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L'affermazione del principio di dignità

Intanto, sempre di più nella storia viene a prendere forza un principio fondamentale dell'uomo, quale quello della dignità: soprattutto dopo le due guerre mondiali, si capì che fosse necessario per evitare altre tragedie umane di quel tipo, modificare gli schemi entro cui si sviluppano le relazioni tra le persone e far sì che il punto di partenza

tra volontà libere sotto leggi fosse impossibile, nonnsarebbe neppure possibile lo Stato. Ma non questo soltanto: non sarebbe possibile alcun rapporto sociale", pag. 133

99 METHIEU, op.cit. pag 166

100EUSEBI, La pena in crisi, il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, 1990, pag. 67

fosse proprio la dignità umana. La nostra Costituzione e la Convenzione Europrea dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino riconoscono pienamente questi principi, anche se dal 1948 ad oggi c'è ancora una grossa resistenza a che l'intero ordinamento si conformi a tali principi e questa resistenza si origina senza dubbio dalla collettività, dai consociati. Questo si comprende dal fatto che ancora oggi sentiamo invocare la tolleranza zero o la maggiore severità delle pene oppure parliamo di una pena che possa curare, che sia finalizzata alla socializzazione ma che è ancora pur sempre una pena101. Tutto ciò

ha chiaramente ostacolato eventuali progetti volti ad adeguare il sistema normativo alla Costituzione nel campo della trasgressione e questo spiega come mai il nostro codice penale sia datato ancora 1930 e perchè l'ordinamento penitenziario sia stato rinnovato solo nel 1975. L'idea retribuzionista della pena è fondata a sua volta sull'idea che sia giusta l'esclusione. Si può retribuire il male con il male solo se si ritiene che l'esplusione dalla relazione con l'altro sia umanamente ammissibile e soprattutto positiva. D'altra parte questo è il paradigma a cui si fa riferimento anche in altri campi, tra cui quello educativo (dato che tu hai rotto la relazione affettiva con la comunità, meriti che questa rompa la relazione affettiva con te). Se poi ancora la retribuzione è considerata un imperativo categorico che si giustifica in sé come ritiene Kant, ci si ferma qui; se ha invece anche finalità educative, allora avendo provato l'esclusione ognuno si asterrà in futuro dal tagliare la relazione con la comunità perchè dalla sofferenza si impara e questo è educativo anche nei confronti degli altri consociati perchè

101V. METHIEU, op.cit: "E allora , attraverso il giudice, la cosicetà si scusa col condannato di stottoporlo a una sofferenza che ha 2tutta l'aria di essere una pena", anche se, sia chiarol, non lo è. E si scarica l'equivoco sull'inerzia linguistica che allendosi con le forze conservatrici, impedirebbe di far emergere con chiarezza il camniamento. Finora non si è riusciti a introdurre nella nuova situazione l'equivalente dei termini come "responsabile", "colpevole", "giudice",

"condannare", "pena", e così via. Il linguaggio dei codici è difficile da cabiare e una pressione, sorprendentemente efficace degli oscurantisti impedisce che si introducano temrini più appropriati. " Pag. 24

non compiano nessuna violazione per il timore di essere oggetto di esclusione.

Un tale modo di pensare, ci porta però a strumentalizzare l'uomo, il che sarebbe incompatibile con la riconosciuta dignità che questo ha in quanto tale. "L'essere umano è degno perchè è tale, non per quello che fa".102

Riconoscere la dignità di un uomo equivale riconoscere l'altro come sé stessi e dare agli altri un valore uguale a quello che si da a noi stessi. Il carcere così com'è non può valorizzare l'uomo e quindi confligge con il principio di dignità perchè esclude dalla comunità e dalle relazioni gli altri. Eusebi afferma: "Come per molteplici altri ambiti dell'agire umano, si tratta di domandarsi piuttosto, se i fini attribuiti alla pena e le modalità con cui vengono perseguiti siano o meno moralmente accettabili"103. Il concetto della dignità e quindi del riconoscere il

valore del singolo uomo fa sì che il singolo uomo non possa essere sottomesso, ma che a questo venga riconosciuta piena libertà, la quale non può essere limitata all'uomo se non per consentire la libertà altrui, quindi deve servire a riconoscere agli altri la propria libertà. "È conforme al modello imporre "non uccidere", ma non è conforme far seguire "altrimenti ti uccido" perchè è proprio questa seconda parte, ovvero la sanzione, a non essere in linea con la dignità e la libertà"104.

E non sarebbe neanche educativo: il male insegna il male, la sofferenza insegna ad obbedire, ma chi obbedisce non è responsabile psicologicamente e giuridicamente delle proprie azioni: la pena anzichè creare responsabilità, la distrugge.

La pena, si dice, facendo paura, svolge la funzione di deterrenza e spinge la popolazione a evitare di violare la legge: se alla violazione segue la legge, per evitare la sofferenza ci si astiene dal violare la

102COLOMBO, op.cit. pag 49 103EUSEBI, op.cit. pag. 32. 104COLOMBO, op.cit., pag. 51

legge. Ma quale rispetto del principio di dignità si assicura? Incutere timore insegna ad obbedire, ma l'obbedienza non convince e questo comporta che la regola venga osservata solo per timore di un controllo, mentre sarebbe più corretto che fosse il soggetto stesso, convinto di quello che la legge impone a controllare la propria condotta105. In più,

se la pena diventa doverosa nei confonti del reo106 (in quanto deve

ristabilire il sistema delle libertà), è però piuttosto difficile che lo stesso effetto abbia negli altri consociati, perchè generalmente la collettività si stacca dal reo, lo considera altro da sé, diverso. E anche se umanamente non dovrebbe essere così, "va ricordato che il reo finchè non ha espiato, appare in qualche modo fuori del sistema dell'umanità107". Alla domanda se il carcere diminuisce la devianza

ancora, la riposta è no. In generale, la devianza non diminuisce con l'aumento della repressione108, ma con l'introduzione di meccanismi

che riducano la devianza stessa. Inoltre, il controllo sopra menzionato

105V. EUSEBI, op.cit. L'autore riposta i dati di una ricerca condotta in Germania, il cui "dato più significativo è espresso in questo senso dall'emergere di una netta prevalenza dell'efficacia preventiva attribuita alle c.d. variabili del controllo interno (persuasione soggettiva della legittimità del divieto, attaccamento al sistema di valori fondamentali, ecc), rispetto a quelle del controllo esterno rappresentate da controspinte estranee alla interiorizzazione dell'esigenza di tutela del bene in gioco ed agenti in termini di forza pura. Ciò potrebbe apparire in un certa misura scontato, posto che la maggior parte dei cittadini, presumibilmente, rispetta la legge penale per convinzione, non per mera costrizione; ma quanto sembra dedursi dalle indagini empiriche non è la semplice prevalenza del controllo interno bensì la sostanziale inoperatività di quello esterno, specie per quel che riguarda l'entità della pena minacciata, una volta che il primo abbia fallito."

106Non possiamo non tenere conto ancora la critica di EUSEBI a questo modo di concepire la pena:"Se la pena, infatti, non è altro che il riflesso di meccansimi sociopsicologici elementari – di carattere emozionale e affettivo- essenziali alla stabilizzazione dei comportamenti collettivi allora essa rappresenta la forma più radicale e priva di speranza della subordinazione di un cittadino alle esigenze della società. La vicenda umna pregressa di chi abbia commesso un reato, il suo futuro e lo stesso approfondimento in senso individualizzante dei parametri che dovrebbero definirne la consapevolezza perdono di rilievo: ciò che conta è solo la simbologia rassiuratrice legata al rito della pena." op.cit. pag. 39:

107MATHIEU, op.cit., pag. 211

108Su questo v. PAVARINI, Processi di ri-carcecrizzazione e nuove teorie giustificative della pena, in Rassegna penitenziaria e criminologica, pubblicato sul Numero 1/ 3 dell'anno 2000, pagg. 2-10;

certamente funziona se l'interesse a violare la legge è minimo, altrimenti si torna velocemente a trasgredire.

D'altra parte, poi ammettere che il carcere possa riparare la vittima, o meglio il conflitto che si instaura tra questa e chi ha leso i suoi diritti, la sua dignità e la sua persona, è illusorio. La vittima riceve dalla sofferenza del colpevole solo la soddisfazione del proprio istinto di vendetta.

Avendo quindi tirato le somme di una pena che retribuendo il male con il male, non serve allo scopo per cui viene usata, ci rendiamo conto che per evitare che si commettano altri reati, dovrebbe essere individuato un sistema di risposta alla trasgressione di tutt'altro genere.

La concezione filosofica per cui chi trasgredisce deve essere sottoposto a una pena e cioè deve soffrire, dipende, come si è accennato, da una più generale convinzione sull'essenza della relazione tra esseri umani. "Non si vede invece come il massimo rispetto della dignità umana potrebbe corrispondere al minimo di solitarietà rappresentato dalla pura e semplice compensazione del male commesso109". Abbiamo però

delle alternative.