Hanway,che preferisce l'isolamento alla promiscuità che favorisce cattivi esempi, possibilità di ricatti, di complicità. Con l'isolamento il condannato ritorna su sé stesso e riscoprire nella propria coscienza la voce del bene, così il prigioniero non è solo portato all'apprendimento ma anche alla conversione; la prigione riforma l'uomo per restituirlo poi alla società, è un "riformatorio". "Sono questi i principi generali che Howard e Blackstone mettono in opera nel 1779 quando l'indipendenza degli Stati Uniti impedisce le deportazioni e viene preparata una legge per modificare il sistema delle pene. La detenzione, ai fini della trasformazione dell'anima e della condotta, fa

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il suo ingresso nel sistema delle leggi civili".17 Questi erano i tre fini

del carcere: esempio da temere, strumento di trasformazione dell'individuo e abitudine al lavoro. Solo il carcere di Gloucester non risponde a questo schema: i criminali più pericolosi sono sempre isolati, mentre per gli altri l'isolamento è solo notturno, durante il giorno si lavora insieme.

In fine, il modello Filadelfia. Questo modello creato sotto l'influenza dei quaccheri, riprendeva in parte il modello di Gloucester e Gand: il lavoro era obbligatorio e retribuito; la retribuzione serviva oltre che al sostentamento dei condannati anche al finanziamento della prigione. Vi è quindi un impiego rigoroso del tempo e una sorveglianza ininterrotta, aggiunti ad un isolamento non totale tranne che per quelli che un tempo avrebbero avuto la pena capitale e per quelli che all'interno meritano punizioni speciali. Come a Gand, la durata della detenzione si modifica in base alla condotta del detenuto. La pena non è pubblica, la popolazione saprà che una pena si sta svolgendo nelle mura del carcere e quello sarà l'esempio; l'amministrazione trasforma gli spiriti. Affinché un detenuto si trasformi sono necessari ma non sufficienti il ritorno in sé stesso, la solitudine e le esortazioni religiose. Il carcere diventa così luogo di osservazione.

Questi sono poi divisi in quattro classi in base non al reato commesso, ma al pericolo che si nasconde in un individuo e che che si manifesta nella quotidianità.

Ci sono dei punti di convergenza tra tutti questi modelli: primo fra tutti la pena che è rivolta al futuro, non più a cancellare il delitto, ma a prevenirlo, a correggere il colpevole. Il sistema di pene è adattato alla personalità e alla pericolosità del soggetto. La correzione è svolta 'a tempo pieno', l'individuo che si vuole correggere è totalmente circondato dal potere e la punizione dovrà avere delle proprie regole ed

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essere orientata ad un certo fine.

Altra particolarità è che con questo sistema si crea una istituzionalizzazione del potere di punire: la pena suppone che ci cia un potere specifico che la gestisca.

Tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo vi è un passaggio fondamentale: parlare di pena vuol dire parlare di prigione. Questo è uno dei punti di arrivo di un modo diverso di pensare la società, che si era venuto ad affermare proprio in questi anni, fatto di procedure elaborate per addestrare i corpi, codificare il loro comportamento, osservare, studiare, al fine di rendere gli uomini utili e docili. In tutto il diciottesimo secolo abbiamo una riscoperta del corpo come oggetto e destinatario del potere, in questo si fonda l'idea di istituzione-prigione. A cavallo fra i due secoli vi è stato un altro mutamento importante: il potere di punire inizia a caratterizzarsi poiché è un potere autonomo e uguale e le sole asimmetrie che sussistono sono quelle legate agli assoggettamenti disciplinari. La prigione sembra ben presto così tanto legata al funzionamento della società che tutte le altre forme di punizioni passano in secondo piano. Quanto detto da Foucault è solo un 'accenno' sul tema, più ampiamente trattato da Goffman il quale inserisce il carcere in quella categorie di istituzioni che egli chiama 'totali', per queste e molte altre ragioni che vedremo in seguito. L'autore francese è consapevole degli inconvenienti che ci siano dietro questa pena che definisce infatti 'la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe fare a meno', ma è stato considerato e continua tuttora a considerarsi impossibile il suo venir meno, per alcune ragioni: innanzitutto perchè la pena detentiva è la privazione di libertà, bene di cui tutti gli uomini della società dispongono e che quindi rappresenta lo stesso "prezzo" che tutti pagano; in più essa è quantificabile nel tempo. Il carcere rinchiude, ma al tempo stesso incide sull'animo umano, rende docili; da sempre la privazione della libertà è stata

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accompagnata da questa funzione di trasformazione degli individui. Tuttavia dalla sua nascita, la prigione ha sempre posto il problema degli strumenti correttivi. Siccome il carcere ha un potere quasi totale sui detenuti, le procedure disciplinari qui sono applicate pienamente e massimamente. Esso punta innanzitutto sull'isolamento: la pena deve essere individuale, ma anche individualizzante per ridurre le conseguenze che potrebbe comportare la riunione di condannati per reati diversi fra loro e riformare: da solo il carcerato riflette di più e più è capace di riflettere e più sente il rimorso per il reato e più lo stare solo diventa un peso, che si alleggerirà solo quando l'individuo sia totalmente emendato. In fine, grazie all'isolamento si esercita sul singolo individuo un potere che non potrà essere controbilanciato da altre forze. E' il primo passo per la sottomissione totale. Ci sono due modelli di carcere che ci offrono l'idea dell'isolamento: Auburn e Filadelfia, entrambi di ispirazione quacchera. Nel primo, i detenuti sono in celle separate la notte, ma lavorano e mangiavo insieme con la regola del silenzio assoluto. Si può parlare solo ai guardiani a bassa voce. Questo modello si ispira alla società perfetta, è un microcosmo. Gli individui vivono da soli la loro esistenza e quando si riuniscono sono inquadrati in una gerarchia. Così il condannato si addestra alla socialità. Diverso il modello Filadelfia: l'isolamento assoluto fa sì che vi sia una trasformazione morale. Nel primo si riproduce la società ideale, nel secondo la vita si annienta per essere poi rigenerata, ma l'obiettivo è identico: l'individualizzazione coercitiva, con il venir meno di ogni relazione tranne che quella creata con chi sta al di sopra nella gerarchia del potere.

Altro elemento essenziale è il lavoro, definito 'un agente di trasformazione carceraria'. Se i riformatori del diciottesimo secolo parlavano del lavoro come un'utile riparazione per la società, ora si passa ad una nuova concezione: il lavoro non è una semplice attività di

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produzione utile, ma è ciò che assicura ordine e regolarità perché piega i corpi, distrae, sottopone tutti ad un continuo controllo. Il lavoro trasforma il detenuto da agitato a individuo regolare e poi in un luogo in cui l'unico bene rimasto sono le proprie braccia, si vive di ciò che queste producono e il salario fa sì che il detenuto si affezioni al lavoro e al tempo stesso impari il concetto del risparmio se ha vissuto una vita dissoluta; in fine con il lavoro acquisisce delle nozioni che potrebbero essere utili nel futuro. Il lavoro è quindi alla base della trasformazione dell'individuo e in più con questo si crea un rapporto di sottomissione con il potere.

Il carcere priva l'uomo della libertà, ma lo fa con una particolare modalità: la lunghezza della pena deve adattarsi alla trasformazione utile del condannato , il tempo è "finalizzato". La pena viene decisa dalla giustizia, però poi la sua gestione è regolata da un meccanismo autonomo che controlla gli effetti della punizione nell'apparato che li produce, affinché questa sia effettiva. C'è infatti una autonomia del personale che gestisce la pena, che la individualizza e ne varia l'applicazione, fatto da sorveglianti, direttore dello stabilimento, cappellano, istitutore. Loro applicano la funzione correttiva. Così, dunque, il potere punitivo già scomposto su due livelli, quello giudiziario e quello legislativo, ne viene a riconoscere ora anche un terzo: il "giudizio penitenziario". Il "supplemento penitenziario" è fatto di sorveglianza, ma anche osservazione, è vero che il detenuto deve essere sorvegliato, ma deve essere anche osservato, conosciuto, deve essere valutata la sua condotta, le sue disposizioni, per ottenere un miglioramento. La combinazione di questi due concetti : sicurezza e osservazione portano al tema del panopticon18, le cui procedure 18 L'idea di Bentham era quella di creare un luogo in cui vi fosse continua

sorveglianza dei detenuti, impiegando un numero minimo di militari. Il Panottico (da panoptikon, "che fa vedere tutto", visione di insieme) è un edificio circolare, con celle lungo il perimetro disposte a raggiera, aperte all'interno dell'edificio, piccole finestre all'esterno e al cui centro si trova l'alloggio dell'ispettore detta watch tower,

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trovano solo nell'istituzione penitenziaria il campo di applicazione, tanto che nella metà dell'800, l'architettura ideata da Bentham diventa l'architettura carceraria più diffusa. La prigione fa conoscere, è il luogo in cui si possono osservare e conoscere i detenuti , un vero e proprio sistema di documentazione, tanto che negli stessi anni in cui si diffonde l'architettura panoptica, si rende obbligatorio il "resoconto morale", nel quale il cappellano, il guardiano, l'istitutore sono chiamati a scrivere osservazioni sul detenuto. Nella pena si inserisce il "dato biografico": si fa riferimento alle circostanze, alle cause del crimine, si scava nella storia della vita per valutare l' organizzazione, la posizione sociale e l'educazione. Dietro colui che ha commesso il reato si profila un delinquente che non più come solo colui che ha commesso un reato ma anche colui che è legato al delitto da un serie di fili complessi (istinti, pulsioni, tendenze, carattere).

La storia della carcerazione si caratterizza per il fatto che alla messa in atto della detenzione come penalità si accompagnano subito dei giudizi contro questa, lo 'scacco della detenzione' dice Foucault, al quale si fanno seguire tutta un serie di riforme e di progetti per modificarla e parlare di successo o, forse, di un ulteriore sconfitta. Queste critiche fondano due problemi: quello di chi afferma che il carcere non

che aveva un visione a 360° delle celle. I detenuti non possono comunicare fra loro. Vi è poi un'area intermedia, circolare; ogni cella ha sul perimetro esterno una finestra dalla quale entri luce che assolveva al compito di rendere ancora meglio la

sorveglianza dei detenuti grazie al contrasto creato. Le grate sono leggere per controllare più efficaciemente l'interno della cella. Per impedire ai detenuti di vedersi reciprocamente le pareti divisorie si allungano di qualche piede sopra la grata nell' area intermedia, dette pareti prolungate. Non è più una pena tanto disumana questa idea di prigione di Bentham, la quale si avvicina molto all'idea del penitenziario monastico: il detenuto deve essere isolato, ma questo non è finalizzato ad un senso di purificazione religiosa o di educazione, ma a fare in modo che il carcere non sia più scuola di perversione, contagio criminale; idea poi rimasta nel tempo nella storia del carcere. Secondo Bentham devono essere eliminate le carceri che sono soggiorno infetto e orribile,che degradano gli uomini; queste devono invece trasformare e correggere l'individuo, il criminale. Il panottico è creato come insieme di tanti teatri: ognuno è solo e costantemente visibile, non più vecchi penitenziari con masse di carcerati, ma un luogo dove ci fosse individualità separata. Ciascuno al suo posto, visto in faccia dal sorvegliante,è visto ma non vede, oggetto di informazione ma non soggetto di comunicazione; sul punto, si veda, M.FOUCAULT, op.cit., pag. 202.

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corregge perché le tecniche penitenziarie sono troppo rudimentali e quello di chi afferma che in realtà l'unica tecnica penitenziaria che dovrebbe sussistere è quella del rigore, altrimenti la prigione, nel voler create metodi per essere correttiva, perde la sua forza punitiva.

Al contrario questi i principi che da sempre avrebbero dovuto ispirare la carcerazione, da sempre considerati le sette regole della buona condizione penitenziaria:

1. Principio di correzione: la detenzione penale deve trasformare il comportamento del detenuto.

2. Principio della classificazione: i detenuti devono essere isolati o ripartiti secondo la gravità penale del loro atto , ma soprattutto secondo le età, disposizioni , tecniche correttive che si applicano nei loro confronti, e secondo le fasi della loro trasformazione.

3. Principio della modulazione delle pene: lo svolgimento della pena deve poter essere modificato secondo l'individualità dei detenuti, secondo i risultati che si ottengono, i progressi o le ricadute.

4. Principio del lavoro come obbligo e come diritto: il lavoro è uno degli elementi essenziali della trasformazione e socializzazione del detenuto. Non è aggravamento della pena quanto piuttosto suo addolcimento, finalizzato all'apprendimento di un mestiere da parte del detenuto per sostenere il detenuto e la sua famiglia.

5. Principio dell'educazione penitenziaria: l'educazione del detenuto è una precauzione per il detenuto e al tempo stesso per la società.

6. Principio del controllo tecnico della detenzione: il regime della prigione deve essere curato e controllato da personale che abbia le qualità morali e tecniche per ben formare l'individuo.

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7. Principio delle istituzioni annesse: l'imprigionamento deve essere seguito da misure di controllo e assistenza fino a definitivo riadattamento del detenuto.

Focault nel fissare la data di nascita del sistema carcerario fa riferimento 22 Gennaio 1840, la data di apertura ufficiale del Mettray, che è il concentrato di tutte le tecnologie coercitive, è lo stato punitivo al livello più intenso19.

Il carcere come pena quasi assoluta è il risultato di un processo molto ampio che Foucault spiega così: "Una nuova tecnologia, piuttosto: la messa a punto, tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo, di tutto un insieme di procedure per incasellare, controllare, misurare, addestrare gli individui, per renderti docili e utili nello stesso tempo. Sorveglianza, esercizio, manovre, annotazioni, file e posti, classificazioni, esami, registrazioni. Tutto un sistema per assoggettare i corpi, per dominare le molteplicità umane e manipolare le loro forze, si era sviluppato nel corso dei secoli classici negli ospedali, nell'esercito,

19 "Perché Mettray? Perché è la forma disciplinare allo stato più intenso, il modello in cui si concentrano tutte le

tecnologie coercitive del comportamento. Ha qualcosa «del chiostro, della prigione, del collegio, del

reggimento»". I detenuti sono organizzati in piccoli gruppi, fortemente gerarchizzati, con una singolare distribuzione della giustizia: «La minima disobbedienza è colpita da un castigo, e il miglior modo per evitare i delitti gravi è di punire molto

severamente gli errori più leggeri. [...] La principale punizione inflitta è l'imprigionamento in cella; perché «l'isolamento è il miglior modo per agire sul morale dei ragazzi". A Mettray i capi e i sottocapi sono definiti in qualche modo 'tecnici del comportamento': "ingegneri della condotta, ortopedici dell'individualità. Essi devono fabbricare dei corpi docili e capaci insieme". I detenuti sono addestrati e a questo si accompagna una osservazione permanente organizzata come strumento di ininterrottavalutazione. Si svolgono poi dei lavori, finalizzati a rendere i corpi di questi 'sottomessi'. "Ma perché aver scelto questo momento come punto di arrivo nella formazione di una certa arte di punire, che è press'a poco la nostra?

Precisamente perché questa scelta è un po' «ingiusta»": Foucault dice che "vi erano detenuti giovani delinquenti condannati dai tribunali [...] e vi erano inchiusi dei minori che erano stati incolpati, ma assolti, in virtù dell'articolo 66 del Codice, e dei collegiali trattenuti, come nel secolo Diciottesimo, a titolo di correzione paterna. [...]Mettray, come modello punitivo, è al limite della stretta penalità." M. FOUCAULT, op.cit. pag. 299.

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nelle scuole, nei collegi, nelle fabbriche: la disciplina. "20

Goffman in Asylums parlando delle istituzioni totali parla della diffusione di quella pratica di dominazione a vasto raggio tipica dei sistemi autoritari di tipo militari, nei quali lo staff ha certi diritti nei confronti degli internati per l'esercizio dei quali si prevede un aumento della probabilità di un sistema di sanzioni. Secondo l'autore le istituzioni totali hanno però una caratteristica in comune: si tratta sempre di regimi chiusi e formalmente amministrati. Ed il fine è proprio quello di cui lo stesso Foucault parla: l'assoggetamento dei corpi, che Goffman spiega come la demolizione, la mortificazione del sé dell'internato che passa attraverso tante, troppe procedure e operazioni abitualmente poste in essere. Foucault illustra il passaggio dal carcere come mezzo solo amministrativo utilizzato in modo improprio, spesso con abusi di potere e arbitrarietà della monarchia, al carcere come lo strumento punitivo per eccellenza; infatti, ci si rese conto che in questo si poteva ben applicare la disciplina, già applicata in altri ambiti, come le scuole, ma soprattutto l'esercito. E' sempre lo stesso carcere, quello che cambia sono le procedure utilizzate. L'autore vede la disciplina come il principio su cui tutta la società si basa: il carcere apprende la disciplina da alcuni ambiti della società e a sua volta ispira l'applicazione di questa in altri settori, come le fabbriche (esempio classico di questo è proprio il panopticon di Bentham). Anche Goffman parla di questa tendenza a rendere i corpi docili e assoggetabili, con la demolizione del sé, ma lo fa diversamente dal primo autore: egli crede che le procedure disciplinari accomunino tutte le istituzioni totali, ma al loro interno, tanto che spesso nella sua opera egli fa rimandi a cosa farebbe in alcune circostanze l'uomo comune fuori dall'istituzione e cosa fa invece l'internato e a quali siano le conseguenze che derivano dall'imposizione di prassi diverse a

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quest'ultimo.

1.3 Storia della pena in Italia: dall'Ottocento alla riforma penitenziaria

E' la seconda metà dell'800 che segna il momento in cui la legislazione penale incominia ad acquisire una dimensione nazionale e non più particolaristica, l'epoca in cui si abbandonano le scuole filosofiche per dare luce alle scuole penalistiche. Prima fra tutti si fa strada in Italia nel trentennio post-unitario la Scuola Classica che, sebbene avesse oppositori molto feroci, ebbe il grande merito di introdurre nel diritto penale i corollari dell'indivisualismo, il principio nulla poena sine lege, la cura delle definizioni dei singoli delitti e la ricerca di espressioni rigorose per eliminare le incertezze interpretative; ancora, la campagna per l'umanizzazione dei sistemi penitenziari, l'introduzione nei codici della garanzia di difesa e la capacità di distinguere e sottodistinguere fino alla più sottile casistica. La Scuola trova nell'Italia conservatrice post-Unità il terreno solido su cui attecchire21. Da Mamiani a Taparelli,

da Cararrra a Tolomei, da Brusa a Pessina sono questi i suoi uomini più rappresentativi fra i quali riecheggiano le teorie retribuzioniste di Pellegrino Rossi e Rosmini. A Carrara va il riconoscimento di aver giuridicizzato la nozione di delitto e di aver assegnato alla pena il carattere della "necessità giuridica", pietra miliare nella lotta contro i posivisti e i neopositivisti. Ben presto, però con l'evoluzione delle classi sociali si avranno gli albori di un'altra Scuola, quella Positiva: molte sono le forze che sono presenti sul terreno nazionale nel decennio post-Unità e tra tutte una corrente creata dai primi nuclei industriali che mira a sconfiggere la concorrenza estera e a porre la loro candidatura come guide alla vita economica del Paese. Si

21 "L'idea retributiva emerge con particolare forza nei momenti autoritari, siccome quella, appogiandosi ad un preteso fondamento metafisico dell'autorità, tende a sottrarre lo Stato e il potere ad una verifica critica e ad un'istanza partecipativa che muove dalle classi subalterne". E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Bologna 1980, pag. 23

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affacciano quindi nuovi indirizzi di tipo antiliberista e protezionista, l'industrializzazione diventa un'idea-guida. E' questo il terreno di coltura della Scuola Positiva del diritto penale: "l'espandersi di un verbo scientifico, tecnologico, efficientista, in questa insofferenza verso le rarefazioni astratte"22. La corrente positivista prende piede

proprio mentre il pensiero di Cararra si affina così tanto che si allontana piano piano dalla realtà: il delitto si atomizza, il pensiero si laicizza, non c'è più una figura di delinquente, la giustizia penale non è più un'idea assoluta, si crea un metodo agnostico verso tutto ciò che è trascendentale. La Scuola Positiva penale affonda le sue radici nel positivismo che è molto più che un metodo di indagine: è una concezione del mondo. Si sposta così l'indagine dal delitto al delinquente, il diritto penale è ora un elaboratore di strumenti per la difesa sociale; il pensiero sulla pena muove verso la realtà e il problema penitenziario esplode con la necessità di fronteggiare nuove forme di devianza (prima fra tutte il brigantaggio), che danno una spinta verso le riforme. Il diritto penale si spoglia della sua metafisicità e il mito del libero arbitrio inizia a declinare: la libertà di volere è una premessa non verificabile e comunque è un ambito di studio che non appartiene al diritto penale. La sanzione diventa mezzo giuridico di difesa contro il delinquente, che deve essere non punito, ma riadattato alla vita sociale, e se questo non è possibile, egli sarà segregato e neutralizato. 'L'uomo delinquente' di Lombroso è datato 1876 e non è un caso che sia lo stesso anno in cui Depretis subentra a Minghetti, per cui tutto il discorso appena affrontato si sviluppa in una logica di pretesa 'socialità', anche se mediata dalla classe borghese; certo, anche le convinzioni su cui poggia la Scuola Positiva, ovvero l'idea del diritto penale che deve intendersi come difesa della società, potrebbero considersi in sè altri pericolosi strumenti soggetti a strumentalizzazioni

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autoritativa (cosa già accaduta con i principi della Scuola Classica), ma, senza dubbio, questa rappresenta una ventata di novità. Molte le critiche, che riecheggiano fino al periodo fascista, che aspramente cercano di abbattere alcuni cardini della Scuola Positiva, ma che allo stesso tempo non resistono alla tentazione di fare proprio il "doppio binario"(che in un qualche modo rappresenta una valvola di sfogo del principio di legalità e di determinatezza della pena), una delle invenzioni di questa, sebbene utilizzata per scopi del tutto diversi da quelli per cui era stata creata. Con il senno di poi, quello che della Scuola Positiva si ricorda è più che altro il suo ruolo di promotrice non tanto di una rivoluzione scientifica e politica, quanto di un momento di razionalizzazione delle istituzioni e dei rapporti civili emergenti. Molti dei suoi seguaci infatti neanche usano il metodo scientifico della cui applicazione la Scuola si vantava e ben presto si capì che questi altro non erano che soggetti appartenenti ad una classe sociale emergente (e fino ad ora considerata come subalterna), intenzionati a circoscrivere un potere che si era vista finalmente nelle proprie mani.

Pur essendo questo nuovo gruppo sociale capace di modificare i rapporti tra le classi, non era stato poi abbastanza abile a creare una diversa fisionomia sociale definita, non si è creato un equilibrio sociale e ciò ha portato un lungo periodo si tensioni e oscillazioni: siamo negli anni 1885-90, in cui la forte crisi economica mette in crisi concetti come il liberismo classico, la fede nell'automatismo naturale dello sviluppo economico. Viene meno l'ottimismo del metodo positivista, le classi subalterne faticano a dare fiducia alla Sinistra, si sganciano da questa e dalla speranza di essere in qualche modo da questa rappresentate. Iniziano i moti di contestazione contro le iniquità di una società diseguale, e contro una società sorretta dalle regole del guadagno e dal progresso delle macchine definito "deturpatore di

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bellezze e di tempi perduti"23. Ecco che il filone positivista perde colpi,

tanto che il nuovo codice penale, sebbene ispirato dal socialista Zanardelli, ha un orientamento prevalentemente classico.

Ben presto le due Scuole inizieranno a convergere più che polemizzare, facendo delle debolezze dell'una i punti di forza dell'altra e dando vita ad una Scuola di sintesi eclettica, chiamata la Terza Scuola. Accanto a questo fenomeno, nell'ultimo decennio dell'Ottocento le condizioni del paese cambiano radicalmente: gli aumenti delle tariffe doganali portano alla necessità di una presenza degli industriali più intensa sul mercato nazionale e di un'espansione coloniale compensativa. La spesa pubblica aumenta bruscamente, nelle fabbriche cresce il proletariato, l'industria lascia indietro l'agricoltura: adesso i rapporti di forza sono giocati dall'industria siderurgica e armatoriale con gli ambienti politici e militari. Conseguentemente, aumenta il movimento operaio e la sinistra si irrobustisce. I fasci siciliani danno il via alle azioni di massa, si sviluppa il partito socialista e, mentre le classi subalterne emigrano, il mondo finaziario da vita ai primi scandali che mostrano le fragilità della struttura anche dal punto di vista morale. E' in questo contesto che con il socialismo giuridico, per la prima volta, si viene a discutere di questioni di diritto penale in chiave dichiaratamente di classe. I governi di Rudinì e Pelloux, i rincari del grano, i tumulti di Milano, fino all'uccisione di Umberto I danno vita al discorso socialista di Turati24, appoggiato da

Ferri e Garofalo secondo i quali è vero che il delitto è condizionato da fattori ambientali, ma "unicamente perchè è prefigurato dalle classi dominanti le quali definiscono esse stesse il reato come violazione dei propri interessi, e queste violazioni e questi attentati non possono nascere, di riflesso, che presso le classi subalterne , naturali antagoniste

23 A. ASOR ROSA, La cultura, cit., pag. 821; v. anche G. Petronio, Quadro nel '900 italiano, cit .p.23.

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di quegli interessi"25. Il diritto penale come difesa sociale tutela in

realtà l'organizzazione sociale che si è formata; il carcere è un'istituzione di classe, il carcerato è prigioniero politico, il diritto penale è ciò che controlla la società e che reprime le spinte della classe subalterna.

Con la nascente età giolittiana, le idee della Scuola Positiva subiranno un ulteriore declino soprattutto in seguito alla constatazione di un assoluto mancato miglioramento delle condizioni di vita penitenziaria: i detenuti continuano a essere in larga parte agricoltori e tra le poche novità c'è il loro impiego in lavori di bonifica dei terreni incolti o malarici, ma queste attività non danno alcuna qualifica professionale e tutto questo contribuisce a portare avanti la loro condizione di lavoratori non qualificati e votati allo sfruttamento. Sul fronte normativo, nel 1891 è emesso il nuovo regolamento carcerario, che si salda al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1889 e al codice Zanardelli entrato in vigore il 1° gennaio 1890. Parliamo di un regolamento molto ampio (891 articoli) e minuzioso, ma che in realtà è un continuum del codice: si richiamano livelli di umanizzazione molto bassi, che creano i soliti 'giochi di specchi' (un tale trattamento fa vivere un detenuto in condizioni subumane; queste condizioni rendono tale il detenuto; ad un tale individuo può spettare solo un tale trattamento). La legge penale può macchiare il detenuto con il nome di "delinquente" caricandolo di tutta la riprovazione e l'emarginazione che spetta a tale categoria. Solo con il regio decreto del n.337 del 1902 si avrà un ammorbidimento: la soppressione delle catene ai piedi per i condannati ai lavori forzati e nel 1903 l'abolizione delle catene forzate, i ferri, la cella oscura. Fuori dalle carceri invece, Giolitti inizia la sua legislazione sociale, con l'attenuazione della pressione penale e di polizia verso le organizzazioni operaie, anche e soprattutto poichè egli

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intuisce che il proletariato è ormai un fenomeno così radicato e così rilevante che l'unica soluzione è quella di farlo rientrare nel sistema, non potendo più essere relegato ai margini con la violenza. In questo periodo storico vi sono autori che non saranno ricordati come pietre miliari della storia della pena, ma che senza dubbio preparano il terreno per quello che accadrà da lì a poco. Infatti la spensierata cultura degli anni 1905-1915 definita come belle epoque nasconde un'altra faccia della medaglia: è questo momento storico in cui il pensiero inizia a macchiarsi di irrazionalismo e di nazionalismo. L'industria che urta le barriere dognanali e cerca altri mercati, l'ambizione delle conquiste africane, il movimento cattolico e quello socialista si mescola con il movimento nazionalista, si evoca uno Stato forte e si esige il suo potenziamento dopo un risorgimento pieno di rimpianti. Autori come Nietzsche e D'Annunzio sono protagonisti di una cultura che coniuga la violenza al cinismo, la cività meccanica all'ebbrezza irrazionale. Sul piano filosofico viene sempre di più respinta la concezione meccanicistica e raffiora l'idea di libertà. Si rigetta il determinismo e il teologismo, si insiste sul carattere spontaneo e autocreativo dello spirito. Siamo nella fase dei tentativi di sintesi. Ecco che gli interrogativi che si pongono sulla libertà, non possono non incidere sulla questione della pena e del delitto. Nasce la Terza Scuola, che si sforza di fare una sintesi, come già avevano tentato i fautori del positivismo. Lascia dietro di sé le anticaglie giuridiche e rileva fra tutti il concetto di "dirigibilità", che da l'input per arrivare a pensare che la responsabilità fosse una prerogativa di tutti i soggetti: anche i bambini e i dementi capiscono il valore dissuasivo e l'efficacia dei castighi, quindi anche loro possono essere penalmente responsabili. Iniziano i primi passi verso l'enfasi statualista che da lì a poco supporterà l'autoritarismo fascista: Impallomeni parla di pena non più nella sua accezione barbara della legge del taglione,

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ma di una pena espressione di una 'legge del taglione spiritualizzata'26,

"sublimando la replica retributiva dello Stato"27; a questo si aggiunge il

filone eclettico della Scuola tecnico-giuridica che fa capo ad Alfredo Rocco, che enfatizza il diritto positivo fino a sacralizzarlo. Bergson esercita poi un notevole fascino in Italia, affermando che il diritto penale è una restaurazione dell'ordine spirituale conseguita mediante giudizio e sentenza.

In fine, l'idealismo penale sgancia totalmente il diritto penale dalla realtà storica consegnandolo nelle mani di chi se ne vuole impadronire. Sono gli anni in cui si fanno strane commistioni di vendetta e pietà che sembrano voler addolcire i fondamenti del diritto penale ma che in realtà vi trasferiscono solo connotati irrazionali e antigiuridici. L'idealismo penale non è altro che una rivendicazione del pensiero e dello spirito creatore di fronte allo scientismo empirico del positivismo e alle degradanti mediazioni della politica. "Quando la filosofia ambisce di pervenire ad un'interpretazione del mondo rigorosa e astratta tanto più il costume sociale si vena di intolleranza e la politica di oppressione"28 e infatti in questo momento storico si fa ritorno alle

teorie retributive: Maggiore arriva a formulare una nozione di imputabilità e di pena alla quale nessun uomo può sottrarsi; inoltre, l'idealismo fa sì che la pena non sia più un rapporto del soggetto punibile con un ordine estraneo, ma una relazione dell'io con sé stesso, è autoretribuzione. Il legislatore deve adattare la pena al reo in modo che ne reintregri l'umanità, così l'uomo può diventare più uomo.

26 G.B. IMPALLOMENI, Istituzioni, ed. 1921, pag. 54 27 E.FASSONE, op.cit., pag. 46

28 "Quando prende il soppravvento l'idea determinista, è normale che la società si faccia più permissiva e comprensiva, mentre più rigida essa diventa quando l'affermazione del libero arbitrio rende pienamente "colpevole" il trasgressore. Il leggere l non imputabilità in chiave di "mancanza del potere di manifestarsi secondo il proprio Io", implica un giudizio di disvalore assai più marcato sulla persona che è priva di questo potere; e l'iperbole dell'Io appare come la matrice dalla quale scaturiranno le meno raffinate iperboli fasciste" E.FASSONE, op.cit. pag. 49

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Il periodo subito dopo la prima guerra mondiale è sicuramente un periodo di forte tensione fra coloro che vorrebbero che tutto tornasse come prima e coloro che pensano che ciò sia impossibile, dati i lutti e il dolore della guerra. Il clima politico è cambiato e stanno crescendo i movimenti operai; alcune circolari degli anni 1921-22 dimostrano che alcune conquiste della Scuola Positiva sono state ampiamente recepite: il detenuto è oggetto di cura, i colloqui e la corrispondenza devono essere più frequenti, la segregazione deve essere posta in essere con maggiore cautela. Alcune di queste innovazioni vengono rinserite proprio nel regio decreto n.393 del 1922 e intanto si pongono le basi del movimento umanista. Queste circolari se riscuotono successo nella direzione carceraria, trovano ostilità invece nella direzione generale delle carceri, che considerano la politica della direzione della carceri troppo arrendevole. D'altra parte, la Scuola Positiva non ha più nuovi assi da giocare; un numero notevole di dottrinari proclama il diritto penale come neutrale e oggettivo: il diritto penale è scienza e come tale deve studiato con metodi scientifici.

E' proprio questo tecnicismo ad oltranza il piatto d'argento della ragion di Stato fascista: la dottrina penale può tradurre ogni scelta politica in norme penali e la Scuola tecnico-giuridica userà proprio questo umanismo per dimostrare che lo Stato fascista in realtà aveva pacificato la nazione trovando un comune denominatore anche alle dispute filosofiche e scientifiche. La durezza del codice penale Rocco dimostra come si possa fare dell'eclettismo uno strumento per intendi diversi29.

L'avvento del fascismo segna una involuzione legislativa che coinvolge quindi anche il diritto penitenziario. Nel 1922 il regio

29 "Che poi il codice penale, nella sua ostentata scelta si fiore da fiore, venga a cogliere dalla Scuola Classica tutta la durezza della concezione retributiva caricando la pena di un contenuto di afflizione, e dalla Scuola Positiva tutta l'ambiguità del concetto di pericolosità per modellarci su l'indeterminatezza della misure di sicurezza" . E.FASSONE, op.cit., pag. 53

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decreto n.1718 trasferisce la direzione generale delle carceri e dei riformatori dal ministero dell'interno al ministero della giustizia, provvedimento a carattere prettamente punitivo, per punire la direzione per aver pienamente accolto alcuni dogmi della Scuola Positiva. Nei primi anni del fascismo, sappiamo, si sviluppa la nuova Scuola Umanistica, solo apparentemente in contrasto con il periodo storico; Lanza, Falchi, Carnevale ripropongono il principio correzionalistico. Il diritto penale ha carattere etico e gli viene dato un fine educativo: si confondono nuovamente la morale e il diritto. Si arriva a pregare per l'anima del reo, fino ad arrivare ad affermare che la pena è un atto d'amore, la pena salva la coscienza del condannato. Siamo di fronte ad una progressiva simbiosi fra Stato e Chiesa, che appaga entrambi. Se Kant afferma il principio della pena come retribuzione come postulato della ragione, Lanza parla di pena retributiva come espiazione e rimorso. La pena ristabilisce l'ordine giuridico e morale: reato e pena inziano a fondersi nuovamente con peccato e castigo. La Scuola Umanistica, pur se in buona fede ha fornito terreno fertile al fascismo. Per questa, la pena esplica una funzione che non coinvolge solo il singolo ma tutta la collettività, un po' per la solidarietà che si sviluppa con il reo e un po' perchè i valori travolti sono quelli comuni. Come poi a fare questo sia proprio la pena severa e rigida di Alfredo Rocco, non riusciamo a capirlo. Forse un forte impatto sulla collettività ha più che la pena, il carcere o forse la collettività è sedotta in qualche modo dall'idea di un ordine etico che crea sicurezza e che gratifica e ricompensa chi lo osserva. Imputabile è colo colui che è educabile, perchè solo la pena ha funzioni rieducative e non più le misure di sicurezza create dalle altre scuole. La grande novità è poi che non imputabile con la Scuola Umanisitica è sia il pazzo, sia il delinquente abituale che l'incorreggibile, cioè coloro che la pena non è riuscita a rieducare e che continuano a violare i valori. Gli incorreggibili sono i

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non rieducabili nei quali confronti la pena vuol dire solo neutralizzazione. In questa categoria si rivede un po' la categoria dei delinquenti abituali di Ferri . Siamo nella politica dell'emarginazione delle classi più deboli, dalle quali proviene normalmente l'incorreggibile. E' vero, il fascismo si presenta come regime vicino alle masse, ma a patto che questa si integri con esso in modo obbediente. Il fascismo esce dagli schemi della repressività solo se il reo si può recuperare, se egli si integra. Da Hegel a Hobbes, la lunga strada del pensiero politico odierno ha portato a considerare lo Stato come momento supremo della vita collettiva degli uomini e il massimo picco di questa tendenza si è avuta proprio con il nazionalismo sulle quali ambizioni, il fascismo si innesta. A sua volta il nazionalismo si innesta in un clima politico fatto di tensioni e scontenti e in questo contesto anche la pena si carica di valori mitici, annullando ogni tentativo di relativizzazione iniziato dagli utilitaristi e continuato dal positivismo e dal socialismo giuridico. Qui "lo Stato punisce il delinquente perchè il delinquente con la sua azione criminosa disobbediscee alle leggi dello Stato, ferisce la sua dignità e autorità e viene meno al dovere di fedeltà. Ogni delitto è un delitto di fellonia, un crimen lesa maiestatis. Ogni reato può dirsi, insenso largo, un reato politico."30 E' un sistema a tenaglia: il regime esercita una fortissima

pressione che ha bisogno di un connotato di eticità per farsi accettare universalmente e lo Stato rappresenta il momento di massima aggregazione e di massima razionalizzazione della collettività, ma allo stesso tempo, lo Stato può bollare di tradimento politico la violazione di qualsivoglia dei suoi precetti in nome del primato della collettività. In questo momento storico, l'uomo è un delinquente nato se si accetta il presupposto della verità cristiana del peccatore originale come presupposto. Questi riflessi di cristianesimo si accompagnano ai

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