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Sarah Kane e Mark Ravenhill: oltre il teatro in-yer-face

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN LETTERATURE E FILOLOGIE

EUROAMERICANE

TESI DI LAUREA

Sarah Kane e Mark Ravenhill: oltre il teatro in-yer-face

CANDIDATO

RELATORE

Luca D’Agostino

Chiar.ma Prof.ssa Sara Soncini

CONTRORELATORE

Chiar.mo Prof. Fausto Ciompi

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INDICE

Introduzione

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1. IL TEATRO INGLESE DEGLI ANNI NOVANTA: IN-YER-FACE

‘The nasty nineties’ 8

Crisi e rinascita del new writing 10

‘In-Yer-Face Theatre: British Drama Today’ 14

Sarah Kane 22

Blasted 23

Phaedra’s Love 24

Cleansed 28

Mark Ravenhill: Shopping and Fucking 33

Conclusione: l’in-yer-face al tramonto 36

2. BLASTED: IL MITO DI SARAH KANE

‘This Disgusting Feast of Filth’ 39

Il ritorno al Royal Court: la ‘Sarah Kane Season’ del 2001 44

Nel frattempo, di là dalla Manica… 48

Blasted: la ‘afterlife’ britannica 53

La svolta lirica e intertestuale 59

Blasted: oltre In-Yer-Face 63

‘Looks like there’s a war on’: l’estetica del terrore 66

Teoria del trauma e crisi della testimonianza 68

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3. LA PARABOLA ARTISTICA DI MARK RAVENHILL: ALCUNE LINEE DI

SVILUPPO

Quando lo scrittore inizia a scrivere: lo strappo nella trama degli anni Novanta 78 Shopping and Fucking (1996): mercato e civiltà 79 Some Explicit Polaroids (1999): uno sguardo disilluso verso la Cool Britannia di Tony Blair 85 Mother Clap’s Molly House (2001): un mosaico epico 92

Shoot/ Get Treasure/ Repeat (2007): globalizzazione e guerra 99

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Introduzione

Quello che segue è uno studio su due figure di spicco della drammaturgia inglese contemporanea. Sarah Kane e Mark Ravenhill appartengono alla generazione di giovani scrittori cresciuta durante il governo di Margaret Thatcher: sono i figli disorientati di un mondo che, specialmente dopo la caduta del muro di Berlino, diviene sempre più frammentato. La società in cui crescono Kane e Ravenhill è segnata dallo sconforto per una situazione politica stagnante alla quale segue una grave recessione economica. All’inizio degli anni Novanta, a causa degli ingenti tagli ai sussidi pubblici, il teatro inglese è ridotto a un mausoleo che, per rispettare la dura legge del mercato, ripropone riadattamenti di classici oppure grandi opere del Novecento lasciando poco spazio alla novità. Ma le cose cambiano a metà decennio. Il palcoscenico britannico assiste finalmente ad una rinascita della drammaturgia contemporanea: momento culturale in cui un gran numero di scrittori si affaccia sulla scena teatrale e compone opere nuove e innovative. Le due figure più note tra quelle emerse sono Sarah Kane e Mark Ravenhill.

Il teatro degli anni Novanta si distingue principalmente per il carattere provocatorio dei suoi contenuti e per il linguaggio estremo con cui tratta gli argomenti. Nasce a tutti gli effetti una nuova estetica teatrale che passerà alla storia, secondo l’espressione coniata da Aleks Sierz, con il nome In-Yer-Face Theatre. Nell’omonimo studio del 2001, il critico del Tribune ne spiega le caratteristiche fondanti riunendo sotto la sua insegna un assortito gruppo di scrittori, a suo avviso simili per stile di scrittura e temi trattati. L’In-Yer-Face, tuttavia, non è un movimento né una scuola: i vari autori elencati da Sierz non si riuniscono sotto un manifesto, né tanto meno si riconoscono come appartenenti a un gruppo. Benché l’opera del critico sia d’importanza vitale, in quanto prima analisi delle modalità con cui rifiorisce la drammaturgia contemporanea negli anni Novanta, la categoria da lui proposta si è presto rivelata insufficiente nel trattare la complessità tematica e formale dei diversi scrittori: questo è particolarmente vero per Sarah Kane e Mark Ravenhill, i due autori più rappresentativi della nuova estetica. Quella che segue, quindi, è un’analisi di storia della critica sull’evoluzione del teatro dei due scrittori al di là della chiave interpretativa introdotta da Sierz.

Questa tesi svolge la propria ricerca diacronicamente. Per quanto riguarda il teatro di Kane, il cui lavoro comprende una produzione esigua concentrata in meno di cinque anni, viene analizzato circa

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un ventennio di ricezione critica in relazione a Blasted, la sua prima opera, giustificandone mediante prospettive critiche e approcci analitici vari, il graduale processo di canonizzazione. Un diverso metodo di indagine caratterizza il confronto critico con il teatro di Ravenhill. Autore più longevo e prolifico, nel suo caso il cambiamento è rintracciabile a livello di produzione e l’evoluzione del suo lavoro viene qui spiegata attraverso l’analisi di alcune tappe importanti.

Nel primo capitolo, dopo aver descritto brevemente le dinamiche storiche e sociali del Regno Unito negli anni Novanta, viene presentato un resoconto della rinascita del new writing, fenomeno descritto principalmente attraverso il sopracitato studio di Sierz. Una volta illustrate le caratteristiche fondanti dell’estetica in-yer-face, l’analisi procede con una presentazione dei due autori: nello specifico, vengono affrontate le opere grazie alle quali Kane e Ravenhill si guadagnano la nomea di drammaturghi in-yer-face, ovvero le prime tre opere di Kane – Blasted (1995), Phaedra’s Love (1996) e Cleansed (1998)– e Shopping and Fucking (1996) di Ravenhill, nonché la loro prima ricezione critica nel contesto teatrale degli anni Novanta.

Il secondo capitolo, invece, è centrato su Blasted. Questa sezione è totalmente consacrata a mostrare come la prima opera di Kane, inizialmente considerata priva di meriti artistici, sia oggi un capolavoro degno di essere messo in scena sui palchi di tutto il mondo. Utilizzando come strumenti d’indagine sia le recensioni, che gli studi critici, si è cercato di delineare i momenti più significativi del rapido processo di canonizzazione vissuto da Blasted: il suo debutto nel 1995; il successo nel resto d’Europa; la afterlife britannica a partire dalla sua ripresa nel 2001 fino alla Kane Season del 2015. Inoltre, sempre con l’intento di dimostrare quanto sia mutata la percezione di Blasted, vengono proposte diverse interpretazioni analitiche che, oltre a testimoniare l’importanza e la complessità del lavoro di Kane, comprovano definitivamente la sua transizione da epitome di un fenomeno teatrale dalla breve durata – il teatro in-yer-face – a classico moderno.

Nel terzo capitolo, infine, viene affrontato il teatro di Mark Ravenhill. L’ultima parte dell’elaborato è introdotta dall’interpretazione personale, sociale e politica dell’autore sul fenomeno di rinascita teatrale degli anni Novanta. I paragrafi successivi, invece, si concentrano su quattro opere dell’ampio repertorio di Ravenhill con lo scopo di tracciare, con l’aiuto di studi critici, alcune linee di sviluppo del suo teatro politico, documentando così il suo progressivo allontanamento dal modello tematico e soprattutto formale dell’in-yer-face. Attraverso l’analisi tematica di Shopping and Fucking, Some Explicit Polaroids (1999), Mother Clap’s Molly House (2001) e del ciclo epico Shoot/ Get Treasure/ Repeat (2007), si è soprattutto cercato di delineare l’evoluzione – tematica, spaziale, temporale – dello sguardo politico di Ravenhill e della portata della sua indagine, volta a illustrare gli effetti alienanti del capitalismo sulla vita delle persone. In questo studio, infatti, Ravenhill inizia la sua ricerca partendo da un contesto suburbano (Shopping and Fucking); si sofferma commentando lo

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“stato della (sua) nazione” a fine millennio (Some Explicit Polaroids); prosegue raccontando una storia di politica sessuale cominciata circa duecentocinquanta anni fa (Mother Clap’s Molly House), e termina il suo viaggio affrontando un tema di dimensioni globali: la guerra al terrorismo (Shoot/ Get Treasure/ Repeat).

Come si vedrà, Kane e Ravenhill sono artisti molto diversi. Una ci parla dell’amore estremo e appassionato, delle pulsioni oscure che guidano l’uomo, del posto di quest’ultimo nel mondo e dell’ardua battaglia da lui intrapresa per trovare una qualche sintonia con se stesso; l’altro, pur vivendo nell’era post-ideologia sorta dalla caduta del muro di Berlino, discute politicamente sulle maggiori preoccupazioni del nostro tempo criticando l’idea contemporanea di progresso. Lei una hooligan del teatro1, disposta a sfidare ogni convenzione prestabilita rivoluzionando la forma teatrale con ogni sua opera; lui un attento osservatore del mondo che lo circonda, abile nel drammatizzare fenomeni dal significato scivoloso come la globalizzazione, pur attenendosi di solito alle regole del sociorealismo. Ma una stessa motivazione accomuna Sarah Kane e Mark Ravenhill: a un certo punto della loro vita entrambi, forse, si sono affacciati a una finestra e hanno visto un mondo violento. Non importa che aspetto avesse tale violenza. Ma da quel momento in poi, Kane e Ravenhill hanno sentito il bisogno di farne teatro. Forse è per questo che, ancora oggi, i loro nomi vengono spesso associati al marchio in-yer-face.

Eppure, col procedere di questa ricerca attraverso la lettura dei testi teatrali e l’ascolto delle voci non solo degli studiosi, ma anche degli autori stessi, si scopre invece un mondo molto più ampio rispetto agli angusti spazi che caratterizzano lo scenario brutale dell’in-yer-face. Ben oltre la componente esperienziale, infatti, per quanto riguarda Kane e Ravenhill, si trova un dialogo appassionato con la grande tradizione teatrale; dai classici greci e romani, ai moderni come Shakespeare, fino ad arrivare a Brecht, a Beckett, a Pinter e a Bond. La grande lezione appresa dai maestri del passato e del presente permette ai nostri due autori di superare il modello in-yer-face anche a livello formale: prendendo spunto anche da Martin Crimp, il più anziano della nuova generazione di scrittori, Kane e Ravenhill abbandonano presto la linearità della narrazione e smantellano ulteriormente la categoria del personaggio; mettono da parte la rappresentazione naturalistica a cui tanto è affezionato il teatro inglese, e si avventurano sulle strade dell’espressionismo e del simbolismo. Soprattutto, ai temi domestici dell’estetica in-yer-face, si contrappone l’audacia dei nostri due autori nel trattare argomenti di carattere esistenziale (Kane) e di dimensioni globali (Ravenhill).

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Insomma, Sarah Kane e Mark Ravenhill, inizialmente ritenuti i due ‘ragazzi terribili’ degli anni Novanta, sono cresciuti ben oltre l’adolescenza: il loro teatro, anziché morire giovane e irriverente – come accaduto al fenomeno in-yer-face – ha invece varcato la soglia del nuovo millennio. Quanto segue, è un tentativo di spiegare come.

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CAPITOLO 1

IL TEATRO INGLESE NEGLI ANNI NOVANTA: IN-YER-FACE

‘The nasty nineties’

Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino. Questa data epocale sancisce la fine della Guerra Fredda e il trionfo del sistema capitalistico. Per il politologo Francis Fukuyama, l’uomo ha finalmente raggiunto il traguardo finale del suo percorso di progresso: lo stato liberale e democratico. A suo avviso, la Storia può dirsi conclusa2. È con meno entusiasmo che Alain, personaggio di Faust is Dead di Mark Ravenhill, amplifica il concetto: «Man [too] is dead» (Ravenhill 2001: 138). Nonostante le promesse di pace e di prosperità all’insegna del progresso tecnologico, l’umanità di cui parla Alain non solo non migliora ma, narcotizzata da Internet, schermi e antidepressivi, non riconosce l’entità del proprio malessere. E, in assonanza con i propri politici, distoglie lo sguardo dai nuovi abomini che affliggono il mondo. Altrove, infatti, la Storia delle guerre e dei massacri prosegue: basti pensare, solo per citarne alcuni, agli stermini di natura etnica e religiosa attuati rispettivamente in Ruanda e in Bosnia; alla prima guerra del Golfo e a quella cecena. Tutto questo accade sotto gli occhi di un’Europa chiusa in un assordante silenzio.

Nel frattempo, il 22 novembre 1990, Margaret Thatcher rassegna le dimissioni da primo ministro del Regno Unito. Con il mandato del suo successore, John Major, ha inizio una recessione economica di due anni in cui circa tre milioni di persone restano senza lavoro. Mentre il nuovo governo è alle prese con scandali interni e divisioni intestine nelle scelte di politica europea, un clima sempre più cinico e apatico attraversa la nazione. In questo contesto, il Partito Laburista cambia volto allineando la propria visione a quella conservatrice: anche grazie a questa strategia, il New Labour Party di Tony Blair vince le elezioni nel 1997. Il cambio di rotta in politica coincide con una ripresa di vitalità anche nel campo artistico: questo particolare momento culturale della storia inglese, tra il 1994 e il 1997, porta il nome di ‘Cool Britannia’. Appena eletto, il nuovo governo trasforma il fenomeno artistico in

2Nell’introduzione alla sua opera, Fukuyama ha affermato: «[l]iberal principles in economics – the ‘free

market’ – have spread and have succeeded in producing unprecedented levels of material prosperity», The End of History and the Last Man, 1992, p. xiii.

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8 un’arma politica, cogliendo l’occasione perché Cool Britannia e New Labour Party diventino sinonimi. Così, il partito di Blair riceve quella chirurgia estetica necessaria a distinguere la sua politica da quella dei governi precedenti, difendendosi da quelle accuse che reputano il blairismo un calco della politica della Thatcher (D’Monté – Saunders 2008: 40). Tuttavia, dietro questa «rivoluzione creativa» (ibid.)3, come la definisce Blair, il disegno più grande è favorire un’economia di libero mercato dove il prodotto da vendere diviene lo stile di vita inglese:

[s]ince the mid-1980s, there has been a steady shift from an economy of production to a culture of brands. Companies no longer see their primary function as selling sneakers, personal computers and mugs of coffee; they now sell a ‘lifestyle’, a ‘business solution’, an ‘experience’. Rather than a product with which consumers have a[n] utilitarian relationship, a brand forges a connection with consumers by representing ideals and values, giving a faceless commodity an aura of social value and cultural importance, thus fostering ‘brand loyalty’ on the part of consumers. (ibid.; corsivo nel testo)

In questo modo, il New Labour Party abbraccia la cultura dei consumi tipica del capitalismo americano dove, parafrasando il pensiero di John Gross, «un’intera società parla secondo il linguaggio del supermercato, e il commercio è elevato a nuovo ideale» (ivi, 41).

Per quanto riguarda il suo aspetto artistico, Cool Britannia è un’etichetta sotto la quale le diverse frange della cultura, come la musica pop, la moda, il cinema e il teatro, competono con le rivali americane nel panorama del mercato culturale mondiale. Ne sono esempi il Britpop, gli Young British Artists (YBA) 4, le pellicole britanniche approdate a Hollywood (e non solo)5e alcune opere di teatro

scritte da giovani drammaturghi (Sierz 2012: 14). Cool Britannia e New Labour, insomma, sono i vessilli di una nazione giovane, luminosa e ottimistica, mentre Londra svolge il ruolo di ‘capitale globale dello stile’ (Urban 2008: 39). Tuttavia, il nuovo spirito nazionale non è condiviso e apprezzato da tutti; al suo fianco, infatti, convive una visione più cupa dei tempi che corrono. A rappresentarla è una ‘Generazione X’ di giovani scrittori di teatro che, come spiega Urban, rifiuta il nuovo sistema e la sua cultura con attivo nichilismo (ibid.).

3Da qui in avanti, dove le citazioni dai saggi sono riportate in italiano, la traduzione è mia. 4Cfr. Britpop, pp. 15-6; Young British Artists, pp. 17-8.

5Vincitori di Oscar come Il silenzio degli innocenti (1991), Il paziente inglese (1996), Shakespeare in Love

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Crisi e rinascita del New Writing

«I just want to tell stories about me and my girlfriend» (Rebellato 2009: xi)6

All’inizio degli anni Novanta, il teatro inglese è una bestia ferita che rimugina sul suo glorioso passato. Ad impedirne il rinnovamento sono le conseguenze delle precedenti politiche conservatrici dei governi Thatcher e Major. Come illustrato da David Edgar,

what happened in 1979, in culture as in all spheres of life, was an assault by the market on the liberal establishment. Margaret Thatcher’s great political insight was that she could use the market-place to achieve essentially political objectives7 […]. In the cultural sphere, she sought to

counter her opponents not by diktat but by letting the market rip. True, at the outset, there was some loose talk about the market as promoting artistic freedom – but by 1987 her then arts minister was speaking of the market not as a liberator but a policeman, insisting that “the only real test of our ability to succeed is whether or not we can attract enough customers”. (Edgar 2005: 298)

In sintesi, il thatcherismo è riuscito ad espandere il dominio del mercato fino al mondo delle arti, incluso il teatro. Ora, anche il palcoscenico deve obbedire al dogma per il quale ‘il cliente ha sempre ragione’ e, allo stesso modo, la dittatura del cliente costringe il teatro a soddisfare i suoi gusti.

Gli effetti di questa commercializzazione sono evidenziati anche da Ulrich Broich. Nello specifico, il taglio dei sussidi al teatro negli anni Ottanta rischia di attribuirgli un’identità puramente commerciale: il pubblico diventa un cliente, lo spettacolo una merce. La riduzione delle sovvenzioni pubbliche porta con sé, inoltre, il pericolo di un’ingerenza pericolosa dei finanziamenti privati. Ma le conseguenze, come spiega lo studioso, sono comunque disastrose: « […] in the early 1980s the Royal Shakespeare Company had to reduce the number of new plays put on every year, and the National Theatre had to close down the Cottesloe for a considerable time. Cuts for the smaller theatres, however, were even more severe, and many fringe groups actually folded» (Broich 2001: 208). Così, visto che nemmeno le maggiori compagnie possono correre rischi al botteghino, la scelta più prudente è ricorrere al repertorio dei classici. Di conseguenza, la drammaturgia contemporanea (in inglese, new writing) non trova patrocinatori disposti ad affiancarla e sostenerla economicamente. Ed entra in crisi. Sono in molti a riconoscere questo stato di decadenza; soprattutto i registi, come testimonia David Edgar: «[there is] a growing belief, among in particular, that new work ha[s] run out of steam» (Sierz 2012: 54); parole che, all’inizio del decennio, trovano conferma in quelle del critico Michael Billington: «new writing for theatre is in a state of crisis» (ivi, 55). Il teatro inglese a cavallo degli

6Incerta la paternità della citazione. Ravenhill si limita a spiegare che essa è stata pronunciata da un membro

della nuova generazione di drammaturghi degli anni Novanta.

7Come affermato dal primo ministro stesso, «[e]conomics are the method; the object is to change the heart and

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10 anni Novanta rimane, così come lo definisce Billington, un «museo di polvere» (Saunders 2002: 2): invecchiato e conservatore. La sua vetustà non comprende solo la materia messa in scena dalle opere, ma anche quel «mare di capelli grigi» (Broich 2001: 209)8 che è il suo pubblico. Ma un vento di cambiamento sta per spazzare via la polvere.

La primavera artistica che caratterizza la seconda metà degli anni Novantaè la risposta da parte di compagnie teatrali, registi e, soprattutto, di giovani scrittori alla crisi che da tempo inibisce il new writing. Un gruppo di drammaturghi fa la sua prima comparsa sulla scena culturale inglese e comincia a sperimentare con la forma grazie ad alcuni palcoscenici minori di Londra, Edimburgo e Glasgow, che inaugurano stagioni teatrali dedicate alla creazione e alla messa in scena di opere nuove. Benedict Nightingale spiega che ciascuno degli scrittori della nuova generazione «has a distinctive voice, although behind the diversity there are similarities of style and content. Together they express the feelings of a generation formed by the 1980s» (D’Monté – Saunders 2008: 82). Sulla stessa linea, Aleks Sierz ricostruisce in questo modo il contesto socio-culturale in cui sono cresciuti i cosiddetti ‘figli della Thatcher’:

[i]magine being born in 1970. You’re nine years old when Margaret Thatcher comes to power; for the next eighteen years – just as you’re growing up intellectually and emotionally – the only people you see in power in Britain are Tories. Nothing changes; politics stagnate. Then, some time in the late eighties, you discover Ecstasy and dance culture. Sexually, you’re less hung up about differences between gays and straights than your older brothers and sisters. You also realize that if you want to protest, or make music, shoot a film or put on an exhibition, you have to do it yourself. In 1989, the Berlin Wall falls and the old ideological certainties disappear into the dustbin of history. And you’re still not even twenty. In the nineties, media images of Iraq, Bosnia and Rwanda haunt your mind. Political idealism – you remember Tiananmen Square and know people who are roads protesters – is mixed with cynicism – your friends don’t vote and you think all politicians are corrupt. This is the world you write about. (Sierz 2001a: 237)

Grazie a questa generazione disorientata, cresciuta nel tempo delle incertezze, e alla sua forza creativa il teatro inglese degli anni Novanta si salverà dal baratro.

Quando si parla di new writing, si intende un genere di opere nuove di solito scritte da giovani autori all’inizio della loro carriera (Sierz 2011: 47). È un tipo di scrittura legato alla grande tradizione teatrale inglese basata sul testo e che pone l’autore al centro del processo creativo. La voce dello scrittore, quindi, è immediatamente riconoscibile. Come ha spiegato Tim Fountain, lo stile del new writing esalta la capacità dello scrittore nell’esprimere con efficacia e originalità il proprio pensiero (ivi, 49). Ai registi, invece, spetta il compito di inscenare le opere rispettando la visione del loro creatore (ivi, 50). Adottando come fulcro il testo e ponendo lo scrittore al centro del processo creativo, la nuova drammaturgia si distanzia da altre forme teatrali, come il teatro fisico (“physical theatre”),

8Qui, Broich cita le parole di Mark Ravenhill durante un’intervista: «when you look through the curtain, you

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11 che pone l’accento sull’aspetto visuale; il devised theatre, che in italiano corrisponde alla ‘scrittura scenica’; gli adattamenti di libri o film, dove l’intreccio e il dialogo dipendono dalla fonte originale e, infine, il verbatim theatre, dove i dialoghi sono tratti dalle parole di persone reali (ibid.).

Negli anni Novanta, il new writing sfoggia soprattutto un linguaggio molto personale e contemporaneo nel suo uso. Allo scopo di simulare i dialoghi quotidiani, infatti, la nuova drammaturgia ricorre spesso allo slang della strada, esprimendosi attraverso battute veloci e dal tono pungente (ivi, 51). Come spiega Sierz, «rawness, directness and punchy brevity are valued more than rhetorical speechifying or literary extravagance» (ibid.). Grazie a questa sua peculiarità, il new writing può rivolgersi a un pubblico più giovane poiché, come segnalato dagli studenti di Broich al loro professore, «these plays speak our language» (Broich 2001: 210). Dal momento che il teatro non è più soggetto a censura9, la nuova drammaturgia si distingue per la natura provocatoria, talvolta

estrema, dei suoi contenuti. Negli anni Novanta, infatti, questi possono essere espressi in totale libertà, come testimonia Dominic Dromgoole, direttore artistico del Bush Theatre: «in the nineties […] [t]here were no ideologies, no rules, no “taste” – writers were free to follow their imagination» (Sierz 2001a: 37).

Come già si è accennato, la rinascenza del teatro inglese in questo decennio è il prodotto di una sinergia tra scrittori, direttori artistici e alcuni organismi finanziatori come l’Arts Council e il London Arts Board (Sierz 2001a: 37). Inoltre, ad accogliere la nuova drammaturgia vi è una costellazione di palcoscenici specializzati nel new writing, attivi già da molto tempo prima della sua rinascita a metà degli anni Novanta, sia dentro che fuori Londra. Ecco i maggiori palchi londinesi, finanziati dallo Stato: Royal Court, Bush, Hampstead, Soho. A questi se ne aggiungono due che si trovano fuori dalla capitale: il Traverse di Edimburgo e il Live Theatre di Newcastle upon Tyne; altri spazi indipendenti sono il Finborough, il King’s Head e l’Old Red Lion; infine, non meno importanti, alcune compagnie itineranti tra cui Out of Joint e Plaines Plough (Sierz 2012: 54).

Il fulcro del rinnovamento non poteva essere che il Royal Court, il teatro della messa in scena di Look Back in Anger (1956) di John Osborne; la culla degli angry young men e della loro lotta sociale sul palco, portata avanti con Saved (1965) di Edward Bond, e il cui spirito sarebbe sopravvissuto nell’opera quintessenziale degli anni Novanta: Blasted (1995) di Sarah Kane (Iball 2008: 12-3). Ma, come spiegato da Sierz, all’inizio del decennio, il teatro diretto da Max Stafford-Clark è ostacolato dai tagli alle sue sovvenzioni. Così, il progetto passa inizialmente nelle mani del Bush, un teatro di circa cento posti situato nell’ovest di Londra. Dromgoole, che ne ha appena assunto la direzione, riconosce fin da subito che l’unico modo per rivitalizzare il new writing è «celebrare la diversità»

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12 (Sierz 2001a: 37). Con questo presupposto si inaugura la politica innovativa del Bush Theatre, con la messa in scena di almeno dieci opere nuove ogni anno (ibid.). Anche il direttore del Traverse, Ian Brown, condivide lo stesso entusiasmo di Dromgoole «[for] a new writing culture which was unfettered by ideology or mainstream tastes» (D’Monté – Saunders 2008: 42). Autodefinitosi un «risk-taker», coltiva il suo progetto con un duplice scopo: lo sviluppo di un teatro prettamente scozzese in quanto a materia trattata e origine degli attori e, al contempo, la ricerca dei migliori scrittori a livello internazionale (Sierz 2001a: 39).

Tra i primi sintomi del rinnovamento va annoverata la prima di The Pitchfork Disney (1991) di Philip Ridley al Bush Theatre. L’opera di Ridley, un autore «fascinated by the simultaneous attraction and repulsion of the gross and the grotesque» (ivi, 40-1), si apre con l’immagine abietta di un attore che vomita (un’ouverture simile a quella di Shopping and Fucking (1996) di Ravenhill) e sorprende il pubblico mettendo in mostra «sexy young men […] eating cockroaches and breaking fingers […], a boy stabbed through the neck, […] a snake being fried alive, […] a penis scraping along the tarmac, […] excrement “like brown worms”» (Sierz 2001a: 40). Secondo Dromgoole, l’opera è il segnale che sta nascendo una nuova sensibilità, ed è una delle prime testimonianze dell’inedito percorso intrapreso dalla nuova drammaturgia (Sierz 2012: 55).

L’anno seguente, uno dei maggiori protagonisti di questa stagione assume l’incarico di direttore artistico del Royal Court Theatre: Stephen Daldry. Fin da subito, come altri all’inizio del decennio, Daldry avverte la crisi che sta affliggendo il teatro inglese. La sua carriera comincia con queste parole: «why is [the Court’s] audience so fucking middle-aged? We are not telling the right stories». E unendosi agli altri direttori artistici nella missione per ridar vita al palcoscenico, sa cosa occorre fare: «we have to listen to the kids» (D’Monté – Saunders 2008: 42)10. Il Royal Court, quindi, raddoppia

il numero di produzioni nello spazio Upstairs, la sua sala minore di appena sessanta posti, e si concentra esclusivamente su scrittori più giovani. Grazie alla determinazionedi Daldry, il Court mette in scena quasi venti produzioni all’anno e porta sui suoi due palcoscenici circa quaranta scrittori esordienti (Sierz 2001a: 38) contribuendo così a trasformare, nel giro di pochi anni, la realtà precaria del teatro inglese, figlio della crisi economica e di un ventennio di politiche conservatrici: «new plays become events and producing new writing is no longer deemed risky» (D’Monté – Saunders 2008: 42). Così, grazie agli sforzi combinati nel sostegno alla nuova drammaturgia, il teatro inglese ritorna alla sua antica gloria.

Le prove di questa rinascita, come dimostrano le percentuali fornite da Edgar, sono concrete:

10Nella nota 9 del suo capitolo Cruel Britannia, Ken Urban spiega che queste parole di Daldry vennero citate

nel gennaio 1993 dal quotidiano londinese Evening Standard; egli aggiunge: «it is unclear if Daldry ever said exactly that, but he carried such sentiments into his time at the Court» (D’Monté – Saunders 2008: 54).

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13 up from the single figure percentages of the late 1980s, new work averaged nearly 20 per cent of the repertoire of building based theatres between 1993 and 1997. Further, its box-office performance – below 50 per cent in the late 1980s – rose to 52 per cent in 1993-4 and thence to 55 per cent in 1996-7, outperforming classics and the post-war repertoire and within a percentage point of Shakespeare. (Edgar 2005: 300)

Protagonista di questa rinascita è lo scrittore, che torna ad occupare il ruolo centrale all’interno del processo teatrale.

Se anche il teatro inglese diventa cool, assorbito nella spirale di ottimismo di Cool Britannia, all’interno della nuova generazione di scrittori si distingue però un esiguo gruppo di artisti che, approfittando delle libertà concesse dal palcoscenico, esplora ancora più a fondo il mondo che lo circonda. Essi costituiscono un’eccezione all’interno della nuova generazione di drammaturghi a causa del loro linguaggio ancora più estremo e provocatorio. Ancora più sfacciati, aggressivi e antagonisti, essi sono l’avanguardia di una nuova estetica che, come dichiara Sierz, «[not only] opened up new possibilities for British drama […] [but also] saved British theatre» (Sierz 2001a: xii). Da metà anni Novanta fino alla fine del decennio, malgrado la loro riluttanza verso le etichette, questi young savages (Broich 2001: 210)11e le loro opere sono meglio conosciuti sotto il marchio

‘In-Yer-Face Theatre’.

‘In-Yer-Face Theatre: British Drama Today’

L’ideatore dell’espressione ‘in-yer-face theatre’ è Aleks Sierz, autore del primo studio monografico di rilievo sul momento più intenso della rinascita culturale del teatro inglese. Il fenomeno, naturalmente, è stato analizzato anche da altri studiosi. Ulrich Broich, ad esempio, ha condotto un’analisi parallela a quella di Sierz dall’eloquente titolo ‘A Theatre of Blood and Sperm’. Eppure, l’opera di Sierz rimane d’importanza primaria perché segue da vicino il nascere, l’evolversi e il chiudersi di un’estetica, avvalendosi di interviste vis-à-vis con i maggiori protagonisti di questa stagione artistica. Come egli spiega, il suo studio

is not just a literary critique of a body of writing, but a series of frontline reports about what was happening on the public stage. It is mainly concerned with conveying what play are like when you see them in performance, what it feels like to see a whole rash of new work, how the shock

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14 of the new is discussed and how meaning is created from the experience of theatregoing. (Sierz 2001a: xi)

In particolare, l’espressione usata da Sierz, il cui approccio è senz’altro legato alla sua esperienza di critico teatrale per il Tribune, descrive il rapporto che lega palco e platea durante una rappresentazione. Naturalmente, come egli afferma, «all theatre has designs on the feelings of its audience» (ivi, xiii), ma «what characterize[s] in-yer-face theatre [is] its intensity, its deliberate relentlessness and its ruthless commitment to extremes» (ibid.). In questo modo, la carica emotiva della materia messa in scena coinvolge lo spettatore e lo esorta a rispondere.

Nell’introduzione al suo studio, il critico offre un resoconto del termine ‘in-your-face’. L’espressione è un prestito dal lessico del giornalismo sportivo americano degli anni Settanta e già allora indicava un comportamento sfacciato e provocatorio. Il lemma sul New Oxford English Dictionary recita: «apertamente aggressivo o provocatorio, impossibile da ignorare o evitare» (ivi, 4). L’espressione designa, quindi, l’essere costretti ad assistere a qualcosa a distanza molto ravvicinata (ibid.). Quando si assiste ad uno spettacolo del teatro in-yer-face, infatti, dal momento che palco e pubblico sono molto vicini, si ha come la sensazione di partecipare attivamente alle vicende messe in scena; di qui, la sua essenza di teatro esperienziale.

Come si riconosce un’opera in-yer-face?

The language is usually filthy, characters talk about unmentionable subjects, take their clothes off, have sex, humiliate each another, experience unpleasant emotions, become suddenly violent. At its best, this kind of theatre is so powerful, so visceral, that it forces audiences to react: either they feel like fleeing the building or they are suddenly convinced that it is the best thing they have ever seen, and want all their friends to see it too. (ivi, 5)

L’elemento che distingue questo marchio da altri, quali New Brutalism, New-Jacobeanism, o Theatre of Urban Ennui12 (Sierz 2001b: 18), è soprattutto la relazione che un’opera intrattiene con il pubblico.

La messa in scena di situazioni psicologicamente ed emotivamente estreme intrappola lo spettatore negli spazi ristretti in cui hanno luogo le rappresentazioni. Queste, infatti, avvengono all’interno di sale minori dove si possono sedere non più di cinquanta o ottanta persone (come, ad esempio, i già citati Royal Court Upstairs e Bush Theatre). L’effetto che ne deriva è una violazione del proprio spazio personale: portare sul palco l’irrappresentabile attraverso un linguaggio sprezzante di ogni codice morale colpisce letteralmente lo spettatore con uno schiaffo “in faccia”. Per avere un’idea, a metà anni Novanta, la firma del Guardian Tom Morris dichiara: «watching the cruellest of these plays

12Cfr. anche ‘Bratpack’, ‘smack and spunk theatre’, ‘cool theatre’ (quest’ultima denominazione, spiega Edgar,

«on the basis of an interesting mistranslation of the essay title ‘Theatre in a Cool Climate’» (Edgar 2005: 300) a cura di Colin Chambers and Vera Gottlieb, Oxford: Amber Lane Press, 1999).

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15 in a small studio theatre is like watching a simulated rape in your own living room» (Saunders 2002: 5).

L’istanza sperimentatrice di questo tipo di teatro porta i suoi autori a ricercare nuove forme, lontano dal consueto stile di rappresentazione naturalistico. Così, come illustrato da Sierz,

if a well-made play has to have a good plot, much provocative drama prefers to have a strong sense of experiential confrontation; if a well-made play has to have complex characters, much new drama has types rather than individuals; if a well-made play has to have long theatrical speeches, nineties drama usually has curt televisual dialogue; if a well-made play must have a naturalistic context, in-yer-face drama often creates worlds beyond mere realism; if a good well-made play has to have moral ambiguity, in-yer-face drama often prefers unresolved contradictions. (Sierz 2001a: 243-4)

Analizzando la struttura di certe opere del “teatro di sangue e sperma”, Broich spiega che, di solito, queste tendono a mantenere l’unità spaziale, e che alcune (si pensi a Blasted) si svolgono interamente all’interno di una stanza. Secondo lo studioso, questa scelta ricorda gli squallidi salotti inscenati da Look Back in Anger in poi, nettamente in contrasto con i «fashionable drawing-room of the so-called well-made play» (Broich 2001: 214). Inoltre, Broich sottolinea che lo spazio ristretto del setting, come anche il numero esiguo di personaggi di un’opera, sono le costanti di un “teatro povero” (Poor Theatre, secondo il termine coniato dal regista contemporaneo Jerzy Grotowski), «a reaction to the fact that British theatre in the post-Thatcher period can only afford low-budget productions» (ibid.). Dunque, se il critico del Tribune percepisce un alto grado di sperimentazione per quanto riguarda il linguaggio, la forma e la struttura, lo studioso tedesco, invece, soffermandosi principalmente sull’unità aristotelica dello spazio, non avverte alcuna particolare rivoluzione.

La componente comune a molte opere di questa estetica è la volontà di scioccare. Sierz spiega che lo shock è il mezzo attraverso cui il teatro sperimenta con se stesso: «the use of shock is part of a search for deeper meaning, part of a rediscovery of theatrical possibility – an attempt by writers to see how far they can go» (Sierz 2001a: 5); e, allo stesso tempo, mette alla prova lo spettatore: «[it] forces us to look at ideas and feelings we would normally avoid because they are too painful, too frightening, too unpleasant […] [and because] they remind us of the awful things human beings are capable of» (ivi, 6). Di fronte ai contenuti di alcune opere, anche Broich deve ammettere il proprio turbamento; non a caso, tra gli esempi più sconcertanti, questi menziona gli episodi di cannibalismo, stupro e tortura di ogni genere, rappresentati nelle prime tre opere di Sarah Kane, «the most shocking of the “young savages”» (Broich 2001: 213).

Tuttavia non si può ridurre l’estetica in-yer-face solo a una serie di tattiche perturbanti: benché l’uso di immagini estreme possa avere effetti traumatici, il campo d’azione prediletto dal teatro in-yer-face resta quello delle emozioni. Infatti, proprio come nel teatro greco, si scatenano sentimenti

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16 profondi affinché il pubblico possa farne esperienza e controllare tali pulsioni anche nella vita reale. Per dirla con Kane: «it is crucial to commit to memory events we haven’t experienced – in order to avoid them happening. I’d risk overdose in the theatre rather than in life» (Sierz 2001a: 111).

In-yer-face è anche il tipo di approccio con cui la new wave di giovani scrittori si rapporta col mondo, raccontando sul palco le forze oscure che dominano la contemporaneità e le atrocità che proprio in quegli anni stanno avvenendo fuori dal teatro. Cresciuta sotto la Thatcher, questa generazione ripudia il «consumismo capitalista, l’ineguaglianza sociale, la discriminazione sessuale, la violenza […] [,] la guerra» (D’Monté – Saunders 2008: 25-6) e reagisce contro il dettame thatcheriano per cui «there is no such thing as society» (Sierz 2001a: 237). Tuttavia, sarebbe erroneo definire politico il dramma in-yer-face. Se, come infatti afferma David Edgar, le opere politiche devono auspicare una possibilità di cambiamento, Billington spiega che nell’età post-ideologica anche i capolavori teatrali più famosi lasciano trasparire soltanto una flebile speranza che ciò possa avvenire (ivi, 240). A comprovare questa tesi, basti come esempio l’etica cupa che avvolge la storia di Shopping and Fucking, per la quale «money is civilisation» (Ravenhill 2001: 87). Così, la drammaturgia in-yer-face si lascia alle spalle i grandi progetti politici e sociali del passato per rivolgersi verso la realtà sempre più frammentata dei suoi giorni; affronta le tematiche cruciali del suo tempo attraverso il racconto di ‘piccole storie’ individuali; abbandona lo sguardo sul malessere pubblico e si concentra piuttosto sul dolore privato dei suoi personaggi (Sierz 2001a: 241).

Del resto il racconto di micro-narratives, come sottolineato da Max Stafford-Clark, deriva dal collasso delle grandi ideologie dopo la caduta del muro di Berlino. Molte opere degli anni Novanta prediligono le storie personali (D’Monté – Saunders 2008: 3) rispetto a quelli che Lyotard ha definito le ‘grandi narrazioni’ (inglese: “grand narratives”). Tale scelta è sintetizzata nelle parole di Robbie, uno dei personaggi di Ravenhill in Shopping and Fucking:

[w]e all need stories, we make up stories so that we can get by. And I think a long time ago there were big stories. Stories so big you could live your whole life in them. The Powerful Hands of the Gods and Fate. The Journey to Enlightenment. The March of Socialism. But they all died or the world grew up or grew senile or forgot them, so now we’re all making up our own stories. Little stories. (Ravenhill 2001: 66)

Come però avverte Saunders, «British political theatre has always relied on personal stories» (D’Monté – Saunders 2008: 4). L’esplorazione di relazioni personali e domestiche, infatti, apparteneva già a opere politiche dei decenni precedenti. Piuttosto, il teatro degli anni Novanta si impossessa del mantra «the personal is the political» (ibid.) degli anni Ottanta, esasperandolo. La sensibilità politica di questo decennio, diversamente dalle correnti che l’hanno preceduta, non abbraccia alcuna ideologia. A tal proposito, Ravenhill racconta in un articolo sul Guardian l’esperienza di un incontro con altri scrittori di teatro provenienti da tutta Europa, avente come tema

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17 all’ordine del giorno il new writing. Dopo un meeting di tre giorni, l’autore comprende che «everywhere – from former Communists countries to lifelong market economies – there has been a rejection of ideology» (Guardian, 11.6.97). Un concetto che l’attrice danese Line Knutzon, una dei partecipanti, riassume così: «everyone used to ask “are you a Marxist?” or “are you a feminist? but now we say “who cares? I’m just a human being”» (ibid.).

La scelta (o non-scelta) dei nuovi scrittori di raccontare la propria storia ha quindi un certo limite: le storie personali sono materiale a combustione rapida. Eppure, ogni epoca ha sempre qualcosa che valga la pena di essere raccontato. E questo vale anche per quei tempi in cui le ideologie sono crollate e quando la Storia sembra giunta alla fine del suo percorso: vale anche per i frammentati anni Novanta. Tutt’al più, taglia corto Ravenhill, «the goal now is to find a way of writing bigger plays without the safety net of ideology. It’s a big challenge but an exciting one» (ibid.).

Tra le varie storie di sesso, droga e violenza del teatro in-yer-face, si è individuato un argomento comune, politico certamente, ma privo di connotazioni ideologiche: la mascolinità. Edgar, infatti, spiega che «male or female, gay or straight, the plays of the mid-to late 1990s addressed masculinity and its discontents as demonstrably as the plays of the early 1960s addressed class and those of the 1970s the failures of social democracy» (Edgar 2005: 300-1). Inoltre, «insofar as masculinity touches on economic, cultural and social issues – most particularly violence and militarism – it is a political subject» (ibid.). Allo stesso modo, anche gli anni Ottanta si sono distinti per aver celebrato la svolta femminista e aver dato voce ai subalterni attraverso una fioritura del gay e del black drama. Quindi, forse a causa della recente emancipazione della donna oppure, a detta di Sierz, per ragioni sociali più complesse, gli anni Novanta scoprono il proprio tema nel progressivo declino del ruolo maschile nella società:

[i]n the ’nineties, for complex social reasons, it became impossible to avoid the idea that traditional ideas about maleness were in trouble. Writers obsessively and probably unconsciously returned time and time again to stories which are not about the family, but about boys. And, in contradistinction from the feminist plays of the ’eighties, artistic directors chose plays that had a laddish nature: all-male casts became common and the theme of violent and homo-erotic male relationships unavoidable. (Sierz 2001b: 21)

Non a caso, anche Broich osserva che il carattere maschile delle opere del ‘teatro di sangue e sperma’ deriva soprattutto dal sesso di coloro che infliggono violenza (Broich 2001: 213). La violenza maschile e il binomio personale-politico sono presenti anche in Blasted di Sarah Kane, dove la relazione intima tra una ragazza e un uomo adulto culmina in uno stupro, al seguito del quale l’originaria stanza d’albergo inglese si trasforma in uno scenario di guerra riferibile al conflitto in ex Jugoslavia (Edgar 2005: 301).

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18 Edgar suggerisce inoltre che l’anima politica delle opere di questo decennio si manifesta anche al di là della crisi della mascolinità. Per comprovare questa testi, egli menziona due opere di Ravenhill, affermando

[b]ecause Mark Ravenhill writes about a generation which can’t see beyond next Tuesday or back last weekend, it doesn’t mean he likes it. Shopping and Fucking is (among other things) an elegy for lost political certainties. In Some Explicit Polaroids, an AIDS victim who is refusing to take the medication which will save his life, admits: “I want communists and apartheid. I want the finger on the nuclear trigger. I want the gay plague … I want to know where I am”. (Ravenhill 2001: 288, cit. in Edgar 2005: 301)

Le parole di Tim sono un altro esempio di come il dolore personale possa avere risonanza politica: alla scelta individuale e volontaria di rifiutare le cure per poter sopravvivere, corrisponde il desiderio di sapere quale posto ci spetti in questo mondo; l’eco politica della preghiera di Tim, varcando la soglia dello spazio privato del suo letto d’ospedale, prova che quanto asserito da Sierz è vero: «that personal [is] political, that small stories [can] resonate as widely as grand narratives» (Sierz 2001a: 241).

Sul palco, la crisi della mascolinità può assumere diverse forme. Principalmente, i protagonisti di questo teatro definito da Sierz «of new laddism» (Sierz 2001b: 20), sono giovani turbolenti che vivono nel mondo contemporaneo senza la protezione familiare. La mancanza di un padre, reale o simbolico, è infatti un tema ricorrente soprattutto nelle opere degli anni Novanta di Ravenhill. Ad esempio, una delle microstorie che compongono Shopping and Fucking riguarda la ricerca di una figura paterna da parte di Gary. Questi è un rent boy quattordicenne ripetutamente abusato dal patrigno, incapace di distinguere una figura protettiva da una violenta. Avendo sempre avuto come unico esempio la seconda, Gary confonde il bisogno di essere amato con quello di essere brutalmente posseduto: «I’m not after love. I want to be owned. I want someone to look after me. And I want him to fuck me. Really fuck me. […] And, yeah, it’ll hurt. But a good hurt» (Ravenhill 2001: 56). Di questa crisi interna al genere maschile sono epitome una lunga serie di protagonisti delle opere di Ravenhill. Sempre in Shopping and Fucking, l’attacco omofobo di Lulu rivolto a Robbie, «boys grow up you know and stop playing with each other’s willies» (Ravenhill 2001: 39), è una ribellione contro i suoi compagni maschi incapaci di assumersi le loro responsabilità: in tal caso, la ‘crisi della mascolinità’ si manifesta nel momento in cui l’unico personaggio femminile dell’opera è costretto a prendere il controllo perché il gruppo vada avanti.

Il tema in questione attraversa anche le opere di Sarah Kane. In particolare, la mascolinità ammorbata di Ian (Blasted) e Hippolytus (Phaedra’s Love) li porta ad adottare una visione nichilista della vita. Il primo, che non vede l’ora che il gin e le sigarette finiscano il lavoro iniziato da un cancro in fase terminale, tenta diverse volte di possedere una ragazza con la metà dei suoi anni finché riesce

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19 a violentarla. Il secondo, un giovane debosciato, passa le giornate davanti al televisore consumando cibo-spazzatura e masturbandosi (così nelle note di palcoscenico) «without a flicker of pleasure» (Kane 2001: 65). La noia lo spinge all’incesto con la matrigna e la sorellastra. Come afferma Saunders, il sesso, per questi personaggi, è «sia punizione contro le donne che espressione del profondo disgusto che hanno per se stessi» (Saunders 2002: 31). Traendo spunto dal mondo che la circonda, Kane asserisce inoltre che la manipolazione e l’abuso nelle relazioni, sia maschili che femminili, sono un «sintomo delle società costruite sulla violenza o sulla minaccia di violenza, e non la causa» (ivi, 30). I suoi protagonisti maschili sono consumati dal forte desiderio di essere amati. La loro fragilità si rivela nel costante oscillare da una passione ossessiva a un repentino impulso a distruggere. Così Ian, mentre si accanisce contro il fratello di Cate: «spazz […] retard […] a Joey», per poi, subito dopo: «you know I love you. […] Don’t want you ever to leave» (Kane 2001: 5); Tinker, in Cleansed, supplica Woman/Grace: «can we be friends? […] I’ll be anything you need […] I won’t turn away from you» (ivi, 122), per poi esplodere: «don’t waste my fucking time […] OPEN YOUR FUCKING LEGS» (ivi, 137); e così l’altrettanto ambivalente A, personaggio archetipo di Crave che, dopo aver abusato della ragazzina C, improvvisa per lei un lungo monologo d’amore (ivi, 169-70). In Kane, man a mano che la sua opera si evolve, i confini delle emozioni umane diventano sempre più estremi e contrastanti fra di loro: «love me or kill me» (ivi, 120), come recita una battuta di Cleansed13.

La ‘crisi della mascolinità’ è certamente una chiave di lettura utile, in quanto contribuisce ad individuare una caratteristica comune all’interno del fenomeno in-yer-face. Naturalmente, dal momento che in letteratura esistono sempre eccezioni, questa non deve essere la sola e unica. Gli autori stessi respingono qualsiasi interpretazione univoca delle loro opere. Ravenhill, ad esempio, è fortemente critico nei confronti del tema ‘crisi della mascolinità’, poiché in esso vede una moda «which seemed to be a reductive process, whereby an “injection of testosterone and we’ll be ok again”» (Saunders 2002: 29). Allo stesso modo, Kane rifiuta una lettura in chiave di gender:

[m]y only responsibility as a writer is to the truth, however unpleasant that may be. I have no responsibility as a woman writer because I don’t believe there’s such a thing. When people talk about me as a writer, that’s what I am, and that’s how I want my work to be judged – on its quality, not on the basis of my age, gender, class, sexuality or race. (ivi, 30)

In effetti, la complessità di Ian o Hippolytus non può essere analizzata attraverso una lente unidimensionale. Benché il nichilismo sia un elemento comune ai due personaggi, il primo subisce un violento processo di trasformazione: da autore dello stupro di Cate a vittima delle atrocità inflitte

13La battuta di Cleansed è tratta a sua volta dalla tragedia di John Ford ‘Tis Pity She’s a Whore (1633) che,

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20 a lui dal soldato. Il sipario di Blasted si chiude lasciando filtrare un ultimo filo di luce a illuminare le sciagure umane: «thank you» (Kane 2001: 61). Il secondo, invece, va incontro alla morte per non tradire il senso di onestà col quale ha sempre vissuto, l’unico dio che abbia mai adorato: «I’ve lived by honesty let me die by it» (ivi, 95).

Concludendo, l’interesse con cui le nuove opere sono accolte sia dai critici che dagli spettatori smentisce la presunta morte del teatro inglese degli anni Novanta. La nuova drammaturgia mette fine a un ciclo vizioso di «adaptations, twentieth-century warhorses and […] sure-fire classical pops» (Edgar 2005: 300). Il teatro diventa così in una colonna portante di ‘Cool Britannia’. Ancora più rilevante: il new writing risveglia la sua l’anima ribelle14, lo spirito provocatorio nato con gli Angry

Young Men negli anni Cinquanta. Benché la portata del fenomeno dilaghi ben presto in tutta la Gran Bretagna, l’epicentro di questo sisma rimane Sloane Square. Al Royal Court Theatre, grazie alla sfida lanciata da Stephen Daldry, tra 1994 e 1995 vengono messe da parte le riprese di classici e si inaugura, non senza timori, una stagione all’insegna della drammaturgia contemporanea. E il clamore suscitato dal debutto di Blasted conferma che il Royal Court ha intrapreso la via giusta. Come racconta Sierz, «Daldry realized that he’d found a new role […]. The noise of controversy told him that provocation was the right method: as well as bringing in new audiences, it renewed his sense of identity. As the Court rediscovered its roots as a controversial theatre, Daldry became the impresario of in-yer-face drama» (Sierz 2001a: 235).

Come si cercherà di spiegare nei prossimi paragrafi (e ancora più approfonditamente nel secondo capitolo), Blasted coglie impreparata la maggior parte degli spettatori; soprattutto la critica. Dopo quella notte, la firma di Sarah Kane avrebbe condizionato il giudizio oggettivo verso le sue opere successive. Blasted non ha soltanto introdotto una nuova sensibilità, cambiando per sempre il modo di vivere il teatro, ma ha anche spianato la strada ad altri capolavori di questa primavera artistica degli anni Novanta inglesi. Dalla rivoluzione iniziata con Blasted, infatti, avrebbe tratto giovamento soprattutto un’opera come Shopping and Fucking di Mark Ravenhill.

14«The conceptual problem with much discussion of arts policy in Britain is that it sees the debate as essentially

binary. […] [T]he patrician principles of high art: art’s role as ennobling, its realm the nation, its organisational form the institution, its repertoire the established canon and works aspiring to join it; […] the populist approach: art’s primary purpose is entertainment, its realm the market-place, its form the business, its audience mass. Whereas, from the mid-1950s onwards, both of these principles were under challenge from a third, which I defined the provocative (both in content and form)» (Edgar 2005: 298).

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Sarah Kane

Quando si parla di in-yer-face theatre, il primo nome che salta alla mente è quello di Sarah Kane. L’autrice di Blasted è forse la più grande protagonista della nuova stagione culturale. Non serve illustrare nel dettaglio la vita dell’autrice15; basti pensare che, a soli ventitré anni, l’irruzione violenta

di Kane sul palcoscenico inglese ne trasforma per sempre la funzione. Dopo la morte, il suo nome verrà citato a fianco dei più grandi maestri del mondo teatrale, sia in Europa che fuori dal continente. Durante il periodo della sua formazione, le esperienze di Kane riguardano soprattutto la recitazione e la direzione di alcune opere (Saunders 2009: 88), nonché la scrittura di tre monologhi di venti minuti ciascuno, intitolati Comic Monologue, Starved e What She Said. Fin dall’inizio, Kane vuole scrivere: stare al centro del processo creativo le garantisce la libertà necessaria per scoprire metodi sempre nuovi di rappresentazione: «as a writer, I wanted to do things that hadn’t been done, to invent new modes of representation» (Saunders 2009: 98). Il suo lavoro è influenzato da grandissimi autori sia del passato (Shakespeare, Kafka, Eliot, Brecht, Beckett, Büchner, Ibsen) sia contemporanei (Edward Bond, Howard Barker, Martin Crimp) (ivi, 38-49). Il suo repertorio tematico tratta argomenti universali come l’amore, la violenza, la sofferenza psichica e la morte, attingendo da una miriade di mondi diversi: dal calcio alla guerra, dal campo di concentramento all’ospedale psichiatrico. Soprattutto, il teatro di Kane si allontana dai dettami della rappresentazione realistico-naturalistica; già con Blasted, «[Kane] took a three act structure and literally blew it apart. There is a bomb – it blows apart and we move from socio-realism to surrealism, to expressionism» (Saunders 2002: 40). In conformità all’evolversi del suo teatro, il naturalismo viene inevitabilmente abbandonato poiché inadatto a illustrare la geografia astratta delle sue opere: un processo che accomuna l’intero corpus kaneiano, e che trova la massima realizzazione in Crave e 4.48 Psychosis, le sue due ultime opere.

Tra i momenti che più ispirano la sua scrittura, Kane ricorda l’edizione del 1992 del festival di Edimburgo. Lì assiste a Mad, un’opera del Grassmarket Project realizzata da Jeremy Weller con attori professionisti e non affetti da patologie psichiche. Quello spettacolo aiuta l’autrice a scegliere il tipo di teatro che vuole scrivere: «it [Mad] was a very unusual piece of theatre because it was totally experiential [enfasi mia] as opposed to speculatory […]. Mad took me to hell, and the night I saw it I made a decision about the kind of theatre I wanted to make - experiential» (Saunders 2009: 47).

Tre anni dopo, Kane mette alla prova i frutti della sua scelta.

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Blasted

Il debutto di Blasted al Royal Court Theatre Upstairs, il 12 gennaio 1995, costituisce uno spartiacque nella cultura teatrale inglese. L’analisi in questo capitolo riguarderà solo gli elementi che ne fanno un’opera fondamentale dell’estetica in-yer-face, mentre il secondo capitolo sarà interamente consacrato a una storia critica dell’opera.

La sera della prima provoca uno scandalo generale. Prima di accedere alla sala del piano superiore del Royal Court, un cartello avverte il pubblico che lo spettacolo potrebbe contenere immagini forti: «for once», commenta Sierz, «this routine warning was justified» (Sierz 2001a: 93). Kane ricorda che, allora, persino la direzione era preoccupata per alcune scene di Blasted, tanto da programmarne la rappresentazione nel periodo immediatamente successivo alle vacanze natalizie, sperando che l’affluenza allo spettacolo fosse minima. Ma non andò così; e nemmeno si aspettava che il pubblico fosse composto quasi esclusivamente da critici: «I looked around and realized that the director was near the front and almost everyone else was a critic. I think there were about three women in the audience; everyone else was a middle-aged, white, middle-class man» (Saunders 2009: 51-2).

La critica, non accettando la forma anti-naturalistica di Blasted, giudica l’opera «incoherent and its message […] lost in unrealistic plotting» (Sierz 2001a: 95-6). A metà dell’intreccio, infatti, una bomba esplode alterandone le coordinate spazio-temporali: il setting viene trasportato da Leeds in uno scenario di guerra non identificato e la cornice temporale si scardina, per cui una scena iniziata in primavera, termina in estate (Kane 2001: x). Per questo motivo, Billington ha commentato: «the reason the play falls apart […] is that there is no sense of external reality – who exactly is meant to be fighting whom out on the streets?» (Sierz 2001a: 96). L’intervento non solo testimonia miopia in senso artistico, ma anche totale disinteresse rispetto a quanto sta accadendo, proprio in quel periodo, in Bosnia. Lo sguardo della critica presta attenzione solo a ciò che sul palco non può passare inosservato: le atrocità inflitte dal soldato a Ian, gli abominevoli racconti di guerra, Ian che si masturba, defeca, insulta Dio e si nutre del cadavere di un neonato per sopprimere la fame.

A conclusione dello spettacolo segue una vera e propria «caccia alla strega» (ivi, 95), come l’ha definita Daldry. Un noto critico del Daily Mail, Jack Tinker, corre verso la cabina telefonica più vicina per contattare la direzione del suo giornale: uno dei titoli più eloquenti che recensiscono Blasted è infatti il suo: «This Disgusting Feast of Filth» (ivi 94-5). Nel frattempo, anche altri avvertono il loro ufficio stampa; un fotografo si fa persino trovare all’uscita del Royal Court in meno di un’ora dalla chiusura del sipario. Il giorno dopo, anche i media sono in delirio:

the next morning, Anne Mayer, the Court’s press officer, got her first phone call at 7.30 a.m. She was still at home. After that, the calls never stopped. Extra staff were assigned to answering

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23 questions from journalists. The theatre was besieged by smuthounds looking for Kane. One day, Mayer found one under her desk. […] In the media, lurid objectives kept piling up. The most popular ones were “disgusting”, “disturbing”, “degrading” and “depressing”. Kane’s “atrocity play” attracted labels such as “prurient psycho-fantasies”, “unadulterated brutalism” and “degradation in the raw”. (ibid.)

Talvolta, il tourbillon mediatico diviene puro scherno:

“Ah, those old familiar faeces” […] [was said by] the Guardian’s Michael Billington. Charles Spencer – recycling a phrase he’d used about Philip Ridley’s Ghost from a Perfect Place – said that “hardened theatre critics looked in danger of parting with their suppers”, while Jonathan Miller coyly pointed out that, in the absence of a lavatory, “poor Ian” had to “do his poo on stage”. (ibid.)

Come evidenziato dal resoconto di Sierz, la maggior parte di queste critiche sembra dettata dall’isteria. Il loro grado di irrazionalità è tale da travisare la verità stessa dei fatti, come dimostra l’insinuazione di un articolo dell’Express, intitolato «RAPE PLAY GIRL GOES INTO HIDING» (ivi, 98). Così, ironia della sorte, critici e giornalisti confermano una delle tesi di Blasted, «that journalists are sexist, irresponsible and hysterical» (ibid.). Proprio come Ian.

Secondo Kane, il caos mediatico è in parte dovuto alla natura esperienziale della sua opera: «the title refers not only to the content but also to the impact it seems to have had on audiences. What makes the play experiential is its form» (ibid.). Blasted, attraverso l’espediente della bomba, trasporta il setting in mezzo alla guerra senza alcun preavviso, proprio come accade quando la guerra irrompe nella vita delle persone. E lo spazio angusto dell’Upstairs esacerba questo effetto, quasi mettendo in pericolo la confortevole convinzione del pubblico di vivere in un mondo sicuro. Cosa si può fare quando mostruosità inaccettabili accadono proprio di fronte a noi? Volgere lo sguardo dall’altra parte oppure andare via. Kane, probabilmente, ha toccato un tasto dolente criticando il pensiero comune tra la sua gente che «certe cose non potrebbero mai accadere lì [in Gran Bretagna]» (Saunders 2009: 62). Inscenando Blasted al Royal Court, invece, l’autrice porta gli orrori della guerra civile proprio a Sloane Square.

Phaedra’s Love

Circa un anno dopo, il Gate Theatre di Londra commissiona a Kane l’adattamento di un classico del teatro. La scelta dell’autrice ricadrebbe inizialmente su Woyzeck di Büchner, ma una stagione sulle opere dell’autore è già in programma. Viene respinta anche una rivisitazione del Baal di Brecht. Allora, il Gate propone a Kane di riscrivere un classico greco o latino. L’idea non la esalta affatto:

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24 «I’ve always hated those plays. Everything happens off-stage, and what’s the point?» (Saunders 2002: 72). Tuttavia, dopo aver letto la Fedra di Seneca, senza consultare altre versioni del mito, Kane decide di fare un tentativo. La tragedia di Seneca attira il suo interesse per due motivi: «firstly, […] [Phaedra is] a play about a sexually corrupt royal family – which makes it highly contemporary – and secondly, Hippolytus is deeply unattractive» (ibid.). Così, Kane mantiene i temi classici dell’opera latina trasferendoli in un contesto urbano moderno, e si propone di rappresentare sul palco tutta la violenza che Seneca relegato nel fuori scena (Saunders 2009: 68-9).

Tuttavia, Phaedra’s Love non è solo un’opera piena di sangue che allude al lato oscuro della monarchia, ma è anche il campo dove Kane sviluppa ulteriormente il tema unificante del suo lavoro: l’amore. Come rivela il titolo, vero protagonista della storia è Hippolytus, l’oggetto d’amore di Phaedra. Il principe greco di Kane è un personaggio che ha come antecedente letterario Mersault, l’antieroe di Camus, «who is driven by a tenacious and therefore profound passion, the passion for an absolute and for truth» (Saunders 2002: 74). Spogliato della sua castità originaria, Hippolytus persegue un altro tipo di purezza, ossia la verità verso se stesso. Questa sua qualità nasce dal bisogno personale dell’autrice di potersi esprimere con onestà nelle relazioni umane; e lo stato depressivo che affligge Kane mentre compone Phaedra’s Love sembra dovuto al fatto di non riuscirvi: «I was going on and on about how important it is to tell the truth, and how depressing life is because nobody really does» (Saunders 2009: 70). Come Kane, anche Hippolytus è depresso. La prima scena ce lo mostra in una stanza buia mentre guarda la televisione, mangia hamburger e si masturba «apparently getting pleasure from neither» (74)16. Attraverso lui, Kane traccia un quadro complesso della sofferenza psichica. Secondo lei, «[depression is] about being so full that everything cancels itself out» (Sierz 2001a: 110). Come veniamo a sapere da un dialogo tra Hippolytus e Phaedra, il dolore del protagonista è causato da una ferita d’amore. Quando la regina menziona il nome della ragazza, infatti, il principe è colto da un impeto d’ira:

Phaedra What about that woman? […] Lena, weren’t you – Hippolytus (Grabs Phaedra by the throat.)

Don’t you ever mention her again.

Don’t say her name to me, don’t refer to her, don’t even think about her, understand? Understand? (83)

Così Hippolytus, non provando alcun interesse verso il mondo esterno, trasforma la sua esistenza in un coacervo di sensazioni vuote, di «bric-a-brac, bits and bobs» (80). Eppure, a colorare l’immobilismo psichico ed emotivo del personaggio, è un senso dell’umorismo che, benché macabro e nichilista, illumina l’intera opera. Per questa ragione, l’autrice definisce Phaedra’s Love una

16Da qui in avanti i passaggi delle opere di Kane, citati da Sarah Kane Complete Plays, sono indicati col

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25 ‘commedia’ (Saunders 2009: 70). Depressione e ironia, in Kane, non sono affatto concetti distanti, anzi: il secondo è l’ancora di salvezza quando gli effetti del primo sovrastano la mente di chi ne soffre: «it’s probably a life saving humour. […] I think when you are depressed, oddly, your sense of humour is the last thing to go; when that goes then you completely lose it» (ivi, 73). La perseveranza di Hippolytus nel rimanere onesto con se stesso fino all’ultimo coincide con questa sua capacità di osservare con umorismo feroce la realtà che lo circonda.

Anche Phaedra è un personaggio ‘onesto’. La regina, infatti, rimane sempre fedele ai propri sentimenti anche se questi diventano autodistruttivi conducendola al suicidio. Benché siano cambiati il contesto e il linguaggio dell’amore di Phaedra, la passione verso il figlio è ardente come quella del classico latino: «can’t switch this off. Can’t crush it. Can’t. Wake up with it, burning me. I think I’ll crack open I want him so much» (71); travolgente e, allo stesso tempo, irrazionale: «you’re difficult. Moody, cynical, bitter, fat. Decadent, spoilt. You stay in bed all day then watch TV all night, you crash around this house with sleep in your eyes and not a thought for anyone. You’re in pain. I adore you» (79). Ma l’oggetto del suo amore è impossibile da raggiungere perché, come lei stessa afferma, Hippolytus per gli altri nutre solo indifferenza. Il solipsismo del principe non riconosce altra individualità fuorché la propria. Hippolytus ne dà prova attraverso una sessualità promiscua, caratterizzata da un consumo apatico di rapporti onanistici, etero e omosessuali, con il semplice scopo di «riempire il tempo», in attesa che «accada qualcosa» (79). Quel ‘qualcosa’ avviene nel giorno del suo compleanno, quando la regina si offre a lui in dono. Come afferma Giannopoulou, «for her, sex is the best form of self-expression, as it conveys the full force of her emotion, and the most effective means of curing Hippolytus from his paralysing self-loathing» (Giannopoulou 2010: 61). Ma la freddezza con cui il figliastro accoglie l’intimità del suo regalo è pari a quella con cui accetta i doni del popolo: la regina, per l’amato principe, è insignificante quanto un anonimo membro della popolazione (ibid.). Inoltre, l’offerta d’amore di Phaedra si riduce a semplice strumento con cui portare a termine un atto puramente meccanico, e la reciprocità da lei desiderata si scontra tragicamente con l’impassibilità di Hippolytus: è questa la violenza subita dalla regina. Di fronte all’offesa, «“rape” is the best word Phaedra can find for it, the most violent and potent, so that’s the word she uses» (Saunders 2009: 73). Dopo aver accusato Hippolytus di stupro, la regina si toglie la vita dando il via agli eventi che decimano l’intera famiglia reale.

Per Hippolytus, il suicidio della madre è catartico. Il risveglio della sua esistenza, il sentirsi tutt’uno con la vita, coincidono con l’andare incontro alla morte: «her present to me […]. Not many people get a chance like this. This isn’t tat. This isn’t bric-a-brac. […] Life at last» (90). Kane spiega così la rinascita del protagonista: «the only way back to any kind of sanity is to connect physically with who you are, emotionally and spiritually and mentally. […] [In Hippolytus’] moment of death

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