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Abbiamo visto, dunque, quali sono state le problematiche da sempre individuate nella pena detentiva, sin dalla sua creazione. E' facile, a questo punto constatare come l'essenza del carcere nei secoli sia

55 M.FOUCAULT, op.cit., pag 270. 56 M.FOUCAULT, op.cit.,pag. 271.

rimasta sempre la stessa: i punti deboli del carcere individuati dai riformatori sono gli aspetti sui quali anche noi ora possiamo intravere delle criticità tanto insite nel sistema detentivo e così tanto generali, che si danno 'per scontate', come qualcosa di connataurato alla pena detentiva.

Questo non vuol dire sottovalutare gli interventi che si sono susseguiti nel tempo o minimizzare le riforme, ma permette di interrogarci sul fatto che non sia proprio il carcere così come strutturato e così come da sempre organizzato a non rappresentare la ragione più profonda dello "scacco" di cui parla Foucault.

D'altra parte, Goffman docet: il carcere rientra in quelle che l'autore definisce "istituzioni totali", definizione carica di significato e assolutamente non banale. L'istituzione ingloba, racchiude, incorpora57

(che nelle riflessione del medico Gonin sulle malattie sviluppate fra la popolazione detentuta, come questo concetto di incorporamento assume dei connotati quanto mai 'fisici'58). Vorrei partire proprio dal

primo illustre autore citato per approfondire alcuni aspetti patologici delle istituzioni totali che egli esamina, aspetti che sono strutturali a queste e che quindi sussistono in esse in quanto tali.

Cosa sono le istituzioni totali? "Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato nell'impedimento alla scambio sociale e all'uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture

57 Sul punto, GOFFMAN, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, Torino, 1961;

58 GONIN è medico penitenziario presso il carcere di Saint Paul a Lyon, il quale, nell'opera "La santé incarcérée", pubblicata nel 1991, ha fatto luce sulle malattie e sui disturbi che si sviluppano nell'ambiente carcerario, fino ad arrivare ada affermare che la pena detentiva è, senza incertezze, una pena corporale. Lo studio di Gonin mette in risalto una categoria di patologie dette "dell'ombra" dovute sostanzialmente alla stessa natura della vitadetentiva dovute al malessere carcerario, che provocano nel detenuto numerose reazioni psico-fisiche molto frequenti: "trauma dello sradicamento psicologico e sociale passando attraverso la deformazione spazio-temporale", desiderio di assenza, di mimetizzazione, la vertigine; la personalità dei singoli si confondono; si innesca un processo di autonegazione ed annullamento dell'IO; decomposizione fisica e psicologica e atrofia progressiva dei cinque sensi.

fisiche dell'istituzione: porte chiuse, mura, filo spinato corsi d'acqua, foreste, brughiere. Questo tipo di istituzione io lo chiamo "totale"59".

Goffman individua subito queste come quelle particolari strutture in cui si forzano le persone a diventare diverse: una sorta di esperimento su ciò che può essere fatto del sé. Interessante è la riflessione che si fa sulla vita in società di un uomo, che è scandita da varie fasi (Goffman parla di dormire, divertirsi e lavorare), che egli trascorre abitualmente in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità o senza alcuno schema razionale di carattere globale. Quello che caratterizza questa particolare forma di istituzione è la "rottura delle barriere che abitualmente separano queste tre sfere di vita: tutte le attività si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa autorità, ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose"60. Esse sono poi organizzate secondo un piano

razionale designato per adempiere allo scopo ufficiale dell'istituzione. Le istituzioni totali hanno poi il compito di dover manipolare molti bisogni umani attraverso una ferrea organizzazione burocratica di intere masse di persone e questa viene individuata come una delle tante cause che portano alla demolizione del sé del soggetto internato. Altra caratteristica è poi il fatto che "convivano" all'interno di queste, seppur in modo forzato, due mondi e due realtà diverse e impenetrabili fra loro: lo staff e la massa degli internati. "Ogni gruppo tende a farsi un'immagine dell'altro secondo stereotipi limitati e ostili: lo staff giudica gli internati malevoli, diffidenti e non degni di fiducia; mentre gli internati ritengono che il personale si conceda dall'alto, che si dia mano lesta e spregevole. Lo staff tende a sentirsi superiore e a pensare di avere sempre ragione; mentre gli internati, almeno in parte, tendono a ritenersi inferiori, deboli, degni di biasimo e colpevoli. La mobilità

59 E. GOFFMAN, op.cit., pag.34; 60 E. GOFFMAN, op.cit., pag 35;

sociale fra le due classi è molto limitata: la distanza sociale è generalmente notevole e spesso formalmente prescritta. Persino il colloquio fra l'una e l'altra sfera può svolgersi con un tono particolare di voce.61" L'antagonismo fra i due mondi è poi esasperato dal fatto che

il ricoverato di cui Goffman parla è totalmente escluso dalla possibilità di conoscere le decisioni prese nei riguardi del suo destino e dal fatto che gli interessi e le finalità dello staff vengono fatti coincidere con gli interessi e le finalità dell'istituzione da parte degli internati.

Secondo Goffman ancora l'istituzione totale è incompatibile sia con il lavoro che con la famiglia. Nel primo caso perchè nel vivere sociale, l'autorità del posto di lavoro si arresta nel momento in cui il lavoratore riceve il compenso per la propria attività svolta; il fatto di spenderlo in ambito familiare e in occasioni ricreative, resta una sua questione privata, così facendo anche l'autorità del luogo di lavoro è circoscritta o limitata. Per gli internati, qualunque sia l'incentivo al lavoro, esso non avrà il significato strutturale che ha nel mondo esterno. Questo è un "adattamento basilare". I lavori richiesti sono spesso troppo leggeri per cui l'internato "si annoia" oppure potrebbe essere richiesto ad un ritmo più lento rispetto a quello a cui è abituato oppure potrebbe essere inserito in un sistema di pagamento che non corrisponde al valore dell'attività prestata, spesso di natura rituale, come la razione settimanale di tabacco. Può essere che venga richiesto un orario di lavoro che supera quello di una normale gionarata lavorativa e spesso questo viene considerato non tanto un incentivo al guadagno, quanto piuttosto strumento per punire fisicamente il soggetto. In alcune istituzioni vige poi lo schiavismo, nel senso che tutto il tempo dell'internato viene messo a completa disposizione dello staff: qui il senso del sé dell'internato e del suo possseso vengono annullati attraverso il lavoro. A volte, colui che, nel mondo esterno era un buon

lavoratore , nell'istituzione totale viene corrotto a causa del sistema lavorativo vigente ( Goffman fa riferimento ai casi in cui internati o ricoverati "si lavorano" chi possono per un soldo da spendere al bar). Un tale comportamento nel mondo esterno verrebbe considerato dallo stesso soggetto al di sotto del loro rispetto di sé.

La vita familiare è in contrasto con la vita del singolo; in questa vita condotta insieme ad una massa di persone coloro che vivono, mangiano e dormono nel luogo di lavoro con un gruppo di compagni, difficilmente possono avere una vita familiare significativa. Invece proprio il fatto che lo staff abbia una famiglia che si trovi al di fuori dell'istituzione fa sì che questo sfugga alla tendenza inglobante dell'istituzione stessa.

In fine, quello che l'autore mette in evidenza è la discrasia tra quello che viene considerato il fine educativo dell'istituzione e ciò che si verifica realmente all'interno di essa. "Se avviene un cambiamento culturale (già il fatto di porre un'ipotesi ci fa capire che esiste un qualche dubbio nel merito), esso è legato alla rimozione di certe possibilità di cambiamento e al mancato tenersi al passo con gli ultimi mutamenti sociali che avvengono nel mondo esterno. Cosi qualora la permanenza del'internato si protragga si potrebbe assistere a ciò che viene definito come un processo di disculturazione, vale a dire la mancanza di allenamento che lo rende incapace -temporaneamente- di maneggiare alcune situazioni tipiche della vita quotidiana del mondo esterno, se e quando vi faccia ritorno. Per l'internato il significato di essere "dentro" o "all'interno" non esiste se non nella accezione particolare che assume per lui il riuscire ad "andare fuori" o uscire nel "mondo esterno"62".

"[Le istituzioni totali] si limitano a creare e sostenere un tipo particolare di tensione fra il mondo familiare e quello istituzionale, che

usano come leva strategica nel manipolamento degli uomini"63.

Manipolamento, annientamento del sé, ostilità, disculturazione: il quadro tracciato da Goffman è oggettivamente disastroso. E se qualcuno obiettasse dicendo che in realtà questi siano meri vaneggiamenti su situazioni passate e superate, si potrebbe in realtà controbbatere affermando che i profili critici da Goffman evidenziati sono aspetti problematici ancora oggi esistenti.

Ciò perchè il carcere non ha mai smesso di essere ciò che è sempre stato, ovvero una istituzione totale nonostante interventi e riforme abbiano cercato di modificarne il contenuto e l'aspetto.

Giostra64scrive:"Si pensa che il carcere sia l'unica risposta alle paure

del nostro tempo e c'è una corrispondente tendenza politica ad affrontare ogni reale o supposto motivo di insicurezza sociale rincorrendo allo strumento meno impegnativo e più efficace". Si fanno corse all'aumento delle fattispecie di reato e dell'entità delle pene, diminuendo nel contempo le possibilità di graduale reintegrazione del condannato nel consorzio civile, nonostante che una politica penale di tal tipo si consideri di segno involutivo e carcerocentrica, tale da produrre un sovraffolamento delle carceri e mina la credibilità stessa della funzione risocializzativa della pena. "Il problema è culturale prima che normativo". Giostra conferma un comportamento diffuso nella nostra società attuale, cioè la totale estraneità dal campo visivo dei consociati del problema carcerario. I più si ricordano della pena detentiva al verificarsi di un reato, ancora meglio se efferato: illusoriamente il carcere diventa la soluzione al problema, ma nella realtà esso non è altro che un luogo "dove rinchiudere le nostre paure e i nostri mali"65.

63 E. GOFFMAN, op. loc. cit.

64 G.GIOSTRA, Il carcere non può essere la pena in Corriere della sera del 5 Luglio 2015, pag. 4;

65 Si veda anche PAVARINI, Carcere riformabile?Uno sguardo da Il Ponte sulla riformabilità democratica del carcere, in Rassegna penitenziaria e criminologica,

Diventa quindi difficile portare avanti una riflessione continuativa e di lunga durata sul carcere ed impossibile pensare che ci sia una sacrosanta esigenza di valorizzare le attività del reo più che di punirlo ciecamente, di comprendere che la pena deve essere una occasione per il condannato di avvalersi della dell'opportunità di essere risocializzato e responsabilizato.

Giostra è convinto che un grosso ruolo, in questo processo di oscurantismo, giochino gli operatori dell'informazione: "La quantità e la qualità delle notizie riguardanti il crimine e la pena incidono sulla percezione sociale dei pericolo e sulla politica penale del legislatore"66

e auspica a questo punto l'avvenire di una stampa meno sensazionalistica.

L'autore cerca di farci comprendere che nonostante le testate giornalisti e gli altri mezzi di diffusione delle informazioni cerchino di fare leva sui sentimenti dei consociati per indurli/ci a pensare l'effettiva utilità della pena (e della pena detentiva), ecco che agli addetti ai lavori non può sfuggire un dato rilevante: la pena è in crisi e questa condizione dipende senza dubbio dall'impossibilità di riproporre un fondamento ontologico della stessa. Dopo il processo di laicizzazione che la ha attraversata, la pena non può più adagiarsi sull'idea di pena giusta, che configura un ideale assoluto di giustizia, è necessario adesso che essa sia utile: l'unico modo per poter continuare a giustificare la pena è che questa sia utile ad un fine. "Dal momento in cui la pena si è dovuta

anno 2004, volume 8, fascicolo 1: "La questione penale vive autonomamente dalla questione criminale che essendo essenzialmente una questione sociale consentirebbe almeno di leggere anche il carcere in una prospettiva politica di riforma sociale. La criminalità è ancora intesa come segno di Caino, come qualche cosa di riconducbile alla malvagità umana . In ciò è dato constatare un arretramento culturale rispetto alle posizioni esprese dalla stessa scuola positivistica e in particolare dal movimento del socialismo giuridico", pag.81; 66 "Non può non far riflettere che da un'indagine sulle principali testate televisive dei maggiori paesi europeri, risulti che in Italia l'informazione televisiva dedica alle notizie riguardanti la criminlità circa il triplo dello spazio ad esso riservato in Paesi come la Francia e la Germania, nei quali il ricorso alle misure alternative era, sino a aqualche anno fa, quasi dieci volte superiore a quello italiano". G.GIOSTRA, op.cit. pag.5;

emancipare dal castigo divino, è stata perennemente minacciata dal rischio di venire svelata per quello che contingentemente è, dietro la finzione di ci che vuole far credere di essere. Fino a quando essa ha potuto offrirsi come pena giusta ha potuto reggere imperturbata alla critica dei fini; ma se essa si offre come pena utile, se il fine si smaschera come irraggiungibile o come falso o come inconfessabile, la pena non è più in grado di giustificarsi, deve mostrarsi per quello che effettivamente è, cioè qualcosa di impropronibile, perchè privo di ragione."67 Il processo di razionalizzazione a cui è stata sottoposta la

pena, di cui Pavarini parla è il frutto dell'emergere e della diffusione del carcere, che egli definisce la pena "borghese per eccellenza"che incide sul bene della libertà personale del reo.

Mentre nella fase della determinazione della pena, fa notare bene Pavarini, non può emergere nessun particolare fine, affinchè la pena comminata sia totalmente oggettiva, nella fase dell'esecuzione, la pena è invece orientata ad un fine, definita "volontà pedagogica". Per questa ragione Pavarini afferma che se la pena ha già raggiunto il suo scopo non ci siano ragioni per cui questa debba continuare ad essere eseguita, a meno che non si voglia ricadere nei vecchi modi di pensare la pena come vendetta e sola retribuzione e fa riferimento ad una particolare stagione del dirito penale, definita New Penology, dalla quale nasce e si diffonde il c.d.modello correzionalistico. Senza perderci nella descrizione di questo, è però necessario osservare due punti fondamentali: l'alternativa al carcere, la grande espansione delle misure alternative alla pena detentiva se da un lato segnano il massimo dominio dello scopo special-preventio della pena, dall'altro evidenziano il fallimento dell'invenzione penitenziaria.

"Il modello correzionale - secondo Pavarini - è l'esito estremo ma coerente della ricerca di un fondamento utilitaristico alla pena ed è

67 PAVARINI, La pena "utile": la sua crisi e il disincanto: verso una pena senza scopo, in Rassegna penitenziaria e criminologica, anno 1983, volume 1, pag. 3;

anche punto estremo di laicizzazione del diritto penale , capace di ridurre questo ad uno strumento di controllo sociale, ma così finisce per essere il veicolo più rapido e persuasivo per l'amministrativizzazione del diritto di punire, cioè per l'affermazione del diritto penale diseuguale.68" La crisi dell'ipotesi correzionale è

conseguenza della crisi del modello di sviluppo economico-sociale di cui essa è espressione concreta anche se non c'è una coincidenza tra le ragioni della conclamata crisi del modello correzionalistico con quelle della crisi della funzione special-preventiva della pena, la crisi del primo delegittima anche la seconda e l'autore elenca i rilievi critici che si rivolgono ai diversi modi di intendere la prevenzione speciale: come rieducazione alla moralità attraverso la moralità, alla legalità attraverso la legalità, rieducazione come educazione all'autodeterminazione. La rieducazione alla moralità attraverso la moralità è in realtà una concezione molto antica, che parte dalla premessa che la legge penale rappresenti i valori che tutti i consociati (l'unanimità dunque) riconoscono come meritevoli di tutela. Con la pena, il condannato viene quindi normalizzato perchè si incide positivamente attraverso questa su quei fattori che hanno portato il reo a violare la legge. Risulta tuttavia difficile, se non impossibile, poter confermare questa concezione consensuale della società.

Il modello pluralista della rieducazione alla legalità con la legalità parte dall'idea che ci siano diversi gruppi sociali che hanno interessi differenti, a volte tra loro in conflitto. Vi è la legge perchè non esiste alcun accordo generale. La finalità specialpreventiva in questo caso dovrebe pertanto potersi realizzare solo come rieducazione al rispetto sia pure formale delle norme penali. Ci sono però due obiezioni a questo secondo modo di intendere la rieducazione: se non c'è identità di interessi tra i gruppi, la rieducazione altro non è che imposizione

autoritaria di una condotta conforme a certe regole e questo contrasta con la neutralità rispetto ai valori del sistema penale stesso. Se poi, ancora, l'obiettivo della prevenzione speciale legale è educare alla non recidiva, allora il diritto penale sarebbe solo una "pratica altamente selettiva, perchè di fatto rivolta solo nei confronti di alcuni e non di tutti i viotatori della legge penale"69. In più senza una infrastruttura

etica l'impego special-preventivo si trasformerebbe in una semplice induzione alla simulazione.

Si giunge quindi all'ultimo modo di pensare la rieducazione, rieducare alla autodeterminazione: non più rieducare ad un sistema di valori ma verso un metodo attraverso cui il condannato possa conseguire da solo la proprio autodeterminazione nei confronti dei valori. Il condannato verrrebbe educato alla libertà delle scelte. Ci sono anche qui delle problematiche: innanzitutto anche qui si risconta un carattere e una pratica selettivi, in più per molti condannati, la scelta di criminalità può già essere una scelta di libertà e non si vede perchè questi dovrebbero essere rieducati ad essere più liberi. Inoltre, il processo di autoderterminazione potrebbe conseguirsi solo attraverso un'imposizione coattiva esterna e in questo modo vi sarebbe sempre una contraddizione tra dominio e autodeterminazione rispetto ai valori. C'è anche chi tenta una diversa strada rifacendosi ad una teoria della pedagogia emancipatoria e suggerisce un'esecuzione penale nel rispetto di una libera autonomia individuale, oltre all'offerta di tutti gli aiuti possibili affinchè il condannato possa liberamente risolvere in termini positivi quei problemi che lo hanno determinato ad una condotta criminale. E' comunque difficile pensare che una tale teoria possa operare nei confronti di quelle contraddizioni criminogene strutturali . Inoltre, i tagli alla spesa pubblica hanno ridotto drasticamente gli interventi nel settore assistenziale e ciò ha determinato una ulteriore

caduta nella funzionalità stessa dei servizi e degli apparati preposti alla soluzione dei problemi di disagio sociale.

Per tutte queste ragioni, il modello correzionale si mostra sempre più inadeguato e proprio per questo non riesce più a giustificarsi. Nonostante questo, il diritto penale viene risparmato dalla crisi, anzi indirettamente finisce per essere valorizzato perchè rimasto estraneo a ogni finalità special-preventiva. La dimostrata inutilità del carcere ben si coniuga con una concezione vendicativa del diritto di punire sul fondamento della pena meritata, in quanto ormai vuoto contenitore. Pavarini conclude: "la scienza giuridico-penalista non può che essere scienza della formalizzazione di questo rapporto diseguale, ma in questa formalizzazione non può che mantenere viva la diseguaglianza70". E argomenta: "Più ci penso, più mi convinco:

conviene smascherare definitivamente la pena, ma per mai più mascherarla. Lasciarla nuda, perchè a tutti possa mostrare il volto osceno della giustizia penale. Quando i classici sognavano un diritto penale come magna charta del criminale temevano quello che anch'io temo: che si deve aver paura più del diritto penale che della stessa criminalità. La forza di questa conclusione sta in questo: vedere il diritto di punire come violenza non altrimenti comprensibile che per ragioni sottratte alla ragione; sapere che l'unico compito della ragione è quello di determinare i limiti di quel potere e non certo di giustificarne e realizzarne gli scopi. Ciò si verifica propriamente nella creazione e