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Il diritto del minore all'identità personale

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

Il diritto del minore all'identità personale

Candidato: Relatore

:

Gioia Melani

Prof. ssa Caterina Murgo

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Mai nulla di splendido è stato realizzato se non da chi ha osato credere che dentro di sé ci fosse qualcosa di più grande delle circostanze.

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Introduzione

Proprio per la sua natura mutevole, la famiglia ha rispecchiato spesso lo Stato e la società in un dato momento storico: fondata su rigide leggi patrimoniali e di ceto in età moderna; basata sulla soggezione delle donne al capo famiglia fino a pochi decenni fa; dispotica o democratica a seconda dell’evoluzione civile di un popolo; interprete delle tensioni tra i sessi e tra le generazioni nel secolo da poco trascorso.

La famiglia, di conseguenza, è protagonista di una ridefinizione globale, che genera una tensione tra tradizione e modernità e soprattutto tra politica nazionale e panorama internazionale.

La tematica relativa al diritto dei genitori di scegliere quale cognome attribuire al figlio al momento della nascita rappresenta, tra le tante, una delle questioni più complesse che abbiano mai interessato da vicino il nostro Paese negli ultimi anni.

L'attenzione nei confronti di una simile questione, manifestatasi nel nostro ordinamento sin dalla fine degli anni ottanta del novecento, si è infatti rafforzata negli ultimi anni, a seguito di recenti vicende giudiziali che hanno condannato la rigidità del nostro sistema di attribuzione del cognome.

Il cognome assume inoltre un valore essenziale rispetto alla manifestazione dell’identità personale e al riconoscimento dell’individuo da parte della società.

Con la sentenza n. 3769 del 22 giugno 1985 la Corte di Cassazione definisce il diritto soggettivo all’identità personale e fa si che entri a pieno titolo nel novero degli aspetti della personalità tutelati dall’ordinamento.

Il diritto all’identità personale è venuto così differenziandosi per avere ad oggetto quello specifico bene-valore costituito dalla proiezione sociale della complessiva personalità dell’individuo, alla base del quale si colloca l’interesse del soggetto ad essere rappresentato nella società con la sua vera identità.

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Ne consegue che esso non dovrà essere modificato, offuscato o, comunque, alterato all'esterno il proprio patrimonio intellettuale, ideologico, politico, etico, religioso e professionale, come già manifestatosi nell'ambiente sociale e, ciò, secondo indici di previsione costituiti da circostanze obiettive ed univoche1.

Il diritto al nome ed all'identità personale trovano il loro riconoscimento costituzionale nell'articolo 2 che tutela l'identità dell'individuo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.

Sul piano della normativa codicistica, invece, trova esplicito riconoscimento solo il diritto al nome e la tutela del correlato diritto all'identità personale è il frutto dell'estensione analogica delle norme positive esistenti in materia di tutela del diritto al nome ed all'immagine.

Il diritto all'identità personale si configura come diritto ad essere riconosciuto secondo le proprie caratteristiche individuali, così come socialmente percepite ed ha le medesime forme di tutela del diritto al nome.

In tali casi il codice prevede la possibilità di conseguire giudizialmente la cessazione del fatto lesivo ed il risarcimento del danno. L'esplicita previsione del risarcimento del danno, per non essere considerata un'inutile duplicazione dell'art. 2043 c.c., in forza del disposto di cui all'art. 2059 c.c., a mente del quale il risarcimento dei danni non patrimoniali è ammesso quando previsto per legge, viene considerata come l'esplicito riconoscimento, per tali fattispecie, della tutela del danno morale.

In generale il cognome non va concepito esclusivamente come semplice e neutro elemento identificativo di un dato essere vivente, quanto piuttosto quale momento caratterizzante in ambito sociale del singolo individuo e deve quindi essere considerato nell’alveo della tutela dei valori fondamentali della persona ed in specie nella prospettiva della protezione della sua identità.

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La materia del cognome riguarda diversi profili di interesse, a seconda del ruolo che una persona riveste in ambito familiare e così quello di coniuge, sia esso coniuge separato o divorziato, o quello di figlio e ancora di figlio adottivo.

L’indicazione va peraltro sviluppata con soluzioni ed in prospettive diverse a seconda che si consideri la posizione dei coniugi oppure quella dei figli, essendo evidente che nel primo caso ciascuno di essi ha già un cognome, mentre nel secondo si tratta proprio di attribuirlo sin dalla nascita.

Principalmente al centro del dibattito e all’attenzione dello stesso legislatore è risultata la questione del cognome dei figli, tema che sarà affrontato e sviluppato nel proseguo di questa trattazione.

Dobbiamo inoltre tenere in considerazione la sempre più diffusa dimensione internazionale dei rapporti giuridici familiari; possono porsi infatti delle problematiche nel momento in cui il nucleo familiare, costituito da cittadini italiani, risieda al momento della nascita del figlio in un Paese dove vigono regole diverse da quelle italiane in tema di cognome o comunque quando il figlio venga registrato all’estero nel rispetto delle regole vigenti nel luogo di nascita.

Nel nostro Paese, infatti, a differenza di molti ordinamenti europei in cui viene meglio assicurata la parità tra i genitori attraverso l'automatica attribuzione ai figli del cognome di entrambi garantendo così una libertà di scelta più ampia, è ancora fortemente contraddistinto dall'applicabilità della regola consuetudinaria, risalente al diritto di famiglia romano, secondo cui ai figli viene automaticamente attribuito il patronimico del padre.

La particolarità di questa norma è che non risulta essere oggetto di esplicita previsione normativa primaria risultando, tuttavia, norma consuetudinaria saldamente radicata nella realtà sociale.

Il codice civile, in effetti, disciplina solamente i casi di attribuzione del cognome ai figli nati fuori dal matrimonio ed ai figli adottivi.

L’attribuzione al figlio del cognome paterno si desume dal solo Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento

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dello stato civile (DPR 396/2000), il cui articolo 33 stabilisce tale regola in relazione al figlio legittimato. Tale distinzione è caduta in seguito all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 154 del 2013 che ha eliminato dall’ordinamento la distinzione tra figli legittimi e figli naturali. L’articolo 33 andrà quindi letto in relazione a tutti i figli. La tradizione di questa regola consuetudinaria ha suscitato numerosi dibattiti tra la dottrina e la giurisprudenza in ordine al carattere giuridico da dover attribuire ad una simile norma.

In particolare, come si vedrà, sono due gli orientamenti che si sono diffusi riguardo al carattere giuridico dover attribuire a tale norma: da una parte, chi ha considerato la norma in questione di natura consuetudinaria, e dall'altra, chi ha invece ritenuto che la norma in questione possa essere presupposta in via implicita da una serie di espresse disposizioni del nostro ordinamento.

La conseguenza dell’automatica attribuzione del cognome paterno è l’impossibilità per le madri di poter attribuire ai loro figli il proprio cognome al momento della nascita, creando così un’eccessiva disparità tra i coniugi.

A livello di fonti sovranazionali, la Carta di Nizza sui diritti fondamentali dell’Unione europea, vincolante a seguito dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, vieta ogni forma di discriminazione basata sul sesso (articolo 21) nonché l’obbligo di assicurare la parità tra uomo e donna in tutti i campi (articolo 23).

La Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (adottata a New York il 18 dicembre 1979 e ratificata dall’Italia con la legge 14 marzo 1985 n.132) all’articolo 16 lettera g), invita gli Stati aderenti ad eliminare ogni tipo di distinzione tra marito e moglie garantendo gli stessi diritti personali, compresa la scelta del cognome.

Anche la Corte Costituzionale è stata investita di numerosi ricorsi riguardati l’attribuzione del cognome al figlio ma non si è mi espressa esplicitamente pur affermando che l’attuale sistema di attribuzione automatica del cognome è il « retaggio di una concezione patriarcale della famiglia la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia

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romanistico, e di una tramontata potestà maritale non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna»2.

Nel 2014, con la sentenza Cusan e Fazzo della CEDU l’Italia è stata condannata per violazione degli articoli 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare che di conseguenza coinvolge anche ogni aspetto dell’identificazione personale) e articolo 14 della Convenzione (ovvero il divieto di ogni forma di discriminazione).

Sul tale questione, come vedremo, è intervenuta nuovamente anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 286 del 2016.

Tale sentenza, infatti, dichiarando l'incostituzionalità della regola sul patronimico, ha riconosciuto alle madri italiane, purché in accordo con il padre dei propri figli, la possibilità di attribuire il proprio cognome, ma soltanto in aggiunta a quello paterno.

La sentenza della Corte costituzionale rappresenta indubbiamente un importante passo per le madri; un passo che, però, non le tutela ancora pienamente, poiché, in caso di mancato accordo con i padri dei rispettivi bambini, continuerà a trovare applicazione la regola prevedente l'automatica attribuzione al figlio del solo cognome paterno.

Ai fini della risoluzione di tale discriminazione sarebbe opportuno un adeguato intervento legislativo volto a creare un nuovo criterio di attribuzione del cognome ai figli in modo che, come accade già in altri ordinamenti, non si abbia una discriminazione della donna all’interno del nucleo familiare.

Si noterà quindi come, rispetto al mondo occidentale, la legislazione italiana appare ancora arretrata nonostante ci siano state numerose proposte di leggi giacenti tutt’oggi in Parlamento.

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Capitolo I

Identità individuale nella dimensione sociale

Sommario: 1. Il ruolo della donna nello Stato. - 1.1. Il problema del “congelamento della Costituzione”. - 1.2. Articolo 29 Cost.: mancata realizzazione dell’uguaglianza fra coniugi nell’ambito dell’attribuzione del cognome. - 2. Il nome come interesse dello Stato. – 2.1. Il nome come elemento di distinzione nella società - 3. Attribuzione dell’identità. – 3.1. Tutela dell’identità personale. - 4. Attribuzione del nome. – 4.1. Forme di tutela del nome. - 5. Attribuzione del cognome. – 5.1. il cognome maritale. – 5.2. Il cognome dei discendenti. – 6. Rapporto tra diritto al nome e diritto all’identità personale. - 6.1. Garanzia costituzionale del diritto all’identità personale. – 7. Identità personale e il suo rapporto con la disciplina sulla protezione dei dati personali. – 7.1. Tutela dell’immagine pubblica della persona. – 7.2. diritto a conoscere le proprie origini biologiche in relazione al rispetto del diritto della privacy.

1. Il ruolo della donna nello Stato

La discriminazione nei confronti delle donne si nasconde spesso dietro retaggi di tipo culturale che, col passare degli anni, sono diventati consuetudini.

Nel corso dei secoli si sono susseguiti momenti in cui, da un lato, troviamo la famiglia che si caratterizza per una continua evoluzione dovuta ad influenze delle forze demografiche o di quelle politiche ed economiche, mentre, dall’altro, vi è un atteggiamento statale che non sempre riesce a formulare una adeguata protezione normativa3.

Una delle forme più insidiose della discriminazione contro le donne consiste nell’implicita negazione, da parte della grande maggioranza degli Stati, del diritto di trasmettere il loro cognome del padre ai propri figli, prevedendo l’automatica attribuzione del cognome ai neonati che siano stati concepiti in costanza di matrimonio dei propri genitori o che siano stati riconosciuti dal padre.

3 B.M.Billotta, Famiglia e conflitti sociali in una società a velocità crescente, Riv.di scienze della

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La particolare conseguenza di questa consuetudine risiede nel fatto che essa non discrimina solo le donne in quanto madri, ma discrimina anche le donne come figlie.

La difesa dell’attribuzione automatica del cognome paterno si basa sulla necessità di salvaguardare il principio dell’unità della famiglia assicurando una maggiore speditezza nell’identificazione del singolo individuo attraverso il riferimento al suo patronimico.

Il diritto al nome, e più in particolare al cognome, rappresenta la manifestazione esterna del diritto all’identità personale e la compromissione di questo diritto, determinata dall’attribuzione automatica del solo cognome paterno, fa si che venga lesa, da un lato, l’identità personale del minore, il quale crescendo potrebbe non identificarsi attraverso il cognome che gli è stato attribuito, mentre dall’altro si evince una disparità di trattamento tra i coniugi, la quale non trova giustificazione nella finalità di salvaguarda dell’unità familiare.

La parità tra i coniugi è per lungo tempo stata rinviata dalla lentezza con cui il Parlamento ha dato attuazione ai principi costituzionali ed anche dalle sentenze della Corte Costituzionale. Soltanto con la sentenza dell’ 8 novembre 2016 n. 286, pubblicata il 21 dicembre 2016, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c., nonché dall'art. 72 primo comma R.d. n. 1238/1939 (Ordinamento stato civile) ed artt. 33 e 34 D.p.r. n.396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), nella parte in cui non consente ai genitori, i quali ne facciano concorde richiesta al momento della nascita, di attribuire al figlio anche il cognome materno4.

4 In tema di uguaglianza dei coniugi, il criterio della prevalenza del cognome paterno, e la

conseguente disparità di trattamento dei coniugi medesimi, non trovano giustificazione né nell'art. 3 Cost., né nella finalità di salvaguardia dell'unità familiare, di cui all'art. 29, comma 2, Cost. Pertanto, la violazione del principio di uguaglianza "morale e giuridica" dei coniugi, realizzata attraverso la mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo cognome, contraddice quella finalità di garanzia dell'unità familiare, individuata quale "ratio" giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi, ed in particolare, della norma sulla prevalenza del cognome paterno, rivelandosi tale diversità di trattamento dei coniugi

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1.1. Il problema del “congelamento della Costituzione”

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La Costituzione della Repubblica Italiana inserisce il diritto al nome tra ai diritti inalienabili dell’individuo ponendolo sotto la tutela degli articoli 2 e 22 Cost.

Il diritto dei cittadini a non essere privati del nome, però, fu introdotto come argine al potere politico e non già a garanzia o a regolamentazione della trasmissione del cognome alla famiglia6 e

questo fece si che la sua applicazione sia sempre stata contraddittoria e caratterizzata da numerosi problemi concettuali. La Corte Costituzionale con l'ordinanza n. 176/1988 , con la quale fu dichiarata manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 71,72 e 73 del regio decreto n. 1238/1939, nella parte in cui non prevedono la facoltà dei genitori di determinare il cognome da attribuire al proprio figlio legittimo, attraverso l'imposizione di entrambi i cognomi e del diritto del figlio di assumere il cognome materno precisò che «il diritto dell'individuo all'identità personale sotto il profilo del diritto al nome, non è la scelta del nome, ma il nome per legge attribuito; (…) l'interesse alla conservazione dell'unità familiare, tutelato dall'art. 29, secondo comma, della Costituzione, sarebbe gravemente pregiudicato se il cognome dei figli nati dal matrimonio non fosse prestabilito fin dal momento dell'atto costitutivo della famiglia»7.

Questa esplicazione della Corte del «non» diritto all’attribuzione del proprio cognome ai figli, ha dato adito alla dottrina di non occuparsi per decenni del profilo della parità tra i coniugi considerandolo non compatibile con l’idea di unità familiare.

nell'attribuzione del cognome ai figli, in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio della pari dignità morale e giuridica dei coniugi., in Massima

redazionale, 2016.

5 Per un maggior approfondimento riguardo al problema del “congelamento della Costituzione” si

veda L. Paladin, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana,il Mulino, 2004.

6 R. Bifulco, A.Celotto, M.Olivetti, Commentario alla Costituzione, Utet, 2006, 474 ss. 7 Corte Costituzionale, ordinanza n.176/1988, in CED Cassazione, 1988.

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1.2

Articolo

29

Cost.:

mancata

realizzazione

dell’uguaglianza fra coniugi nell’ambito dell’attribuzione

del cognome

Il principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi è sancito della Costituzione all’art. 29 proclama infatti che: « La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi coi limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare».

L’articolo 29 è rimasto estraneo ai vari processi di riforma costituzionale che il sistema ha conosciuto, anche se, non di rado, è stato oggetto di proposte di modifica.

I vari progetti di legge toccano raramente il contenuto del primo comma dell’articolo 29 e quindi non si hanno indicazioni di rilievo nel senso di un riconoscimento dei diritti della famiglia e di un allargamento alla garanzia costituzionale in favore dei modelli familiari non tradizionali.

Più numerose, invece, sono le proposte di legge orientate a modificare il contenuto del secondo comma in particolare riguardo alla relazione tra il principio di uguaglianza e le sue limitazioni; in alcuni di questi progetti di modifica costituzionale si propone di sostituire l’attuale secondo comma con il seguente: « il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, nella garanzia dell’unità familiare»8.

La motivazione normativa della proposta è duplice: da un lato si vuol sottrarre al legislatore l’esclusiva competenza di fissare i limiti al principio di uguaglianza in funzione del valore dell’unità del gruppo e, dall’altro, assumere il principio di unità familiare individuandone il fondamento nella stessa eguaglianza dei coniugi, in modo che non vi

8 Una proposta in questo senso nel progetto di riforma costituzionale della Commissione

parlamentare per le riforme istituzionali del 1985, presieduta da Bozzi in Nuovi studi politici, 1999, 15; in questo senso anche i progetti di legge n. S0071, presentato nella XII legislatura, in data 16/4/1994; n. S00623, presentato nella XII legislatura in data 19/7/1994.

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possa essere parità se non in funzione dell’unità e non si possa dare unità se non fondata sulla parità9.

La formula, se considerata alla luce delle più recenti tendenze in atto nel diritto della famiglia, può ragionevolmente essere interpretata anche nel senso di rappresentare il presupposto per uno svolgimento concreto dell’uguaglianza morale e giuridica ed un suo contemperamento con le esigenze di unità del gruppo affidato non più all’intervento di una norma di legge ma all’autonomia dei soggetti, nel cui spiegamento possono trovare soddisfazione, e quindi giustificare la regola pattizia, sia la libertà dei singoli sia gli interessi dell’intera famiglia10.

Si passa così da un’epoca in cui la trasmissione del cognome paterno costituiva un imperativo inderogabile, al quale si ricollegava l’unità della famiglia, e dove alla madre non era esplicitamente riconosciuta questa possibilità, mettendo così in luce la profonda disparità dei coniugi, ad un’epoca nella quale, grazie alla sentenza del 2016, n. 286 della Corte Costituzionale, il cognome di una persona risulta da una determinazione di entrambi i coniugi posti su un piano paritario, in assenza del quale la legge disporrà secondo un criterio residuale.

2. Il nome come interesse dello Stato

Nell’esistenza di ogni individuo il nome, disciplinato all’articolo 6 del codice civile, costituisce oggetto di un diritto11 in quanto esso iniziò

ad affermarsi quando gli ordinamenti costituiti, ovvero regni, repubbliche, principati, signorie e liberi comuni, si resero conto che era interesse dello Stato individuare esattamente i propri sudditi per ragioni di tipo militare, fini fiscali e per scopi di polizia12.

9 Per un ampio resoconto delle giustificazioni sottese alla proposta della Commissione Bozzi v. la

Relazione finale, in Atti Commissione parlamentare per le riforme istituzionali della IX legislatura, 40 ss.

10 R. Bifulco, A.Celotto, M.Olivetti, Commentario alla Costituzione, op.cit., 621.

11 P. Cendon, I diritti della persona: tutela civile,penale,amministrativa, UTET 2005, 280. 12 A.De Cupis, I diritti della personalità, Giuffrè Milano 1982, 299.

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Nel periodo della repubblica romana, lo Stato prendeva consapevolezza del numero e delle generalità dei propri cittadini attraverso la lustratio, la quale richiedeva un potere centralizzato ed un articolato apparato burocratico. Col venir meno dello Stato centralizzato, il sistema del periodico censimento della popolazione fu abbandonato e, inoltre, il diffondersi del cristianesimo fece si che le uniche strutture presenti sul territorio, costantemente in contatto con la comunità dei cittadini, fossero rappresentate dalle parrocchie, le quali assunsero il compito di registrare le nascite, e quindi i nomi, i matrimoni e le morti.

L’interesse burocratico dello Stato alla conoscenza per nome dei cittadini veniva giustificato da necessità di tipo legale e amministrativo.

Il nome divenne indispensabile per l’ordine pubblico e la sua imposizione e conservazione divenne un obbligo verso lo Stato con l’impossibilità di ogni arbitrario mutamento13.

In epoca rinascimentale e premoderna, infatti, i provvedimenti normativi riguardanti il divieto di mutamento del nome senza l’autorizzazione sovrana furono numerosi; in tal senso si ricordano le previsioni contenute negli statuti di Bologna del 1288, in quelli di Lucca del 1539 e in una prammatica napoletana del 163914.

L’interesse dello Stato a conservare i cognomi ed a osservare la loro immutabilità influenza anche il Code Napoleon sebbene non vi via alcuna norma dedicata esplicitamente al nome.

2.1. Il nome come elemento di distinzione nella società

La concezione del nome può essere analizzata secondo una duplice teoria; quella di tipo pubblicistico, in base alla quale l’interesse dello Stato alla certezza dell’individuazione dei cittadini era il fondamento della tesi in cui il nome rappresentava una «matricola» necessaria ai

13 Si fa riferimento all’ordinanza di Amboise, promulgata da Enrico II il 26/3/1555, vietante il

mutamento arbitrario del nome e le Regie Patenti del 16/8/1844 degli Stati Sardi vietanti i cambiamenti di nome senza permissione sovrana.

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fini della buona amministrazione15. Da questo orientamento derivava

la tesi secondo cui la lesione del diritto al nome costituiva principalmente un illecito nei confronti dello Stato; mentre nei confronti dell’individuo poteva costituire un danno risarcibile soltanto in presenza di un pregiudizio ulteriore.

In contrapposizione alla tesi pubblicistica del diritto al nome si sviluppa l’opposta concezione, quella privatistica, secondo la quale il nome costituisce sì, un diritto dell’individuo, ma anche un diritto di proprietà. L’individuo è proprietario del suo nome con la conseguenza che qualsiasi scambio, violazione o contestazione da parte di terzi poteva configurare un atto illecito16.

Queste due tesi vennero successivamente abbandonate; quella pubblicistica fu contestata nella parte in cui prevedeva di recidere il vincolo tra il nome e la persona che lo portava assimilandolo a una «matricola» andando così a ledere la parte essenziale del patrimonio morale di ogni individuo. La tesi privatistica, invece, è stata abbandonata in base al fatto che l’oggetto della proprietà è necessariamente esterno rispetto al titolare di essa, mentre il nome è qualcosa di esterno all’individuo, ma costituisce parte integrante di quest’ultimo17.

Si capisce, quindi, come il nome costituisca una parte essenziale del patrimonio morale di ogni individuo in quanto esso rappresenta uno dei diritti della personalità. Nome e cognome esprimono l’identità della persona e fungono da elemento distintivo nei rapporti sociali con le altre persone, determinando così due interessi: da una parte l’interesse privato del singolo di essere identificato in quella determinata maniera e con quel nome in modo da non essere confuso con altri e, dall’altro, l’interesse generale della collettività a

15 E. Capizzano, La tutela del diritto al nome civile, in «Rivista del diritto commerciale», 1962, I,

241-311.

16 Sul punto di veda C.Ebene Cobelli, Rettifica degli atti dello stato civile e della conservazione del

cognome originariamente assunto, in Nuove leggi civili commentate, 1995, 411; P.Perlingeri, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972, 259; A.De Cupis, I diritti della personalità, Trattato Cicu-Messineo-Mengoni, Milano,II, 1982, 435; Cass. 5 ottobre 1994, n.8081,

Cass. 22 giugno 1985, n. 3769, App. Palermo 23 dicembre 1987, Trib. Roma 25 maggio 1985; Trib. Milano 2 marzo 2000.

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fare in modo che ciascun suo componente venga identificato in maniera certa e inconfondibile.

3. Attribuzione dell’identità

Ogni persona viene identificata attraverso il proprio nome il quale è costituito da elementi necessari al fine del nostro riconoscimento. La nostra identificazione è costituita dal prenome, o nome proprio, e dal cognome; questi elementi non servono solo a individuare la nostra persona, ma sono necessari anche per riferirsi ad un gruppo sociale al quale apparteniamo.

La funzione del nome risulta essere essenziale come strumento di identificazione della nostra persona in relazione ai rapporti che instauriamo nella nostra vita, sia a livello familiare sia a livello sociale. Il nome costituisce, in altri termini, un’etichetta personale che, aggiunta ad altri segni distintivi, identifica ogni individuo differenziandolo dagli altri consociati.

Il cognome e il prenome sono considerati inscindibili18 anche se, ad

esempio, all’interno di una famiglia, il solo nome può esse sufficiente affinché il soggetto si distingua dagli altri membri mentre in un contesto più ampio, come la realtà sociale, è necessario l’uso del prenome e del cognome.

L’importanza dell’attribuzione del nome, e quindi dell’identificazione personale, è sancito anche dall’articolo 22 della Costituzione che enuncia il divieto di privazione per motivi politici del nome, dato che la sua unanime approvazione si deve, secondo quanto testimoniano i lavori preparatori, al fatto che, avendo il deputato Matroianni chiesto che gli fosse rammentato qualche caso in cui un uomo era stato privato del proprio nome, il deputato Corsanego rispose citando quanto accaduto sotto il fascismo quando «alcune persone sono state obbligate anche a cambiare il proprio nome », sottolineando il

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riferimento alle persone di appartenenza ebraica e agli alloglotti dell’Alto Adige19.

L’articolo 22 ha, quindi, lo scopo di non solo di “opporsi” all’esperienza della dittatura ma anche fronteggiare ogni tipo di esperienza autoritaria20. Questa sua particolare natura garantista21

portò, in un certo momento, a pensare che tale disposizione costituzionale potesse essere inserita addirittura tra i primi articoli della Carta costituzionale.

Tale articolo, di fatto, eliminerebbe alla base la possibilità di privare un individuo « per ragione di Stato » della sua partecipazione ad un ordine sociale e giuridico dato, a prescindere dalle sue opinioni politiche altrimenti tutelate22.

3.1. Tutela dell’identità personale

Attualmente la dottrina e la giurisprudenza prevalenti sostengono che il nome non sia solo uno strumento di identificazione della persona, ma anche un mezzo attraverso il quale il titolare si manifesta esteriormente con tutto il suo patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico e professionale23.

Per questo, in considerazione di questo rapporto strumentale tra nome e identità personale, la dottrina prevalente24 ha ritenuto che

anche la tutela alla lesione per dell’identità personale sia regolata

19 Atti dell’Assemblea Costituente, seduta di sabato 21 settembre 1946 (Presidente Tupini), 393. 20 Troviamo conferma di quanto detto nella relazione dell’onorevole Ruini presentata alla

Presidenza dell’Assemblea Costituente il 6 febbraio 1947: «non si può tacere, dopo così dure prove né dopo aver assistito ad arbitri che, per ragioni politiche o razziali, spogliavano intere schiere di cittadini del geloso patrimonio della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome era possibili tralasciare un esplicito divieto» Atti dell’Assemblea Costituente,Relazione della

Commissione al progetto di Costituzione della Repubblica italiana, LXXIX, Rapporti civili.

21 Nella seduta del 24 settembre 1946 (Presidente Tupini), seguito della discussione dei principi

sui rapporti civili, intervenuti l’onorevole Moro e del Presidente, Atti dell’Assemblea

Costituente,Comm. per la Cost., Prima Sott., 404.

22 G.Branca A.Pizzorusso, Commentario della Costituzione, Zanichelli-Il Foro italiano,

Bologna-Roma, 1996, 12.

23 Corte Cost., 11 maggio 2001 n.120, Giur. It., 2002, 2238.

24 A.De Cupis, I diritti della personalità, op.cit., 413, L.Lenti, Nome e cognome, Digesto civ., XII,

Torino, 1995, 142, V.Zeno Zencovich, Personalità (Diritti della), Noviss. Dig. It., IV, Torino, 1995, 300-302.

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dall’art. 7 c.c., ed anche la giurisprudenza ha in alcune occasioni ribadito e applicato l’art. 7 c.c.25.

Esiste, però, anche un orientamento diverso della dottrina, delineato dalla sentenza della Corte di Cassazione del 22 giugno 1985 n. 3769, la quale conferma l’esistenza nel nostro ordinamento del diritto all’identità personale e la sua tutela giuridica, stabilendo però che tra il diritto al nome e il diritto all’identità personale esiste solo una stretta correlazione, e di conseguenza l’art. 7 c.c. non potrebbe essere applicato ai casi di lesione dell’identità personale attraverso la denominazione del titolare del nome.

La posizione della Corte di Cassazione finisce per ammettere l’applicazione analogica dell’art. 7 c.c. in quanto riconosce particolare affinità tra i due diritti.

Tale orientamento, però, risulta essere contrastante rispetto ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale negli anni successivi; le sentenze della Corte riguardavano soprattutto il tema del cognome familiare ai fini della tutela dell’identità personale.

La stretta correlazione tra diritto al nome e all’identità personale porta a giustificare l’applicazione diretta e non analogica dell’art. 7 c.c. in caso di pregiudizio di quest’ultima.

Negli anni successivi, la Corte di Cassazione interviene nuovamente sull’argomento e, contrariamente a quanto affermato nella sentenza del 1985, attribuisce il fondamento normativo del diritto all’identità personale all’art. 2 Cost26.

L’art. 2 Cost., quindi, rappresenta il fondamento normativo generale di tutti i diritti della personalità e consente di garantire la loro tutela senza ricorrere all’applicazione analogica.

Premesso che il diritto all’identità personale nel nostro ordinamento gode di una piena e immediata tutela giuridica, la necessità di ricorrere all’applicazione dell’art. 7 c.c. anche al caso di lesione dell’identità personale attraverso l’identificazione del titolare del

25 Trib. Milano, 19 giugno 1980, Giur. It., 1980, I, 2, 1981, c. 373. 26 Cass. 7 febbraio 1996, n. 978, Dir. dell’inf. E dell’informaz., 1997, 115.

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nome, trova giustificazione nella stretta connessione tra il diritto al nome e il diritto all’identità personale.

L’interpretazione evolutiva della Corte di Cassazione, volta ad applicare direttamente l’art. 7 c.c. nel caso di lesione dell’identità personale attraverso la designazione di un titolare del nome, conferma il valore strumentale del nome, il quale rappresenta il simbolo della persona non solo in senso fisico, ma anche dell’intera personalità27.

4. Attribuzione del nome

Il diritto al nome, inteso quale insieme di prenome e cognome, si acquista per effetto dell’evento della nascita ed è sottratto alla volontà dell’interessato.

L’acquisto del nome rappresenta l’elemento distintivo della persona, e come tale viene attribuito in base ad un accordo in quanto espressione della potestà dei genitori sul figlio e, quindi, atto di esercizio della potestà28.

In caso di disaccordo trova applicazione l’articolo 316 c.c. il quale dice che i genitori possono rivolgersi al tribunale per i minorenni per dirimere il loro contrasto. L’autorità giudiziaria provvederà a suggerire le soluzioni più opportune per l’interesse del minore e dell’unità familiare e, nel caso in cui permanga il contrasto, potrà attribuire il potere di decidere il prenome a quello dei due genitori che riterrà più idoneo a tutelare l’interesse del figlio. L’art. 316 c.c. è stato di recente modificato e la ratio della norma consiste nell’attribuire ai genitori poteri congiunti per l’esercizio della potestà, salvo il ricorso al giudice della fase patologica determinata dai contrasti per importanti questioni inerenti al figlio29.

27 M.Moretti, Il nome nei rapporti familiari, Casa Editrice La Tribuna, 2005, cit. 270-271. 28Cass., 9 maggio 1981 n. 3060, in Foro It., 1982, I, 1378.

29 In merito a tale argomento si vedano tali sentenze; Cass. civ. Sez. Unite, 18-03-2016, n. 5418, in

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Seppur questo sia considerato l’orientamento dominante vi è chi ritiene che l’attribuzione del prenome riguardi le scelte relative alla vita familiare disciplinate dagli articoli 144 e ss. c.c.30

In questa seconda opzione, regolata all’art. 145 c.c., l’intervento dell’autorità giudiziaria è ammessa solo su richiesta “espressa e congiunta dei due coniugi” ed esclusivamente in presenza di questa richiesta potrà essere adottata “direttamente e personalmente” la decisione che il giudice riterrà più adeguata alle esigenze dell’unità familiare e della vita familiare senza dover attribuire il potere di scelta ad uno dei due coniugi. Va precisato che, peraltro, l’art. 145 c.c. ha trovato una scarsissima applicazione.

Dall’applicazione di una o dell’altra norma discendono conseguenze diverse; qualora si ricorra all’intervento “conciliatore” del giudice , la cosiddetta scelta relativa all’indirizzo della vita familiare prevista all’articolo 145 c.c., il giudice potrà su richiesta dei due genitori, decidere direttamente scegliendo il prenome; nel caso, invece, di applicazione dell’articolo 316 c.c., il giudice potrà attribuire il potere di scelta al genitore più adatto, a prescindere da una richiesta dei coniugi31.

Trattandosi di questioni relative ai figli e non ai rapporti tra i genitori appare quindi chiaro che le disposizioni relative all’indirizzo della vita familiare appaiono improprie e sia più idoneo utilizzare quelle relative alla responsabilità genitoriale.

Al momento della nascita, come stabilisce il nuovo Ordinamento dello Stato civile, d.P.R. del 3 Novembre 2000 n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), viene eseguita la dichiarazione di nascita che può essere effettuata dai genitori o da uno di essi, direttamente o tramite un curatore speciale.

30 F. Salvo L’attribuzione del prenome nel diritto di famiglia riformato, in Rass. Dir. Civ., 1983, 517. 31 Si prenda in considerazioni le seguenti sentenze della Corte di Cassazione: Cass. 9 maggio 1981

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Tale dichiarazione, se completa, conterrà il prenome del nato, il riconoscimento da parte di uno o entrambi i genitori e conseguentemente il cognome.

Se il nato è figlio di genitori sconosciuti sarà lo stesso Ufficiale dello Stato civile ad imporre tanto il prenome quanto il cognome32.

4.1. Forme di tutela del nome

Il diritto al nome può subire anche delle lesioni per le quali l’ordinamento prevede diverse forme di tutela previste nella norma generale dell’articolo 7 c.c., il quale dispone che la persona alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome oppure che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del atto lesivo, salvo il risarcimento dei danni.

Il primo tipo di tutela è un’azione di reclamo la quale verrà usata in tutti i casi di contestazioni, ovvero quando si verifica l’ipotesi in cui un terzo neghi o impedisca al legittimo titolare del nome di avvalersene o di usarlo come proprio, in tal caso la legge consentirà al titolare di ottenere una sentenza di condanna che inibisca la prosecuzione di atti lesivi e ciò a prescindere dall’esistenza di qualsiasi pregiudizio33.

Il secondo tipo di tutela è un’azione di usurpazione, la quale riguarda l’uso indebito di un nome altrui da parte di un terzo e la possibilità del titolare del nome di agire a difesa dell’esclusività34 di tale uso.

Questo duplice profilo di tutela del nome è confermato anche dalla giurisprudenza della Cassazione con la sentenza del 13 luglio 1971 n. 2242, la quale afferma che «nel nostro sistema, il diritto al nome non è garantito con una disposizione di carattere generale, che ne consenta la difesa in ogni caso in cui il titolare ne avverta comunque la lesione. Tale tutela è prevista soltanto quando il diritto all’uso del

32 Articolo 29 n.5 del d.P.R. 3 Novembre 2000 n. 396 (Regolamento per la revisione e la

semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127).

33 Trib. Roma, 24 settembre 1973, Dir. Famiglia, 1974, 144. 34 Trib. Milano, 27 luglio 1999, Dir. industriale, 2000, 199.

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nome viene contestato oppure quando il nome viene indebitamente usato da altri con pregiudizio del suo titolare»35.

Anche l’articolo 8 c.c. si occupa della tutela civile del nome e nello specifico della legittimazione attiva, precisando che essa non sarà solo invocata dal titolare del nome, ma anche da chi, pur non portando il nome contestato, invochi la tutela sulla base di un interesse fondato su ragioni di tipo familiare degne di essere protette36. Basti pensare al marito che agisca al fine di ottenere la

tutela del cognome della moglie oppure al figlio che agisca a tutela del cognome della madre.

La protezione giuridica del diritto al nome consente anche una tutela di tipo risarcitorio, regolata all’articolo 7 c.c., il quale stabilisce che in tutti casi di violazione del nome si può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento del danno.

Su quest’ultimo tipo di tutela sono stati sollevati diversi dibattiti, in quanto non è ancora pacifico se la lesione del diritto al nome costituisca essa stessa un danno, automaticamente risarcibile per il solo fatto che ne sia dimostrata l’esistenza; ovvero se essa rappresenti soltanto una causa di danno (patrimoniale, morale, biologico), il quale dovrà essere comunque dedotto e dimostrato. Da un lato si colloca l’opinione di chi ritiene che, essendo il diritto al nome costituzionalmente protetto, la lesione di esso costituisce un danno immediatamente risarcibile37.

Il combinato disposto degli articoli 2 Cost. e 2043 c.c. dovrebbe garantire una piena risarcibilità della lesione del diritto al nome, a prescindere sia dall’esistenza del reato, sia della sussistenza di conseguenze matrimonialmente favorevoli della lesione.

35 Anche sentenze più recenti si sono occupate di tale argomento. Per citarne alcune: Cass. civ.

Sez. I, 11-08-2009, n. 18218, in Mass. Giur. It., 2009; Cass. civ. Sez. I, 16-07-2003, n. 11129, in

Corriere Giur., 2003, 10, 1276; Cass. civ. Sez. I, 20-12-2000, n. 16022, in Mass. Giur. It., 2000;

Cass. civ. Sez. I, 13-03-1998, n. 2735, in Mass. Giur. It., 1998;

36 M.Moretti, Il nome nei rapporti familiari, op. cit., 228.

37 Si veda le seguenti sentenze; per quanto riguarda il caso di lesione di diritto allo ius corpus nei

confronti del coniuge: Cassazione 11-11-1986, n. 6607, Giust. Civ., 1986, I, 3031; FI, 1987, I , 833; NGCC, 1987, I , 343; DEP, 1987, 148. Per quanto riguarda , invece, la lesione del diritto all’assistenza morale nei confronti del genitore da parte del figlio: Cassazione 7-6-2000, n. 7713,

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Nelle occasioni in cui la Corte di Cassazione si è occupata di questo tema, essa ha escluso la risarcibilità della lesione del diritto al nome in sé per sé.

Il caso portato all’esame del giudice di legittimità era abbastanza frequente: dopo il divorzio, la moglie continuava ad usare il cognome maritale ed il marito la conveniva in giudizio, chiedendone la condanna alla cessazione dell’uso del cognome maritale ed al risarcimento dei danni.

Tale domanda veniva rigettata in primo grado ed accolta in appello; la Corte di Cassazione, però, osservò che, in caso di indebito uso del nome, il titolare poteva chiedere la cessazione del fatto lesivo e agire altresì per il risarcimento del danno. Ai fini dell’azione risarcitoria è necessario che sussistano i requisiti soggettivi e oggettivi dell’illecito,

ex articolo 2043 c.c.; in particolare, per il requisito oggettivo si

richiede non solo l’esistenza di un pregiudizio affettivo, ma se questo non ha carattere patrimoniale, è risarcibile soltanto nelle ipotesi che nella condotta dell’indebito utilizzatore sia configurabile un illecito penale sanzionato ai sensi dell’articolo 2059 c.c.38.

La sentenza n. 8081/1994 della Corte di Cassazione mette in evidenza il fatto che sul tema della risarcibilità della lesione del diritto al nome la situazione rimane sospesa tra un formale ossequio all’impostazione tradizionale, secondo cui l’unico danno risarcibile nel caso di usurpazione o contestazione è quello patrimoniale se esistente, e quello morale nel caso di reato; mentre dall’altro lato una visione più moderna riguardante la figura del danno alla vita di relazione.

Tali dubbi furono superati con la più recente evoluzione della Corte di Cassazione con le sentenze del 31.05.2003 n. 8827 e n. 882839 in cui

viene abolito il limite risarcitorio dei “casi previsti dalla legge”, previsto dall’articolo 2059 c.c., ma anche al di fuori di tali limiti, i danni non patrimoniali saranno sempre risarcibili purché siano

38 Cass., 5-10-1994,n. 8081, FI, 1994, I, 3009.

39 Cassazione 31-05-2003 n. 8827, Danno resp., 2003, 816 e 819 e Cass., 31-05-2003 n.8828, in

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consistiti in lesioni di diritti della persona di rango costituzionale e la vittima alleghi e dimostri concretamente l’esistenza del pregiudizio. Questo nuovo orientamento fa si che anche la contestazione o l’usurpazione del nome altrui consentano il risarcimento del danno anche in assenza di fatti-reato, perché non è dubitabile che il diritto al nome costituisca un interesse della persona di rango costituzionale.

Nel 2008 la Corte di Cassazione, con la sentenza del 11.11.2008, n. 2697240, confermò l’interpretazione costituzionalmente orientata

dell’art. 2059 c.c. e, cosi come proposta dalla sentenza del 2003, il danno allegato deve essere dimostrato in modo che emerga il contesto in cui si è verificato e gli effetti pratici che si sono verificati nella sfera del danneggiato.

Sarà quindi compito del giudice di merito applicare idonei criteri nella salvaguardia delle situazioni giuridiche soggettive effettivamente degne di tutela.

5. Attribuzione del cognome

Il rilievo di questo secondo elemento identificativo va oltre l’attribuzione di un’identità al momento della nascita, come avviene per il nome, comprendendo anche il più complesso fenomeno del gruppo familiare di cui infatti esso rappresenta il segno di appartenenza.

L’acquisto del cognome discende direttamente dalla costituzione di un rapporto familiare: può dipendere tanto dal matrimonio, e quindi con l’acquisto dello status di coniuge, quanto l’instaurarsi di un legame di filiazione, e quindi con l’acquisto di uno status filiationis. Ai sensi dell’articolo 143 bis, per quanto riguarda il matrimonio, la moglie aggiunge al proprio nome quello del marito.

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Ne consegue che il cognome della famiglia risulta essere il cognome del marito; la moglie lo aggiunge al proprio come segno identificativo dell’appartenenza alla famiglia costituita da lei e dal marito al momento delle nozze, mentre i figli lo assumono quando vengono iscritti nei registri dello stato civile in qualità di figlio della coppia dei coniugi.

Il cognome, dunque, rappresenta uno strumento atto non solo ad identificare una persona, ma anche a ricollegarla a una determinato nucleo familiare41.

Ciascuno dei genitori ha diritto a fare in modo che il cognome del figlio testimoni questo legame e per questo ci si è spesso interrogati sulla scelta dell’ordinamento italiano di identificare i figli prevalentemente con il cognome del padre.

L’unica norma di natura convenzionale che preveda espressamente la libertà di attribuire ai figli il cognome di propria scelta, tra quello materno o paterno o entrambi, è l’articolo 16, par. 1, lett. g) della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (CSDAW), adottata a New York il 18 dicembre 1979 e ratificata dall’Italia con legge 14 marzo 1985 n. 132. Tale articolo impegna gli Stati contraenti a prendere tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari, ed in particolare per assicurare, in condizioni di parità con gli uomini, gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome42.

Esistono poi degli strumenti non vincolanti rappresentati da alcune raccomandazioni adottate in seno al Consiglio d’Europa, e precisamente la risoluzione n. 37 del 197843 e le raccomandazioni n.

41 F.Giardina Interesse del minore, aspetti identitari, in Nuova Giur. Civ. comm., 2016, II, 159-160. 42 CEDAW, Art. 16, par.1, lett .g):« Gli Stati parte prendono tutte le misure adeguate per

eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e, in particolare, assicurano, in condizioni di parità con gli uomini: […] g) gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome, di una professione o di un’occupazione».

43 Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa , Eguaglianza dei coniugi in materia di diritto civile,

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1271 del 199544 e n. 1362 del 199845. In tali documenti il Consiglio

d’Europa ha affermato l’incompatibilità di norme nazionali che discriminano tra donne e uomini riguardo alla scelta del cognome di famiglia con il principio di eguaglianza promosso e tutelato dal Consiglio stesso, e ha conseguentemente raccomandato gli Stati inadempienti di adeguare la propria legislazione realizzando la piena uguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome ai loro figli.

Nell’ordinamento italiano non esiste una norma espressa che disciplini l’attribuzione del cognome ai figli nati nel matrimonio e, di conseguenza, viene applicata la regola dell’automatica trasmissione ai figli del cognome paterno, regola che scaturisce da una consuetudine consolidatasi nel tempo e dal retaggio culturale.

Neanche la riforma del diritto di famiglia del 1975 si occupò di questo aspetto.

5.1. Il cognome maritale

L’analisi della parità/disparità dei coniugi in relazione al cognome può essere analizzata sotto un duplice punto di vista: il primo riguarda la definizione del cognome maritale in merito al rapporto tra marito e moglie e il secondo riguarda la trasmissione del cognome ai discendenti secondo il rapporto tra padre e madre.

La questione del cognome maritale è stata per lungo tempo trascurata prestando maggiore attenzione alla trasmissione del cognome ai figli. Nel 1961 la Cassazione aveva definito come facoltativa l’aggiunta o la sostituzione del cognome del marito da parte della moglie46. L’attribuzione del cognome maritale aveva

44 Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, Discriminazione tra uomini e donne nella

scelta del cognome e nella trasmissione del cognome dei genitori ai figli, Raccomandazione (1271)

1995.

45 Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, Discriminazione tra uomini e donne nella

scelta del cognome e nella trasmissione del cognome dei genitori ai figli, Raccomandazione (1362)

1998.

46 Secondo la Corte di Cassazione l’aggiunta del cognome del marito non va interpretata come un

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essenzialmente lo scopo di acquisire uno status vantaggioso per la moglie poiché ne definiva la «sistemazione essenziale» al contrario dell’uomo il cui passaggio di condizione sociale era definito dall’ingresso nell’età adulta con il raggiungimento della maggiore età. La funzione del cognome maritale, quindi, era giustificata dalla funzione di rendere visibile all’esterno l’appartenenza della donna alla famiglia di lui e inoltre rappresentava « una sorta di compiacimento a che la donna, accolta come compagnia di vita, si fregiasse del cognome maritale»47.

Anche la Corte Costituzionale, prima della riforma del diritto della famiglia del 1975, si pronunciò riguardo al cognome della moglie una volta che sia intervenuta la separazione, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 156 comma 5 del codice civile, nella parte in cui esclude la pretesa della moglie a non usare il cognome del marito, in regime di separazione per colpa di quest’ultimo, nel caso che da quell’uso passa derivarle un pregiudizio48. Alla luce di questa

analisi, ed anche della decisione presa dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 126 del 1968, si può dedurre che l’aggiunta del cognome del marito per le donne sposate non risulta essere una garanzia imprescindibile per l’unità familiare, ma piuttosto esprime l’unità familiare nella sua rappresentazione all’esterno, e quindi che essa possa costituire un limite al principio di uguaglianza morale e giuridica. Sul tema non si è mai riscontrata una presenza di contenzioso e questo fa presumere che nella prassi sociale si sia consolidata una percezione di volontarietà della scelta la quale non esclude comunque il problema della disparità49.

stabilito che «ai fini dell’identificazione della persona vale esclusivamente il cognome da nubile». (Consiglio di Stato, parere n.1746 del 1997, in Giornale Dir. Amm., 1998, 5, 458).

47 G. Marzio, Il cognome della donna coniugata, in Riv. Trim. dir. Proc. civ., 1996, cit., 49. 48 Corte Cost., n. 128 del 1970,in Giur. cost., 1970, 1576.

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5.2. Il cognome dei discendenti

La seconda questione, riguardante la trasmissione del cognome ai discendenti secondo il rapporto tra padre e madre, è stata oggetto di maggiore attenzione da parte del dibattito giuridico e politico. La riforma del 1975 non contemplava una norma sulla trasmissione del cognome per i figli nati da genitori sposati, consolidando il fatto che sarebbe stato trasmesso il cognome del padre per via consuetudinaria.

La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 61/200650, ribadì che

«il silenzio del legislatore della riforma del diritto di famiglia in ordine al cognome dei figli legittimi consente di desumere la persistente validità di una norma consuetudinaria saldamente radicata nella coscienza della collettività». Tale disposizione trova fondamento, in via consuetudinaria, nell’articolo 262 del Codice Civile «il figlio naturale assume il cognome del padre» facendo si che non si abbia una discriminazione fra figlio naturali e figli legittimi51.

Nel corso degli anni vi sono state diverse proposte di legge inerenti sull’attribuzione automatica del cognome paterno; nel 1996 una delle prime proposte fu quella dell’onorevole Scalia, la quale prevedeva che i coniugi potessero decidere quale cognome trasmettere oppure optare per il doppio cognome e, in questa ipotesi, veniva accordata la possibilità ai figli di scegliere quale nome di famiglia mantenere, eliminando così una discriminazione ai danni della linea materna52.

Sempre nel 1996, l’onorevole Pisapia presentò una proposta che provocò molto scalpore; stabilire per legge la trasmissione del solo cognome materno in maniera da «riconoscere anche a livello legislativo il rapporto particolare, diverso rispetto al padre, che la madre ha con il figlio»53.

50 Per la Corte Costituzionale, in assenza di una modifica legislativa, il figlio deve assumere il

cognome paterno (Sent. n. 61, dep. 16 febbraio 2006). Riv. cancellerie, 2006, 2, 205.

51 In questa analisi storica si continuerà ad usare le categorie di figli naturali e figli legittimi seppur

la legge 219 del 2012 ha abolito la differenza di stato giuridico. Per un maggiore approfondimento si rimanda ai capitoli seguenti.

52 Proposta di legge dell’onorevole Scalia (Camera dei Deputati, C. 313, 9 maggio 1996). 53 Proposta di legge dell’onorevole Pisapia (Camera dei Deputati, C. 2155, 8 agosto 1996).

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Vi furono altre proposte, orientate alla previsione del doppio cognome, configurando una parità solo apparente, dovuta alla perdita del cognome materno per le seconde generazioni54, oppure

prevedendo la scelta da parte dei coniugi su quello da mantenere55.

I progetti di legge non hanno mai contemplato la facoltà per i genitori di decidere liberamente il modello da adottare, poiché, da un alto la mancanza di una regola generale rischiava di provocare confusione all’interno della popolazione futura tra cognomi doppi o simili e , dall’altro lato, far prevalere la forza della tradizione con la trasmissione del solo cognome paterno.

La questione della trasmissione del cognome, come possiamo notare, si dimostra essere molto difficoltosa ed è radicata sulla consuetudine che da secoli da un ordine alle generazioni.

6. Rapporto tra diritto al nome e diritto all’identità

personale

Il diritto al nome rappresenta un aspetto particolarmente importante del diritto all’identità personale.

Il diritto all’identità personale è notoriamente il frutto di una vivace attività giurisprudenziale, iniziata alla metà degli anni ’70 del secolo scorso e che ha trovato il suo culmine nel riconoscimento operato dalla Suprema Corte, circa dieci anni dopo, con la pronuncia della Corte di Cassazione riguardante il “caso Veronesi”56.

Successivamente, il diritto all’identità personale ha ricevuto ulteriori affinamenti giurisprudenziali57, facendo il suo ingresso persino nelle

motivazioni di alcune sentenze della Corte costituzionale58 e

54Proposta di legge del senatore Semerano (Senato della Repubblica, S. 1739, 26 settembre

2002).

55 Proposta di legge del senatore Manzione (Senato della Repubblica, S. 2660, 5 ottobre 2004). 56 Si fa rifermento alla sentenza della Corte di Cassazione del 22.6.1985, n. 3769, FI, 1985, I, 2211. 57 si veda in particolare la successiva pronuncia della Corte di Cassazione, che ha in parte

modificato le osservazioni della sentenza appena citata: Cass. civ. sez. I, 7.2.1996, n. 978, DInf, 1997, 115.

58 Si fa riferimento, ad esempio, alla sentenza della Corte costituzionale n. 13/1994, Giur.cost.

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ricevendo, infine, un esplicito riconoscimento legislativo all’art. 1 della l. 675/1996, la prima legge organica italiana sulla protezione dei dati personali, ora contenuta nel d. lg. n. 196/200359, recante il

Codice in materia di protezione dei dati personali60.

Il diritto all’identità personale può essere definito come l’interesse di ogni persona a non vedere travisato o alterato all’esterno il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, professionale, a causa dell’attribuzione di idee, opinioni, o comportamenti differenti da quelli che l’interessato ritenga propri e abbia manifestato nella vita di relazione61.

A partire dai primi anni ’70 tale diritto venne elaborato dalla dottrina62 ma anche dalla giurisprudenza di merito e di legittimità63.

Tra i primi interventi giurisprudenziali il più significativo fu quello in riferimento al caso dell’attribuzione ad un uomo politico, Marco Pannella, di convinzioni che invece egli non considerava proprie64.

Con tale pronuncia non si definisce tale diritto, ma se ne riconosce la tutela giuridica.

Con la sentenza della Cassazione del 22 giugno 1985, n. 3769, sul cosiddetto caso Veronesi, si andò invece a consacrare il diritto all’identità personale definendo la violazione dell’onore e della persona; la vicenda traeva origine dal fatto che alcune frasi, effettivamente pronunziate dall’illustre oncologo in un’intervista, erano state poi riutilizzate da una ditta produttrice di sigarette nel

59 Il 4 maggio 2016 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il

nuovo Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR, General Data Protection

Regulation- Regolamento UE 2016/679), che si applicherà a decorrere dal 25 maggio 2018. Entro

questa data dovrà essere garantito il perfetto allineamento fra le normative nazionali in materia di protezione dei dati e le disposizioni contenute nella nuova normativa europea, che è direttamente applicabile nell'ordinamento italiano.

60 G.Pino, Il diritto all’identità personale, Il Mulino, 2003, 55 ss.

61 A.De Cupis, I diritti della personalità, in Trattato Cicu –Messineo-Mengoni, Milano, II, 1982,

399.

62 Si veda ad esempio M.Nuzzo, None (Diritto vigente), Enciclopedia del diritto, XXVIII, Milano,

1978, 304; A.De Cupis, I diritti della personalità,op.cit, 499; P.Perlingieri, I diritti del singolo quale

appartenente al gruppo familiare, Rass.dir.cvi., I, 1982, 72.

63 Inizialmente si negava l’esistenza di questo diritto nel nostro ordinamento e si affermava che

“nel nostro sistema giuridico nessuna norma (…) prevede, neppure implicitamente, una situazione di diritto soggettivo che abbia come contenuto il potere di pretendere, sempre e in ogni caso, il rispetto della verità storica” Cass. 13 luglio 1961,n. 2242 in Foro.it., 1972, 433.

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contesto di una pubblicità al fine di vantarne la minor nocività rispetto ad un altro tipo, andando così a ripercuotersi anche sulla personalità del clinico, alterando la sua immagine e la sua identità. Nel corso del giudizio di merito, la posizione giuridica lesa era stata individuata nel diritto al nome e pertanto ricondotta all’art. 7 c.c., seppure per il tramite di una interpretazione estensiva ed evolutiva di questa disposizione. La Corte di Cassazione, nel ribaltare l’impostazione delle corti di merito, elabora nella sua motivazione un’articolata definizione del diritto all’identità personale, ed un’approfondita valutazione del suo fondamento normativo, nonché dei suoi rapporti con altri diritti della personalità.

Secondo la Cassazione, il diritto all’identità personale va definito nei seguenti termini: «ciascun soggetto ha interesse, ritenuto generalmente meritevole di tutela giuridica, di essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua vera identità, così come questa nella realtà sociale, generale e particolare, è conosciuta o poteva essere conosciuta con l’applicazione dei criteri della normale diligenza e della buona fede soggettiva; ha, cioè, interesse a non vedersi all’esterno alterato, travisato, offuscato, contestato il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale ecc. quale si era estrinsecato od appariva, in base a circostanze concrete ed univoche, destinato ad estrinsecarsi nell’ambiente sociale»65.

La Corte, sempre nella sopra citata sentenza, afferma che «mentre i segni distintivi (nome e pseudonimo) identificano, nell’attuale ordinamento, il soggetto sul piano dell’esistenza materiale e della condizione civile e legale e l’immagine evoca le mere sembianze fisiche della persona, l’identità rappresenta, invece, una formula sintetica per contraddistinguere il soggetto da un punto di vista globale nella molteplicità delle sue specifiche caratteristiche e manifestazioni (morali, sociali, politiche, intellettuali e professionali), cioè per esprimere la concreta ed effettiva personalità individuale del

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soggetto quale si è venuta solidificando od appariva destinata, in base a circostanze univoche, a solidificarsi nella vita di relazione» . Anche la Corte Costituzionale affermò che il diritto all’identità personale è «il diritto ad essere sé stesso inteso come rispetto dell’immagine partecipe alla vita associata, con le acquisizioni di idee ed esperienze, con le convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali che differenziano, ed al tempo stesso qualificano, l’individuo»66.

Nel rapporto tra diritto al nome e diritto all’identità personale dottrina e giurisprudenza assumono posizioni contrastanti.

Secondo l’orientamento prevalente67, il diritto al nome non gode,

nell’ambito dei diritti della personalità, di una propria autonomia, in quanto svolgerebbe un ruolo funzionale e strumentale rispetto al più ampio diritto all’identità personale. Il nome non rappresenta solo uno strumento di identificazione fisica del suo titolare, ma può rappresentare anche la personalità dell’individuo intesa come strumento di identificazione e manifestazione dell’identità personale dell’individuo.

Al nome infatti vengono affiancati anche altri strumenti di identificazione idonei a manifestare la personalità dell’individuo come pseudonimo nonché la paternità, la maternità e i segni relativi alla propria immagine.

La parte minoritaria68 della dottrina e della giurisprudenza, invece,

afferma che nome e identità appartengono a due piani giuridici differenti, e questo è sostenuto anche dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.3769/1985, dove si evidenzia che «fra il diritto al nome (e agli altri segni distintivi), così come risulta disegnato dagli artt. 6 e 7 codice civile e viene inteso tradizionalmente dalla giurisprudenza e dalla dottrina ed il diritto all’identità, così come questo ormai viene

66 Corte Costituzionale, 3 febbraio 1994, n. 13, in Rass. Avv. Stato, 1994, I, 24.

67 Sul punto si veda G.Manera, Sulla possibilità per l’adottato maggiorenne, già figliodi ignoti, di

conservare il proprio cognome originario, in Dir. Fam. E pers., 2002, I, 11; R. Festa, La Corte Costituzionale conferma l’annoverabilità del diritto al nome fra i diritti inviolabili della persona, in

Dir. Fam. E pers., 2002, I, 18; A.De Cupis, I diritti della personalità, op.cit, 403 ss.; Corte Cost. 11 maggio 2001, n.120 in Giur.it, 2001, 2238.

68 V. Zeno Zencovich, Personalità (Diritti della), Noviss. Dig. It., IV, Torino, 1995, 300; G.Bavetta

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