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La "rieducazione" della società

Ecco che ci ritroviamo a parlare dei consociati. Abbiamo precedentemente sottolineato come la società sia in grado di influenzare l'approccio alla criminalità e, optando per un metodo più o meno retributivo, spingere verso soluzioni più o meno oppressive. È interessante innnanzitutto richiamare le idee del filosofo Nietzsche su quella che è secondo lui l'origine della coscienza collettiva, concetto che richiama l'idea della memoria:"Si incide a fuoco qualcosa affinchè resti nella memoria: soltanto quel che non cessa di dolere resta nella memoria"- è questo l'assioma della più antica (purtroppo anche la più

longeva) psicologia sulla terra"152. Questo è il primo elemento

interessante: la coscienza collettiva è basata sui "non voglio", ricordando le immagini tremende dei castighi, nei quali è espressa la promessa di ognuno allo scopo di vivere coi vantaggi della società. Proprio facendo l'esempio del popolo tedesco, il filosofo esprime quali siano state le terribili misure a cui si è dovuti ricorrere pur di allevare un "popolo di pensatori": la lapidazione, la condanna della ruota, la bollitura del criminale in olio e vino, lo scorticamento. Allo stesso tempo, cercando la risposta a quale sia l'origine della "cattiva coscienza", cioè la tetra faccia della coscienza della colpa, Nietzsche si appella nel rapporto tra creditore e debitore: "Allo stesso modo con cui ancora oggi i genitori castigano i loro figli, per ira di un danno sofferto, alla quale si da sfogo sul danneggiente – una collera tuttavia mantenuta nei limiti e modificata dall'idea che ogni danno abbia in qualche modo un suo equivalente e realmente possa essere soddisfatto sia pure mediante una sofferenza di chi lo ha provocato"153. È quindi

antichissima l'idea di poter far equivalere il danno al dolore. Questo, oltre che rappresentare una soddisfazione intima per il creditore, qualora il debitore non adempia, che è il poter scatenare senza alcuno scrupolo la propria forza e le proprie ragioni su un essere impotente, è per il primo anche un "diritto signorile, perchè egli raggiunge il sentimento esaltante di poter disprezzare e maltrattare un individuo come suo inferiore154". Anzi, il far soffrire era un festa, cosa affermata

anche da Foucault, tanto più grande quanto più grande era il contrasto con il rango e la posizione sociale del creditore. In questa prima fase, l'umanità non si vergogna della sua crudeltà: la vita era più serena, perchè il fatto che un uomo potesse rivolgersi con crudeltà nei confronti di un altro uomo, debitore, era considerato un trionfo di vita.

152NIETZSCHE, Genealogia della morale, Milano, 1968, pag. 44 153NIETZSCHE, op.cit., pag 47

Solo successivamente la sofferenza inflitta ad un uomo verrà considerata come un "argomento contro l'esistenza".

Ciò che ad un certo punto non regge è l'assurdità della sofferenza, il fatto che fosse priva di giustificazione, anche se non tutti la pensano tale: i cristiani la vedono come strada per la salvezza e "l'uomo semplice di più antiche età" invece la offre come spettacolo crudele agli dei pensati come amici, trovando quindi una giustificazione al male della vita.

È vero, ad un certo punto della storia dell'uomo, la sofferenza inflitta sugli altri uomini non è stata più considerata lodevole, ma secondo il filosofo, questa pratica è come se si fosse cementata negli animi umani, tanto che è diventato nel tempo impossibile riuscire a scindere l'idea di pena da quella di sofferenza.

Inoltre, il filosofo constata come con il crescere della potenza della comunità, questa non prenda più molto in considerazione le mancanze dei singoli, anzi "il malfattore viene prudentemente difeso e tutelato da parte del tutto nei confronti di questa collera e particolarmente di quella dei direttamente danneggiati". Soprattutto, inizia a considerasi che ogni mancanza possa essere risolta, isolando il delinquente e la sua azione.

Anche qui ritroviamo il concetto secondo il quale è la forza della comunità a creare un certo tipo di risposta penale: se questa inizia ad indebolirsi e inizia ad essere soggetta ad un grave pericolo, la conseguenza è che il diritto penale produrrà forma più dure di reazione al male.

Anche Garland denuncia la nostra società come una società in cui alcuni concetti si consolidano presto, nella quale ci si abitua velocemente all'andamento dei modi di pensare, esistono dei ritornelli quali le pene minime obbligatorie, i diritti delle vittime, politiche di legge e ordine, la convinzione che il carcere funziona che sono punti

fermi nel panorama del controllo della criminalità e "non destano più sorpresa, fatta eccezione per l'indignazione e il disagio di alcune élite"155. Per il cittadino medio queste sono manifestazione che ormai

fanno parte della vita quotidiana e la cosa che colpisce che noi oggi consideriamo ovvi e condivisibili dei fenomeni che sarebbero apparsi come totalmente improbabili nel passato (anche se questo concetto non è nuovo, v.cap. 3).

Abbiamo visto come questi ultimi decenni siano stati caratterizzato da un declino dell'ideale riabilitativo. Le potezialità educative del sistema penale sono state subordinate ad altre finalità, di tipo retributivo, di neutralizzazione e gestione del rischio. In breve, questo ideale non diventa tanto impossibile, quanto perde di interesse, è diventato "pericoloso, controproducente e fuorviante nelle sue finalità"156.

Tutto il ventesimo secolo è stato attraversato da un particolare modo di pensare la pena e il reato, secondo cui parlare di vendetta era un tabù. Anche in questo secolo probabilmente si è verificato quel particolare fenomeno per cui la società inizia a provare vergogna per l'inflizione della pena in quanto tale. È facile scoprire che si tratti di una sorte di ricorso storico, quasi come se ad un periodo di minore indulgenza ne debba per forza di cose seguire uno di maggiore indulgenza e così via. Infatti, negli anni più recenti sono tornati alla ribalta i sentimenti di rabbia e di risentimento157 che in qualche modo orientano la

legislazione e i provvedimanti penali. "I sentimenti della vittima o

155GARLAND, La cultura del controllo, Farigliano, 2004, pag. 57 156GARLAND, op.cit., pag. 67

157A proposito si v. NIETZSCHE, Genealogia della morale, pag. 56:"Una parola di ripulsa, ora, contro tentativi recentemente apparsi di ricercare su un terreno costantemente diverso l'origine della giustizia- quello, cioè , del ressentiment. [...] L'uomo attivo, aggressivo, prevericante è pur sempre cento passi più vicino alla giustizia dell'uomo che reagisce: per lui, appunto, non è assolutamente necessario valutare falsamente e pregiudizialmente il suo oggetto, come invece fa l'uomo che reagisce. Effettivamente, per questa ragione, l'uomo aggressivo in quanto più forte, più coraggioso, più nobile ha avuto in ogni tempo a proprio vantaggio anche lo sguardo più libero, la migliore coscienza: al contrario già s'indovina chi ha in genere sulla coscienza l'invenzione della "cattiva coscienza"- l'uomo del ressentiment!"

della sua famiglia e la paura e lo sdegno dell'opinione pubblica sono oggi continuamente invocati a sostegno di nuove leggi e politiche penali158". La molla che spinge verso il cambiamento di tono emotivo

della politica criminale è senza dubbio la paura della criminalità, che è un problema a sé stante a prescindere dall'effettiva esistenza di particolari tassi di criminalità, tanto è che a volte è necessario pensare a come diminuire i tassi di paura più che i tassi di criminalità. L'opinione pubblica è terrorizzata e allo stesso tempo crede che i tassi di criminalità siano sempre alti e alimenta una sfiducia nel sistema giustizia senza verificare la reale effettività di questi. I consociati sentono su loro stessi questa pressione e ciò si traduce in una richiesta di maggiori punizioni allo Stato, istanza secondo i consociati giustificata dal fatto che non si può costantemente vivere in un clima di paura e perchè è giusto che assicuri la sicurezza ai cittadini.

Non vi è dunque il desiderio di capire quale potrebbe essere la "soluzione" (se una soluzione esiste) alla criminalità e di indagarne eventulmente i fattori scatenanti, ma si chiede un sistema penale più severo. Molto spazio viene dato oggi alla vittima e questo non fa altro che acuire il sentimento di collera e creare un senso di colpa nei consociati interessati a capire anche 'il punto di vista' del reo: o si sostiene la vittima o si sostiene il reo, una cosa esclude l'altra; se siamo solidali con la vittima dobbiamo per forza essere irridubili con il reo. La vittima poi che appare, che sostiene le proprie ragioni non è solo persona unica che ha subito un determinato reato, ma è spesso la portavoce di un sentimento di rivalsa della collettività. È difficile essere obiettivi di fronte alle sue parole, è facile essere solidali, sostenere le sue ragioni sul presupposto che un reato è sempre un fatto al quale nessuno può sfuggire: quindi la vittima che chiede sicurezza la chiede a nome dell'intera collettività. La gente è così sopraffatta

dall'angoscia per il crimine e chiede così tanto protezione che questa sembra essere il tema dominante delle politiche penali: "Il pericolo che le autorità esercitino un potere arbitrario e che possano verificarsi violazione delle libertà civili ha perso l'interesse dell'opinione pubblica159", ciò che importa è la sicurezza, a qualunque costo.

In un tale clima, non è difficile pensare che correnti marcatamente populiste abbiano la meglio.

Gli esperti o i professionisti vengono screditati, perchè il popolo ha "esperienza" di quello che si vive e ha conoscenza di ciò che tutti sanno, ma che i professionisti non possono sapere e tra tutti gli slogan che il popolo lancia, senza dubbio vi è quello del dover mettere tutti in carcere, perchè il carcere è l'unico luogo che può neutralizzare (la "tolleranza zero", di cui abbiamo già parlato). Chi ha commesso il reato, deve essere allontanato dalla società, perchè mina alla sua sicurezza. La seconda credenza diffusa è che se si commette un reato è perchè non ci sono sufficienti controlli, così perdendo totalmente i contatti con quello che è il profilo di deprivazione che ha portato un determinato soggetto a delinquere. Essendo il crimine così tanto diffuso e avendolo assunto da parte della collettività come un elemento facente parte della vita quotidiana, non ci si pone più il problema di quale sia stato la ragione del reato: una propensione, una motivazione, una anomalia o la presenza di una patologia. Il reo è un essere normale, che ha deciso di delinquere. Per questo non si cercano più metodi per prevenire il crimine, ma mezzi per sfuggirne.

Una conseguenza di questo modo di pensare il crimine è la sfiducia nella lotta che lo Stato intraprende contro esso. Se i tassi di criminalità e di recidica sono alti non vuol dire che si deve investire di più sulla rieducazione, ma che il sistema ha fallito e che lo Stato è inadeguato. Dal suo punto di vista allora il potere statale, nel tentativo di dimostare

il contrario, agisce in sicurezza autonomamente, senza consultare il parere di soggetti esperti, cerca di rivestire un potere dal quale è stato totalmente esautorato.

Come abbiamo detto, il considerare il crimine come "fatto quotidiano normale", parte integrante dell'organizzazione sociale, ha comportato che i consociati siano totalmente coinvolti nei meccanismi volti ad evitare di rimanere vittima di un reato: nella vita quotidiana il cittadino medio organizza la sua esistenza in base a questo fine. "Il crimine è considerato un rischio quotidiano che deve essere valutato e gestito come quello del traffico"160. Inoltre la sfiducia che questo stato di cose

ha alimentato nei confronti dell'azione statale, trova sfogo nell'insofferenza verso le istituzioni penali, considerate del tutto indifferenti ai problemi di sicurezza dei consociati, testimonianza di questo è il fatto che venga considerato evento eccezionale il sapere che alcune azioni della politica penale abbiano raggiunto i loro scopi. Lo Stato ha perso la sua sovranità di gestore dell'ordine e delle leggi. E se a volte, i portavoci del potere di punire negano questo stato di cose, è una pura forma di adattamento.

I cittadini si sentono potenziali vittime, ma il rischio di esserlo è di gran lunga inferiore alla loro percezione di poter esserlo, senza considerare che in questi utlimi decenni, con la crisi economico- sociale che avanza, l'angoscia per la criminalità è diventata valvola di sfogo di una serie di insicurezze che da questa derivano. Quando la classe media ha iniziato ad essere più delle altre vittima dei reati, sono iniziate spinte reazionarie: si è data una forma precisa all'ansia diffusa, si è dato il nome ad un problema, gli appartenenti a questa classe si sono sempre di più visti come vittime della spesa pubblica, delle tasse (Galrland dice "vittime del Leviatano"), inoltre le immagini tramesse dai media diffondono allarme sociale e mettono in relazione

criminalità e fattori di classe e di razza. La paura della criminalità è certamente frutto della paura dell'altro, dell'estraneo161.

Le preoccupazioni della classe media in tema di criminalità sono influenzate soprattutto da due fattori.

Il primo è il cambiamento avvenuto all'interno dell'organizzazione familiare. Le famiglie prima molto più solide sono oggi più vulnerabili, insicure, precarie. Negli ultimi anni, tutti i componenti della famiglia hanno raggiunto un grado più alto di libertà d'azione, soprattutto le donne. Così è necessario che la vita familiare debba continuamente gestire il proprio tempo, deve coordinare il lavoro con le esigenze dei figli: la scuola, il tempo libero. È necessario che il caos quotidiano della vita familiare sia sotto controllo; prima questo non accadeva, perchè i compiti erano separati soprattutto fra marito e moglie in modo preciso. È una insicurezza ontologica quella che si vive attulamente, acuita dal mutamento dell'idea e del valore della famiglia e da politiche socio-economiche che spingono verso l'individualismo.

Questo fa sì che in tutti i settori si auspichi ad una stabilità, compreso quello penale. E maggiore è questo senso di precarietà, minore è solitamente la tolleranza verso tutti quegli elementi che minano alla sicurezza, ecco dunque che si chiede più sicurezza e meno comprensione nelll'approccio alla criminalità. Inoltre, la famiglia attuale è una famiglia dinamica, che lavora per accumilare beni, per cui la criminalità spaventa sia perchè i componenti della famiglia temono per il destino gli uni degli altri, ponendo ognuno in essere le proprie attività in modo autonomo rispetto agli altri e poi si ha paura per i beni che sono riusciti a procurarsi. Per altro, la criminalità è proprio quell'aspetto che ognuno in società vorrebbe tanto tenere sotto consotrollo e che, invece, sfugge più degli altri.

Altro fattore incidente sulla percezione dela criminalità è l'impatto dei media. Innanzitutto la diffusione della televisione e le apparizioni dei politici ai fini di rilasciare le inteviste televisive ha fatto sì che questi fossero più soggetti agli umori del pubblico per il fatto che adesso la collettività viene a conoscenza del modo di pensare e delle affermazioni fatte dal singolo soggetto. Inoltre dagli anni '60 , sono aumentati e diventati più popolari programmi televisivi incentrati sui crimini: il fatto che televisione selezioni i reati di cui parlare e trasmetta fiction poco realistiche sulla criminalità tende ad alterare la percezione del problema da parte del pubblico; allo stesso modo la diffusione dei discorsi della vittima non affiancati da precise analisi su quali siano stati i fattori che hanno portato il reo ad essere tale, suscita sensazioni emotive molto forti e fanno sembrare il problema della criminalità ancora più minaccioso di quanto effettivamente lo sia. La società è continuamente martellata da notizie, immagini, che parlano di reati, processi, colpe e questo aumenta le occasioni che il popolo ha di esprimere rabbia e risentimento nei confronti della problematica. Il pubblico si fa una cultura del crimine attraverso queste manifestazioni che sono una minima parte (neanche poi tanto realistica) del fenomeno in sé.

Galand dice :"Ma ciò che più conta, a mio parere, è che queste trasformazioni delle abitudini quotidiane hanno prodotto, alla fine, effetti culturali consolidati: esse, infatti, hanno modificato il modo di pensare e di sentire i temi, lo stile delle discussioni, i valori e le priorità[...]. La paura della criminalità si è gradualmente istituzionalizzata, condizionando non solo le notizie televisve, ma anche le assicurazioni immobiliari, e ancora più soprendentemente, diventando parte dei miti urbani e dell'intrattenimento televisivo.162"

Dunque, la gente ha preso coscienza del problema, è diventata

sensibile ad esso, ha assunto l'identità di potenziale vittima per cui, o cercherà continuamente nuove abitudini per evitare di essere vittima ed evitare la criminalità oppure esternerà un senso di irrtitazione , frustrazione ed esasperazione . La maggior parte delle persone non è solidale con il reo, non cerca di comprenderlo, anzi lo biasima. Ogni cittadino si sente impotente di fronte ad un fenomeno così vasto che non può assolutamente gestire e questo provoca ancora di più la reazione di dover necessariamente fare qualcosa, che si deve agire. Tendenza dei consociati, come già accennata prima, è quella di riconoscere il reo come soggetto libero e responsabile, che ha liberamente deciso di delinquere. Tale modo di pensare è soprattutto avallato dall'individualismo che regna nelle società fondate sul mercato. Raramente si riesce a giustificare la sua azione con spiegazioni criminologiche e altre teorie sui determinanti sociali. Chi commette un reato è quindi diverso, non propriamente facente parte della società. Non c'è più solidarietà con il reo, perchè si aspira piuttosto alla sicurezza, all'economia e al controllo.

Ecco che in questo panorama, àncora di salvezza diventa il carcere: non c'è più interesse nel capire le cause sociali ed economiche della marginalità, si deve solo gestirla; questa scelta è dettata innanzitutto dal fatto che optare per la gestione è più immediato e anche qualora dovesse fallire negli obiettivi, è comunque capace di reprime il problema (almeno temporaneamente); i costi sono più bassi e più accessibili rispetto a quelli che si richiederebbe per un cambiamento di rotta radicale; inoltre, perchè è sempre stato così.

La scelta di segregare è se vogliamo quella più semplice, più complesso sarebbe rendere radicali i controlli nel tessuto sociale o regolare la vita economica o implementare a politiche di inclusione e di integrazione. E se è vero che la responsabilità di queste politiche viene dai governi, ancora più vero è che tali sono ispirate comunque

alla collettività e alle domande che questa presenta a chi di dovere. Cosa fare dunque per invertire il senso di marcia? Innanzitutto è importante notare che la scelta del ministro Orlado di optare per gli stati generali come "architrave" della riforma panitenziaria rappresenta una grandissima inversione di tendenza: lo Stato non agisce da solo, ma chiede pareri, fa parlare il paese per costruire un modello duraturo di sistema penitenziario. Inoltre necessaria è anche una maggiore conoscenza nell'ambito della criminalità: è fondamentale che i consociati comprendano cosa ci sia dientro la commissione di un reato e quali siano le conseguenze di esso. Funzionale a tal fine potrebbe essere aprire maggiormente le porte del carcere, del quale si ha una percezione un po' distorta nel mondo esterno e sopratutto, è bene conoscere il singolo criminale, la sia storia, le sue motivazioni: maggiori occasioni in tal senso sarebbero offerte appunto dalla generale depenalizzazione e dalla diversificazione delle pene a cui auspichiamo, poichè si eviterebbe l'allontamento dalla società del reo, producendo una maggiore apertura reciproca tra questo e i consociati. In fine, importante è che la collettività affronti il problema del "male". D'altra parte, la natura umana, come Nietzsche afferma, passa anche attraverso questo: offendendo, violentando, sfruttando, annientando163.

Il filosofo non vuole considerare questi comportamenti illeggitimi, perchè attraverso essi che passa la vita. Il male, ancora continua il filosofo, ha tante sfaccettature e se si chiedesse allo Stato di punirle tutte, si chiederebbe di annientare la vita stessa. Si riscopre questa necessità dunque: di pensare che il male non sia una dimensione molto lontana da noi stessi e che il reo non sia un soggetto tanto diverso dagli