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La protezione dei diritti sociali nello spazio giuridico europeo ed il potenziale impatto della Brexit

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Academic year: 2021

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Università di PISA

Dipartimento di Scienze Politiche

Laurea Magistrale in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni Classe LM - 63

Tesi di Laurea in

Governo Regionale e Locale nello spazio giuridico europeo e

Costituzione economica e Stato Sociale

“La protezione dei diritti sociali nello spazio giuridico europeo ed il potenziale impatto della Brexit”

Relatrice:

Chiar.ma Dott.ssa Elettra STRADELLA

Candidata:

Stefania AGOSTINI

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A Cristian e alla mia famiglia, la conditio sine qua non

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“…lo scopo del Consiglio d’Europa è di realizzare un’unione più stretta tra i suoi membri per salvaguardare e promuovere gli ideali ed i principi che rappresentano il loro patrimonio comune e favorire il progresso economico sociale, in particolare mediante la difesa e lo sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali…”

Estratto dal Preambolo della Carta Sociale Europea

Indice ………...…….. pag. 3

Introduzione ………. pag. 5

CAPITOLO I - Dalla cittadinanza europea alla garanzia dei diritti sociali

1.1 La cittadinanza europea: un nuovo tipo di cittadinanza ……...….….pag. 8 1.2 L’evoluzione della cittadinanza europea all’interno dei Trattati ……... pag. 12 1.3 Il sistema dei diritti sociali nello spazio giuridico europeo …………... pag. 15 1.4 Il percorso interpretativo della Corte di Giustizia dell’Unione europea in

materia di diritti sociali ……….. pag. 23 1.5 Effettività dei diritti sociali in Europa alla luce della crisi economica .. pag. 32

CAPITOLO II - La Brexit: occasione per una riflessione giuridico - costituzionale

2.1 Il federalizing process europeo ………. pag. 37 2.2 Il processo europeo non si può interrompere (?)……… pag. 42 2.3 Uscire dall’Europa: da mera utopia a realtà ……….…………. pag. 45

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2.4 Il caso “Miller”: prova di resistenza per il costituzionalismo britannico ………. pag. 50 2.5 Lo scenario europeo post Brexit: un processo in divenire ………..…… pag. 57

CAPITOLO III - La protezione dei diritti sociali nel Regno Unito ed il potenziale impatto della Brexit

3.1 L’affermazione dei diritti sociali e la costruzione del welfare state in Gran Bretagna ……….………..………… pag. 62

3.2 Il Regno Unito e la Cedu: il complesso rapporto tra diritti fondamentali e common law ………...….………….. pag. 70 3.3 Il principio di ospitalità: mobilità intraeuropea e diritti sociali ……..… pag. 76 3.4 L’accesso al sistema di welfare nel diritto europeo …..…………...….. pag. 79 3.5 La questione: sostenibilità presente e futura del welfare del Regno Unito ………..………. pag. 84 3.6 Il potenziale impatto della Brexit sul diritto del lavoro europeo e britannico ………..………. pag. 88 3.7 Brexit e libertà di circolazione dei cittadini U.E nel mercato interno: il costo dei diritti sociali ………...………. pag. 92

Conclusioni …...………...……… pag. 96

BIBLIOGRAFIA E LETTURE UTILI ALL’APPROFONDIMENTO DELL’ELABORATO …………...………..….pag. 101

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INTRODUZIONE

Negli ultimi anni ciascuno di noi - volente o nolente, per motivi di studio o semplicemente perché bombardato dalle notizie di cronaca - si è imbattuto nella questione “Brexit”, senza dubbio uno dei fenomeni politico-istituzionali più rilevanti degli ultimi decenni in Europa.

Da molto tempo viene paventata la possibilità, per uno Stato membro, di poter uscire dall’Unione europea: pensiamo ad esempio al dibattito politico italiano, in cui questa soluzione viene sovente prospettata come il rimedio a tutti i mali. Troppo spesso si parla della necessità di rispondere in maniera decisa alla crisi economica - magari con la convinzione che uscire dall’Europa voglia in qualche modo dire lasciarsi alle spalle anche la crisi dell’eurozona - mentre troppo poco spesso si discute del costo reale che questa sta comportando. Un prezzo elevatissimo in termini di garanzia dei diritti dell’individuo, in termini di integrazione (non solo europea, ma in tutte le sue sfaccettature), in termini di valori democratici.

È proprio in una situazione inaspettata come questa, dove il contesto potrebbe assumere dei tratti imprevedibili, che ci si inizia a domandare cosa possa comportare per i cittadini europei, un fenomeno come quello che abbiamo visto accadere nel Regno Unito.

Dalla volontà e dall’interesse di cercare di dare una risposta a questi interrogativi, nasce l’idea del presente elaborato che si pone come obiettivo quello di condurre un’approfondita riflessione sui diversi temi che gravitano intorno al sorprendente risultato del referendum Brexit del giugno 2016.

Effettività dei diritti sociali, libertà di circolazione, integrazione europea: sono tutte tematiche tenute insieme da un unico filo conduttore rappresentato dall’istituto della cittadinanza europea, quale generatore di rinnovati diritti. È proprio in uno scenario dove questo “collante” giuridico salta - come nel caso dell’uscita di un Paese membro dall’Unione europea - che si rende necessario tentare di comprendere in profondità quali ne potranno essere le conseguenze. La finalità del lavoro è dunque quella di offrire, attraverso un’analisi attenta e circostanziata dei numerosi contributi in materia, ulteriori e nuovi spunti di

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riflessione tanto sulle questioni di carattere costituzionale e politico-istituzionale, quanto su quelle inerenti il processo di integrazione europea da un punto di vista giuridico e di tutela dei diritti.

Il percorso argomentativo che verrà intrapreso, trae infatti origine dal concetto di cittadinanza europea quale fascio di posizioni giuridiche, attive e passive, riconosciute al soggetto nella sua qualità di membro di una stessa comunità, dalla sua evoluzione e dal suo rapporto con il sistema di garanzia dei diritti sociali. Attraverso una lettura in chiave critica delle pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea si comprenderà come la tutela e la garanzia dei diritti sociali sia stata soggetta ad improvvise inversioni di tendenza dovute a dinamiche politico-economiche, che in qualche modo hanno messo in dubbio lo stesso processo di integrazione europea.

Un’integrazione della cui esistenza i cittadini hanno sempre in qualche modo dubitato e che sicuramente ha visto nella crisi economica uno degli ostacoli principali da superare, un prisma che ha riflesso, mettendole in evidenza, tutte le criticità di un processo mai concretizzato completamente.

In un momento di difficoltà economica, la questione sociale ritrova una sua centralità nel dibattito politico, perché la fruizione di servizi volti alla tutela di diritti sociali fondamentali ha un costo effettivo - non a caso si dice che tale categoria di diritti sia, appunto, finanziariamente condizionata. Con la crisi economica, infatti, il cittadino percepisce maggiormente gli effetti della mancanza di risorse economiche che automaticamente si risolve in una carenza di servizi pubblici. Questa percezione scatena una “guerra tra poveri”, in cui la soluzione al problema diviene il tentativo di ridurre il campo dei possibili fruitori del servizio sociale indispensabile.

Questo è in buona parte accaduto anche nel Regno Unito, un Paese che storicamente si è fatto pioniere del moderno concetto di welfare state. Un Paese che, proprio per il suo essere all’avanguardia nella tutela e nella garanzia del rispetto dei diritti sociali, è stato meta di flussi migratori provenienti dallo stesso continente europeo. Un fenomeno di per sé antico ma veicolato da nuovi ed innovativi impulsi, da un concorso di cause inedite di natura economica, politica e

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sociale, che hanno condotto molti cittadini europei a domandare condizioni di esistenza migliori al di fuori dei confini dei propri Stati di appartenenza.

È in un contesto come questo che l’euroscetticismo riscopre nuova linfa vitale e riesce a condurre a risultati inaspettati come quello del referendum Brexit.

Nel corso della trattazione si cercherà di analizzare nel dettaglio tutti i motivi che hanno condotto al referendum e l’impatto che l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea ha avuto (ed avrà) sullo stesso costituzionalismo britannico, concludendo con l’esame del potenziale impatto della Brexit sull’accesso al sistema di welfare e sulla libertà di circolazione dei cittadini U.E.

A conclusione di questa premessa, è necessario evidenziare come al momento della stesura del presente elaborato, ancora non si sia completamente e ufficialmente delineato quello che sarà l’effettivo e reale scenario europeo post Brexit. Si tratta di un processo ancora in divenire, i negoziati hanno condotto soltanto recentemente - il 14 novembre scorso - al raggiungimento di un accordo, il “Withdrawal Agreement”, finalizzato a disciplinare i diversi aspetti che riguarderanno le future relazioni tra Regno Unito ed Unione Europea, un documento che focalizza l’attenzione sulla disciplina dei rapporti durante il periodo di transizione, lasciando però, ancora molto spazio all’immaginazione in relazione a ciò che succederà decorso tale termine. L’obiettivo che l’accordo intende conseguire è sicuramente quello di offrire certezza giuridica una volta che i Trattati e la legislazione U.E. cesseranno di essere applicati nel Regno Unito e contestualmente, rendere l’intero processo il più possibile chiaro, semplice e comprensibile per i cittadini interessati. Lo sforzo che il presente lavoro intende compiere è pertanto quello di provare a ricostruire le possibili conseguenze della Brexit e ad analizzare le soluzioni prospettate, con la consapevolezza della natura estremamente dinamica del tema, che sicuramente sarà ancora oggetto di vivaci ed articolate trattative a livello europeo negli anni avvenire.

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CAPITOLO I

Dalla cittadinanza europea alla garanzia dei diritti sociali

1.1 La cittadinanza europea: un nuovo tipo di cittadinanza

La cittadinanza definisce il peculiare rapporto degli individui con la comunità politica di appartenenza, rapporto caratterizzato dalla titolarità di un fascio di diritti e di doveri il cui contenuto si plasma in relazione alla forma di Stato esistente in un determinato momento storico1. Lo status di cittadinanza europea

non solo garantisce il godimento di vari diritti, tra i quali assumono preminenza il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli altri Stati membri, ma soprattutto reca con sé il riconoscimento di prerogative, quali il trattamento nazionale rispetto alla situazione dei cittadini dello Stato ospitante, che non sono semplicemente necessarie per la piena realizzazione dello status di cittadino europeo, ma sono connaturate all’idea stessa di cittadinanza europea e alla portata costituzionale che essa ha acquisito nel tempo2. D’altra parte, esigenze di “completa parità di trattamento” tendono ad interferire con gli interessi legittimi degli Stati membri allorché il cittadino europeo in mobilità invochi il principio di non discriminazione: in questi casi, l’obbligo per gli Stati di garantire la parità di trattamento anche per prestazioni di carattere assistenziale può incidere sui rispettivi sistemi nazionali di welfare. L’idea quindi della cittadinanza come statuto d’integrazione sociale a beneficio di cittadini che si spostano nel territorio dell’Unione tende, inevitabilmente, a collidere con l’interesse degli Stati membri a preservare la sostenibilità dei rispettivi sistemi di welfare3.

1 L. MONTANARI, La cittadinanza in Europa: alcune riflessioni sugli sviluppi più recenti, in Rivista AIC (Associazione italiana dei costituzionalisti), n. 2/2012, pag. 1.

2 M.E. BARTOLONI, Lo status del cittadino dell’Unione in cerca di occupazione: un limbo normativo? in European Papers, Volume 1 N. 1, 2016, pag. 153.

3 S. GIUBBONI, Cittadinanza, lavoro e diritti sociali nella crisi europea, in Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, 2013, pag. 501.

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È opportuno ricordare che, tradizionalmente, la cittadinanza è stata infatti oggetto di studio in due differenti prospettive: come legame di appartenenza ad una data comunità politica e come complesso di posizioni giuridiche, attive e passive, riconosciute al soggetto nella sua qualità di membro di quella stessa comunità. Nella prima accezione, la cittadinanza è intesa, come status, il cui riconoscimento rappresenta la condizione per il godimento di diritti e per l’attribuzione di doveri4. L’evoluzione più recente del concetto di cittadinanza invece, caratterizzata, da un lato, dall’universalizzazione dei diritti umani, che si ritiene spettino a tutte le persone a prescindere dal loro rapporto con uno specifico ordinamento giuridico nazionale, e, dall’altro, dallo sviluppo - in particolare in ambito europeo - di organizzazioni sovranazionali i cui poteri vanno ad incidere direttamente sulla posizione dei Paesi membri, rende particolarmente complesso riflettere su questo tema. È ben noto infatti, come fuori dai confini degli Stati nazionali si sia andato consolidando, negli ultimi decenni, uno spazio di norme e regole che si sviluppa grazie all’attività normativa e para-giurisdizionale di autorità ultra-statali, che è capace di limitare il potere degli Stati e che può avere tra i suoi destinatari direttamente i cittadini di questi ultimi5. L’impatto di questo nuovo assetto dei rapporti tra ordinamenti statali ed ordinamenti ultra-statali sull’istituto della cittadinanza statale è stato studiato, nelle scienze sociali, sottolineando principalmente la tendenza che Seyla Benhabib ha efficacemente chiamato della “disaggregazione della cittadinanza”, ovvero quel processo che ha portato ad espungere dallo status civitatis una molteplicità sempre più consistente di diritti, oggi estesi agli stranieri residenti, benché questi ultimi frequentemente non condividano l’identità collettiva dello Stato ospitante, né alcuni dei diritti derivanti dall’appartenenza politica6. Nell’ambito del diritto costituzionale, in particolare, sono stati approfonditi i risvolti sullo status civitatis dell’applicazione del divieto di discriminazione in base all’origine nazionale previsto da alcune convenzioni internazionali, con particolare riferimento, in ambito europeo, all’art.

4 G. ROMEO, La cittadinanza sociale nell’era del cosmopolitismo: uno studio comparato, Edizioni CEDAM, Milano, 2011, pag. 1.

5 E. A. FERIOLI, La cittadinanza “oltre” lo Stato. Interferenze internazionali e sovranazionali nell’acquisto e conservazione della cittadinanza statale, in Rivista AIC (Associazione italiana dei costituzionalisti), n. 1/2017, pag. 2.

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14 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo ed all’art. 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e la relativa interpretazione giurisprudenziale. Sono state così ricostruite le interferenze tra l’applicazione del divieto di discriminazione in base all’origine nazionale ed il principio costituzionale di uguaglianza e si è teso soprattutto a sottolineare il superamento, dentro i confini statali, della cittadinanza nazionale quale condizione di accesso a determinati diritti e prestazioni, in particolare di natura sociale7.

Nonostante diversi documenti internazionali facciano riferimento al diritto ad avere una cittadinanza - l’art. 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ad esempio, prevede che “ogni uomo ha diritto alla cittadinanza” - e alla lotta contro l’apolidia, nulla si dice quanto ai contenuti e ai criteri di attribuzione della stessa, lasciati, soprattutto questi ultimi, alla discrezionalità degli Stati, secondo quel consolidato principio di diritto internazionale che prevede che la disciplina della cittadinanza rientri tra le materie riservate alla sovranità dello Stato. Tale principio è stato accolto anche dall’Unione europea, come viene costantemente ribadito nelle decisioni della Corte di giustizia8.

La caratteristica della cittadinanza europea è pertanto che, malgrado le diverse formulazioni, resta ancorata alla cittadinanza nazionale, né le istituzioni europee possono interferire nelle modalità di acquisizione della cittadinanza nazionale9. Al massimo, come è stato sottolineato, l’attuale formulazione sembrerebbe prefigurare “una sorta di seconda cittadinanza, che permetterebbe a quella europea di diventare uno status autonomo […] La cittadinanza nazionale rappresenterebbe solo la porta d’accesso a quella europea, che sarebbe altro rispetto alla prima in quanto assoggettabile a una disciplina diversa che conferisce direttamente diritti che ineriscono a un ordinamento autonomo, quello dell’Unione Europea”10. Da

7 E. A. FERIOLI, op. cit., pag. 3.

8 Si può prendere come primo riferimento la decisione Micheletti del 1992 (sent. Corte giust., 7.7.1992, causa C-369/90, in Racc., I4239), ma il principio è riconfermato anche nelle decisioni più recenti, v. da ultimo la sentenza Rottmann del 2010 (sent. Corte giust., 2.3.2010, causa C-135/09, reperibile sul sito della Corte all’indirizzo www.curia.eu).

9 P. GARGIULO e L. MONTANARI, Le forme della cittadinanza. Tra cittadinanza europea e cittadinanza nazionale, Ediesse, Roma, 2012.

10 C. MARGIOTTA, Cittadinanza europea, Laterza, Roma-Bari, 2014, pp. 126-127 e E. TRIGGIANI (a cura di), Le nuove frontiere della cittadinanza europea, Cacucci, Bari, 2011.

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questo punto di vista, la cittadinanza europea presenta una natura “duale”11,

sintetizzata dalla formula “si aggiunge alla cittadinanza nazionale” del Trattato di Lisbona che, se da una parte apre la strada all’acquisizione di uno status autonomo rispetto alla cittadinanza nazionale, dall’altra non risolve la sua dipendenza da questa12. La cittadinanza europea, non costituisce quindi un’alternativa allo status delle cittadinanze nazionali, ma ne rappresenta una specifica integrazione. Essa, infatti, si costruisce tanto attraverso condizioni di sostituzione della cittadinanza nazionale (il diritto alla protezione diplomatica ne è un caso esemplare13) quanto attraverso dispositivi di ampliamento, che prevedono il riconoscimento al cittadino europeo di prerogative aggiuntive rispetto a quelle dei cittadini dei meri stati nazionali14. Il testo dei trattati (ad esempio, il Trattato di Amsterdam) precisa esplicitamente che “la cittadinanza dell’Unione costituisce un completamento della cittadinanza nazionale e non si sostituisce a quest’ultima”15.

Tuttavia l’istituzione, con il Trattato di Maastricht, della cittadinanza europea quale cittadinanza duale, derivata da quella nazionale, fa sì che le scelte operate dai singoli Stati non siano prive di conseguenze a livello europeo: l’attribuzione della cittadinanza nazionale, infatti, implica l’acquisto anche di quella dell’Unione e la possibilità di godere dei diritti alla stessa connessi16. Al di là di ogni discussione sui contenuti di questi diritti, va segnalato che la Corte di giustizia, a partire dalla decisione Grzelczyk del 2001, di cui analizzeremo alcuni aspetti nel seguito della trattazione, afferma costantemente che “lo status di cittadino

11 V. LIPPOLIS, La cittadinanza europea, il Mulino, Bologna, 1994; T. FAIST (a cura di), Dual citizenship in Europe. From nationhood to societal integration, Ashgate, Farnham, 2007 e C. MARGIOTTA e O. VONK, Nationality Law and European Citizenship: The Role of Dual Nationality, EUI Working Papers, RSCAS 66, Robert Schuman Centre For Advanced Studies Eudo Citizenship Observatory, 2010.

12 M. C. MARCHETTI, Cittadinanza europea e cittadinanza nazionale. Luci e ombre di un rapporto difficile, in SOCIETA’MUTAMENTOPOLITICA, ISSN 2038-3150, vol. 7, n. 13, 2016, pp. 141-142.

13 TFUE, art. 23.

14 N. DE FEDERICIS, Problemi e prospettive della cittadinanza oltre lo stato, in (a cura di) M. AGLIETTI e C. CALABRO’ Cittadinanze nella storia dello Stato contemporaneo, Edizioni Franco Angeli, Milano, 2017, pag.162.

15 TCE, art. 17, paragrafo 1. 16 L. MONTANARI, op. cit., pag. 2.

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dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri”17.

1.2 L’evoluzione della cittadinanza europea all’interno dei Trattati

L’istituzione della cittadinanza europea, ad opera del Trattato di Maastricht, segna il punto di arrivo di un percorso intrapreso nei decenni precedenti all’interno della comunità e iniziato già con i Trattati di Roma. Essa ha rappresentato il contrappeso all’unione monetaria, al punto che, come ha sottolineato Viviane Reding - Vice Presidente della Commissione europea (2009 - 2014) e Commissario alla giustizia, diritti fondamentali e cittadinanza - la cittadinanza europea “dovrebbe rappresentare per l’unione politica ciò che l’euro è stato per l’unione monetaria”18.

Il Trattato di Maastricht inserisce nei testi istitutivi della Comunità europea (e della futura Unione) un nuovo corpo di articoli, raggruppati in una sezione intitolata “cittadinanza dell’Unione”. Tale sezione si apre con l’articolo 819, in cui

si proclama che è istituita la cittadinanza dell’Unione e che essa è attribuita a tutti coloro che abbiano la nazionalità di uno Stato membro.

Il testo sovrappone e confonde concettualmente cittadinanza e nazionalità, rivelando una concezione tradizionale e certamente non innovativa dell’attribuzione di diritti e doveri politici. Nel nuovo sistema giuridico dell’Unione, la cittadinanza europea, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, non ha mai un carattere “originario” e piuttosto deriva sempre - ed automaticamente - dalla nazionalità dell’individuo. La cittadinanza europea si può acquisire (o abbandonare) solamente con l’acquisizione o la perdita della nazionalità di uno degli Stati membri. L’ingresso di uno Stato nell’Unione conferisce a tutti i cittadini la cittadinanza europea; l’uscita di regioni dall’Unione

17 Sent. Corte giust., 20.9.2001, causa C-184/99, p.to 31, in Racc. I-6193. Tale formula è stata ripresa in pressoché tutte le decisioni successive in materia di cittadinanza.

18 M.C. MARCHETTI, op. cit., pag. 139.

19 Tale disposizione afferma testualmente che “è cittadino dell’Unione, chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro”.

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(si pensi proprio al caso Brexit, oggetto di questo elaborato) priva i cittadini della medesima cittadinanza europea, qualsiasi sia la loro intenzione personale20.

Il Trattato dispone che il cittadino dell’Unione abbia diritto alla libera circolazione e alla libera residenza nel territorio degli Stati membri, sia pur nel rispetto di atti legislativi di applicazione che dovranno essere emanati dagli Stati membri (art. 8 lettera a). Il Trattato attribuisce il diritto di voto municipale ai cittadini europei residenti in un comune di uno Stato diverso da quello di cui abbiano la cittadinanza, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato (art. 8 lettera b) e il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui si risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato (art. 8 lettera c). A condizioni tutto sommato eccezionali, la cittadinanza europea attribuisce il diritto alla protezione diplomatica da parte di uno qualsiasi degli Stati membri: il cittadino europeo potrà recarsi in un Consolato o Ambasciata di un altro paese dell’Unione, a patto che nella località in cui si trova non vi sia alcuna rappresentanza del proprio Stato membro (art. 8 lettera d). Il testo di Maastricht introduce inoltre nei Trattati di Roma, il diritto di petizione al Parlamento europeo (già previsto nello Statuto del Parlamento stesso) e la figura dell’ombudsman, cioè il difensore civico (si tratta di una novità prevista all’art. 8 lettera e). Se ci si ferma ad una interpretazione letterale del testo, e non si tenta invece una valutazione prospettica delle possibili evoluzioni al di fuori del quadro del Trattato, inserendo al tempo stesso le nuove norme nel complesso di atti giuridici comunitari già esistenti, gli articoli del Trattato potrebbero sembrare al più una novità sul piano delle proclamazioni, senza immediate conseguenze giuridiche e ricadute politiche. Il diritto comunitario attribuiva infatti già una serie di diritti “fondamentali” ai cittadini degli Stati membri - si pensi alle famose quattro libertà, cioè la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali - e le disposizioni del Trattato di Roma, così come quelle del diritto “derivato” della CEE, potevano essere fatte valere di fronte a qualsiasi giudice nazionale21.

Nel 1997 il Trattato di Amsterdam (entrato in vigore nel 1999) ha integrato all’art. 17 il precedente art. 8, chiarendo meglio il rapporto in cui si vengono a trovare la

20 F. MAZZAFERRO, Cittadinanza europea e nuovi diritti dei cittadini dell’Unione, in www.thefederalist.eu, Saggi Anno XXXV, n. 2, 1993, pag. 65.

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cittadinanza europea e quella nazionale, con l’aggiunta del capoverso che prevede che “la cittadinanza dell’Unione costituisce un complemento della cittadinanza nazionale e non sostituisce quest’ultima”. Inoltre, ha integrato i diritti garantiti ai cittadini europei aggiungendo: il diritto di rivolgersi alle istituzioni europee e organi comunitari in una qualsiasi delle lingue dell’Unione; il diritto di accedere ai documenti del Parlamento europeo.

Tra il Trattato di Amsterdam e l’attuale formulazione della cittadinanza europea all’interno del Trattato di Lisbona si collocano due passaggi importanti: il riconoscimento della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea ad opera del Trattato di Nizza e l’esperienza della Costituzione europea. È con il Trattato di Nizza (2000) che emerge con maggior chiarezza la possibilità di un ampliamento, nonché di un’evoluzione dei diritti di cittadinanza. Il Consiglio europeo di Nizza ha sottoscritto infatti la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea che è entrata ufficialmente in vigore con il Trattato di Lisbona. La Carta non introduce nuovi diritti, rispetto a quanto già garantito dai Trattati, ma si limita a riunire in un unico testo i diritti civili, politici, economici e sociali dei cittadini europei. Inoltre, secondo una tradizione propria delle carte dei diritti fondamentali, apre la strada ad un riconoscimento di tali diritti a tutte le persone che vivono sul territorio dell’Unione22. L’esperienza della Costituzione europea, malgrado il suo esito

negativo, ha consentito di gettare le basi per un ulteriore ampliamento e rafforzamento dei diritti di cittadinanza, che saranno poi recepiti dal Trattato di Lisbona. Due sono infatti le novità più significative introdotte dal Trattato costituzionale: 1) la costituzionalizzazione della Carta di Nizza e 2) l’inserimento di un Titolo (il Titolo VI dagli articoli I-44 all’I-51) dedicato alla Vita democratica dell’Unione, all’interno del quale sono avanzate proposte significative sul tema della cittadinanza. Il Trattato di Lisbona (2009) ha ulteriormente rivisto lo statuto della cittadinanza europea: rispetto alla versione precedente, la formula “la cittadinanza dell’Unione costituisce un complemento della cittadinanza nazionale” viene sostituita con l’espressione “si aggiunge” alla cittadinanza nazionale. Tale formula, ha dato luogo a interpretazioni differenti: vi è chi la ritiene priva di sostanziali conseguenze e chi invece ipotizza che possa

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aprire la strada ad una cittadinanza europea staccata da quella nazionale. Tuttavia nel momento in cui sono state modificate le modalità di attribuzione della cittadinanza dell’Unione, la scelta linguistica può essere vista come un modo per ribadire la centralità della cittadinanza nazionale, cui quella europea si aggiunge, senza neppure essere complementare alla stessa23.

Il Trattato di Lisbona inoltre definisce i deputati del Parlamento europeo “rappresentanti dei cittadini dell’Unione” (art.14), sostituendo la formula precedentemente utilizzata di “rappresentanti dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità” (art. 189 del Trattato che istituisce la Comunità europea). Con il Trattato di Lisbona si compie pertanto il passaggio da una nozione di cittadinanza fondata sulla libera circolazione all’interno del mercato comune ad una cittadinanza democratica, maggiormente attenta ai diritti di partecipazione dei cittadini alla vita politica dell’Unione. L’istituzione dell’Iniziativa dei cittadini europei (art. 11, paragrafo 4) rappresenta l’apice di un percorso volto a stabilire una relazione più stretta tra cittadinanza e democrazia europea. Dall’evoluzione, evidenziata dai trattati, della formulazione scelta per definire la cittadinanza europea emergono due peculiarità: da una parte il rapporto che essa intrattiene con la cittadinanza nazionale e dall’altra con il principio della libera circolazione dei cittadini sul territorio dell’Unione24. I due aspetti, pur tra loro distinti, presentano

interessanti punti di contatto, come avremo modo di approfondire nel seguito della trattazione, soprattutto alla luce della recente crisi economica.

1.3 Il sistema dei diritti sociali nello spazio giuridico europeo

Come abbiamo esaminato nei paragrafi precedenti, l’evoluzione del concetto di cittadinanza europea e il rafforzato riconoscimento delle garanzie - insite in tale istituto - ad opera dei Trattati, hanno condotto a riflettere su come sia effettivamente possibile parlare della progressiva affermazione di un sistema dei diritti sociali nell’ambito dell’Unione europea. Una forma di tutela che ha tuttavia

23 L. MONTANARI, op. cit., pag. 5. 24 M.C. MARCHETTI, op. cit., pp. 140-141.

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sicuramente rappresentato, almeno sino ai Trattati di Maastricht e Amsterdam, l’aspetto di maggiore fragilità del processo di integrazione europea.

Occorre premettere come storicamente, la proclamazione dei diritti sociali in ambito internazionale sia infatti avvenuta solo in un secondo momento, quasi a sottolineare la posizione di primazia dei diritti civili e politici sui diritti economici e sociali. Emblematico in tal senso il fatto che il Patto sui diritti economici e sociali e la Carta sociale europea si affiancano rispettivamente alla Dichiarazione universale sui diritti umani e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo ma tuttavia non vengono dotate di effettive garanzie giurisdizionali.

Una diversa conclusione non può pervenire nemmeno dalla cornice europea dove, fin dalle origini, nel Trattato di Roma la questione sociale era relegata “sullo sfondo, mentre tutto lo sforzo progettuale era diretto alla ripresa economica attraverso il miglioramento dell’efficienza e dei meccanismi competitivi”25.

Il riconoscimento pretorio dei diritti fondamentali da parte della Corte di giustizia è stato formalizzato nel Trattato di Maastricht e ribadito da quello di Amsterdam, i quali, tuttavia, hanno riservato una dignità normativa differente ai diritti e alle libertà fondamentali e ai diritti sociali. I diritti umani, infatti, erano stati già elevati a criteri per l’adesione all’Unione europea nel Consiglio europeo di Copenaghen del 21/22 giugno 1993. In tale contesto l’art. F, par. 2, TUE (che, nel successivo Trattato di Amsterdam, diviene art. 6, par. 2) stabiliva che “L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmate a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario”. Il riconoscimento era limitato ai diritti e alle libertà fondamentali e non ai diritti sociali. La tutela delle libertà e dei diritti fondamentali era rafforzata, inoltre, dall’esplicita previsione che i Paesi candidati dovessero rispettare tali diritti26 e dalla formale introduzione

25 M. LUCIANI, Diritti sociali e Integrazione europea, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI COSTITUZIONALISTI, La Costituzione europea, Atti del Convegno di Perugia 7-9 ottobre 1999, CEDAM, Padova, 2000, pag. 367.

26 Art. 49, par. 1, TUE: “Ogni Stato europeo che rispetti i principi sanciti nell’articolo 6, paragrafo 1 può domandare di diventare membro dell’Unione. Esso trasmette la sua domanda al Consiglio, che si pronuncia all’unanimità, previa consultazione della Commissione e previo parere conforme del Parlamento europeo, che si pronuncia a maggioranza assoluta dei membri che lo compongono”.

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di un meccanismo sanzionatorio che, attraverso una complessa procedura, poteva condurre alla sospensione dall’Unione per lo Stato membro che avesse violato i diritti fondamentali27.

Con i Trattati di Maastricht e, successivamente, Amsterdam pertanto, si assiste “all’edificazione di un embrionale impianto sociale dell’Unione, dal momento che essi contengono numerosi riferimenti a compiti ed obiettivi sociali”28, i richiami alla coesione sono frequenti dove essa si presenta come pre-requisito delle politiche pubbliche, più che come obiettivo di queste ultime. Ed è senz’altro questo l’aspetto caratterizzante delle politiche sociali europee, dove il peso dominante è attribuito alla costituzione economica europea ed agli obiettivi ed interessi da essa tutelati, più che alla soddisfazione della dimensione prettamente sociale, confermando quella visione funzionalistica tipica dell’intervento europeo in materia.

A seguito di questo originario approccio dell’Unione alla “questione” sociale che comunque, come vedremo, rappresenta il filo conduttore della nostra analisi, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea - proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e aggiornata nella seconda Convenzione, poi proclamata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, divenuta giuridicamente vincolante a seguito della ratifica del Trattato di Lisbona - potrebbe essere considerata la tappa finale verso la costruzione di un compiuto spazio costituzionale europeo29.

Tuttavia è senz’altro imprescindibile ricordare l’originaria matrice esclusivamente economicistica del diritto comunitario, portato anche di quella iniziale divisione di competenze tra ciò che avrebbero dovuto fare le istituzioni comunitarie che si andavano a creare e ciò di cui si dovevano (continuare a) occupare, invece, le Costituzioni nazionali: da un lato, le libertà economiche e il mercato comune, dall’altro, le politiche di welfare e di protezione sociale, da perseguire all’interno di ogni singolo Stato; da una parte, politiche o azioni volte a superare discriminazioni, nel campo dei diritti del lavoro in particolare, dall’altra, politiche

27 Si rinvia all’art. 7 TUE per la descrizione della procedura di attivazione del meccanismo sanzionatorio.

28 G. ROMEO, op. cit., pp. 96-97.

29 T.N. POLI, Diritti sociali ed eguaglianza nello spazio giuridico europeo, in Amministrazione in cammino (Rivista elettronica di diritto pubblico, di diritto dell’economia e di scienza dell’amministrazione) del 28 maggio 2014, a cura del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet”, pag. 5.

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redistributive, frutto forse di due “interpretazioni rivali del principio di eguaglianza”30.

I diritti sociali appaiono pertanto, oltre che finanziariamente ed economicamente condizionati, “relativizzati, ingabbiati dal dispotismo dei mercati, ed i principi che ne costituiscono la matrice sono ancora una volta rinviati in uno spazio giuridico in cui la loro effettività è di fatto sospesa”31. Inevitabilmente sono chiamate in causa le condizioni poste dai governanti europei al progetto di integrazione europea. Mentre i Trattati escludono la competenza dell’Unione in materie fondamentali per l’affermazione dei diritti sociali, sottratte in tal modo a politiche di armonizzazione, gli ostacoli posti alla piena operatività della Carta dei diritti fondamentali (quali fonti direttamente applicabili ai rapporti interprivati nell’ambito dell’Unione) ed il primato dell’obiettivo della realizzazione del mercato interno dimostrano, inter alia, quanto lontano sia nell’agenda europea il tema della costruzione di un welfare europeo32. A conferma di questa limitazione

dell’operatività dei diritti fondamentali “europei”, l’art. 51, par. 2, precisa che la Carta “non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei Trattati”.

L’art. 151 TFUE stabilisce ancora che “L’Unione e gli Stati membri, tenuti presenti i diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti dalla Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, hanno come obiettivi la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione”, il cui raggiungimento da parte dell’Unione e degli Stati membri deve tener conto “della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell’economia dell’Unione”, nonché della

30 G. GRASSO, I diritti sociali e la crisi oltre lo Stato nazionale, in Rivista AIC, n. 1/2016, pp. 2-3.

31 A. RUGGIERI, Corti e diritti in tempi di crisi, in gruppodipisa.it, 2012.

32 G. FONTANA, Crisi economica ed effettività dei diritti sociali in Europa, in Forum di quaderni costituzionali, 27 novembre 2013, pag. 1.

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considerazione che una siffatta evoluzione “risulterà sia dal funzionamento del mercato interno, che favorirà l’armonizzarsi dei sistemi sociali, sia delle procedure previste dai trattati e dal riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative”33. La previsione di standard minimi di tutela è espressamente esclusa in due dei settori di maggiore rilevanza della politica sociale: la lotta contro l’esclusione sociale e la modernizzazione dei regimi di protezione sociale. Allo stesso modo le eventuali disposizioni adottate dalle istituzioni non devono compromettere, a norma dell’art. 153, par. 4, “la facoltà riconosciuta agli stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale e non devono incidere sensibilmente sull’equilibrio finanziario dello stesso”.

A partire dall’Atto Unico Europeo del 1986 e, poi, dal Trattato di Maastricht del 1992; l’irruzione delle problematiche sociali dentro al diritto europeo si è poi completata nel momento in cui, con la Carta dei diritti fondamentali del 2001, vi è stata una significativa elencazione di molti (ma non tutti i) diritti sociali conosciuti a livello nazionale, per poi giungere all’incorporazione della medesima Carta nel Trattato di Lisbona del 2009 e a una relativa finalizzazione sociale di numerose disposizioni del Trattato, intorno al principio di un’Europa che persegue sì un’economia sociale di mercato, ma fortemente competitiva, non va mai dimenticato. L’impressione che si ricava dalla lettura delle norme contenute nei trattati è proprio che vi sia tra “il fine della realizzazione di un mercato libero comune e la tutela dei diritti sociali una sorta di rapporto di funzionalità, nel senso che il primo è ritenuto capace di favorire di per sé la seconda”34.

Tuttavia, rimane più di un dubbio che la fondamentalità dei diritti sociali, intorno a un loro nucleo irriducibile di tutela, resti, nel contesto del diritto europeo, affievolita (si parlò, non a caso, di diritti sociali, a livello europeo, relegati in una posizione di retroguardia35), sia nel confronto con la fondamentalità delle libertà economiche, sia se posta a raffronto con la struttura dei diritti sociali che innerva alcune Costituzioni nazionali, con risultanze non prive di contraddizioni e sulle quali anche la giurisprudenza della Corte di giustizia, come è noto e come si

33 T.N. POLI, op. cit., pp. 6-7. 34 G. ROMEO, op. cit., pag. 99.

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ricorderà, ha giocato una partita decisiva36. A questo si aggiunga che il tardivo dispiegarsi, rispetto alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, della Carta sociale europea, approvata nel 1961 ma che, solo con la revisione del 1996, si è cominciata a prendere sul serio come vedremo nel seguito della trattazione, seppur non tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa abbiano ratificato a oggi il testo riveduto, dimostrava che sui diritti sociali esisteva uno stato di inferiorità, che probabilmente non si è mai del tutto colmato, perché non vi è un giudice a Strasburgo per i diritti sociali, ma un organo non giurisdizionale di tutela, il Comitato europeo dei diritti sociali; perché nella Convenzione esistono in fondo solo un paio di previsioni che espressamente possono farsi rientrare dentro alla cornice dei diritti sociali (la libertà sindacale, piuttosto che il diritto all’istruzione) e solo indirettamente la Corte europea dei diritti dell’uomo ha garantito forme di tutela ai diritti sociali medesimi, ovviamente senza quella robustezza che contraddistingue la sua giurisprudenza in materia di diritti civili e politici; perché all’intreccio tra diritto dell’Unione europea e diritto del Consiglio d’Europa ancora la Convenzione è entrata pienamente dentro al diritto dei Trattati, mentre la Carta vi è solo transitata, relegata oggi all’art. 151 del TFUE, quando con l’Atto Unico Europeo risultava sostanzialmente parificata37 alla Convenzione (e, del resto, solo quest’ultimo Atto è citato dalla Carta dei diritti fondamentali); perché, solo astrattamente invero, in considerazione della fragorosa bocciatura della Corte di giustizia del progetto di accordo sull’adesione dell’Unione europea alla Convenzione del dicembre 2014, la circostanza che non sia previsto dai Trattati che l’Unione europea possa aderire alla Carta sociale europea mette quest’ultima in una condizione di potenziale debolezza rispetto alla Convenzione38.

Questa posizione di secondo piano delle disposizioni sui diritti sociali si riflette nella Carta, malgrado essa sia il primo documento sovranazionale che incorpora i diritti sociali insieme ai diritti civili e politici e, a prima vista, riconosca il medesimo statuto normativo alle distinte categorie di diritti. La previsione, in alcuni casi addirittura innovativa, di alcune disposizioni di natura sociale

36 G. GRASSO, op. cit., pag. 3.

37 G. GUIGLIA, Le prospettive della Carta sociale europea, in www.forumcostituzionale, n. 2. 38 G. GRASSO, op. cit., pag. 4.

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(malgrado già ad un rapido confronto con la Costituzione italiana ci si renda conto della mancanza del diritto al lavoro) non può celare la debolezza dell’impianto costituzionale dei diritti sociali a livello europeo, le cui ragioni si rintracciano nell’originaria costruzione dell’edificio europeo e nei problemi di ordine concettuale dovuti alla stessa redazione delle disposizioni sociali della Carta dei diritti39.

Dopo anni di sostanziale letargo, ammesso dai suoi stessi promotori in seno al Consiglio d’Europa, tra la fine degli anni ottanta e la metà degli anni novanta, la Carta Sociale Europea ha però conosciuto un inatteso quanto decisivo rilancio politico. La Conferenza di Granada del 1987, organizzata per commemorare i venticinque anni della Carta, costituisce l’inizio ufficiale del rilancio. In quell’occasione gli interventi del Segretario Generale del Consiglio d’Europa e di altri dirigenti dell’organizzazione non risparmiano considerazioni amare sul carattere subordinato della Carta sociale rispetto alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), di cui avrebbe dovuto costituire il pendant in materia di diritti sociali e riescono ad includere nell’agenda la ripresa di negoziati per riformare il sistema della Carta. Nel 1998 viene elaborato un Protocollo addizionale contenente la tutela di nuovi diritti, ma il problema principale restava il meccanismo di controllo40. Nella sua versione attuale, la Carta riveduta consta di sei parti - sui principi, sui singoli diritti protetti, sugli obblighi degli stati, sui meccanismi di controllo, su varie clausole attuative, sui procedimenti di adesione e denuncia - più un Preambolo e un Annesso relativo all’interpretazione del testo e sua parte integrante. Infine, con modifica più simbolica che sostanziale, dal 1998 il Comitato di esperti indipendenti previsto già nel 1961 come istanza di controllo, e fornito dai due protocolli aggiuntivi di più chiare competenze, assume la denominazione di Comitato europeo dei diritti sociali. Questo processo di rilancio costituisce la premessa per leggere oggi la Carta Sociale e la sua tensione verso maggiore effettività ma, a sua volta, va interpretato nell’orizzonte storico dei primi anni novanta: la fine del socialismo reale e della guerra fredda, l’avvio

39 T.N. POLI, op.cit., pp. 7-8.

40 F. OLIVIERI, La Carta sociale europea tra enunciazione dei diritti, meccanismi di controllo e applicazione nelle corti nazionali. La lunga marcia verso l’effettività., in Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, Fascicolo 3 del dicembre 2008, Il Mulino, Bologna, pag. 509.

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di un processo d’integrazione europea aperto all’est e al sud-est del continente, il consolidamento della dimensione giuridico-politica del progetto comunitario e la nascita dell’Unione europea, l’accelerazione e la più marcata percezione pubblica dei fenomeni di de-nazionalizzazione e di globalizzazione - inclusi quelli di natura giuridica -, la rinascita dei movimenti sociali globali raccolti intorno a rivendicazioni su beni comuni, diritti, giustizia sociale e pace41.

Tuttavia il Trattato e la Carta, nonostante il tentativo di rilancio, non permetterebbero all’Unione di intervenire per rimuovere le diseguaglianze di ordine sociale che, invece, costituiscono uno dei compiti attribuiti dalle Costituzioni nazionali ai poteri pubblici statali. Anzi, sin dal Trattato istitutivo CEE del 1957, il divieto di non discriminazione per nazionalità e l’obbligo di parità di retribuzione tra uomini e donne si sono posti in funzione del perseguimento della libera circolazione dei lavoratori. In tale ottica scompare la dimensione relazionale dell’individuo che viene collocato in una “posizione egoistica e necessariamente egocentrica” relegata all’ambito economico. La disciplina della libertà di impresa (art. 16) e del diritto di proprietà (art. 17), contenuta nella Carta, è stata svincolata da qualsiasi riferimento alla funzione sociale o al bene della collettività, apparendo lontana dalla tradizione del costituzionalismo sociale. Così il funzionamento di questo modello liberista europeo consente e permette di privilegiare la libertà di stabilimento (art. 49 TFUE, ex art. 43 TCE) e la libera prestazione di servizi (art. 56 TFUE, ex art. 49 TCE) a scapito dell’eguaglianza sostanziale con conseguenti rischi di dumping sociale nelle ipotesi di mobilità dei lavoratori da uno Stato membro ad un altro42. In conclusione, è del tutto evidente come l’obiettivo delle politiche perseguite a livello europeo, sia rappresentato da alcuni interessi sociali, come l’occupazione, la protezione sociale, il dialogo tra le parti sociali, ma sembra completamente trascurare la protezione dei diritti sociali come situazioni giuridiche soggettive in sé e per sé considerate. In sostanza, “a prevalere è ancora l’integrazione sistemica su quella sociale”43.

41 F. OLIVIERI, op. cit., pag. 512. 42 T.N. POLI, op. cit., pp. 14-15. 43 G. ROMEO, op. cit., pag. 100.

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1.4 Il percorso interpretativo della Corte di Giustizia in merito al rapporto tra cittadinanza europea e diritti sociali

La garanzia dei diritti sociali fondamentali, come abbiamo avuto in parte modo di approfondire nei paragrafi precedenti, poggia su numerose fonti derivanti da sfere giuridiche distinte - nazionali (le costituzioni), europee (Consiglio d’Europa, Unione europea) e internazionali (Organizzazioni delle Nazioni Unite, Organizzazione internazionale del lavoro). Malgrado il loro fondamento normativo comune, non è stata effettuata un’armonizzazione preliminare di queste fonti che risultano non essere inquadrate da alcun rapporto di tipo gerarchico44. Originariamente, abbiamo visto, come la cittadinanza europea fosse sostanzialmente equiparata al riconoscimento della libera circolazione delle persone, dei servizi, dei capitali e delle merci. Nel Trattato di Roma infatti, tale libertà e i diritti ad essa collegati - residenza e non discriminazione in base alla nazionalità - presentava in realtà una marcata connotazione economica, in linea, con la fase storica del secondo dopoguerra. Il principio della libera circolazione dei cittadini sul territorio dell’Unione rappresentava, sicuramente, il nucleo originario dell’attuale nozione di cittadinanza europea. Tale libertà, in realtà, era garantita ai soli lavoratori ed era assicurata al più tardi al termine del periodo transitorio di dodici anni, fissato per la piena attuazione del mercato comune. Il periodo transitorio fu poi ridotto e, dalla libera circolazione dei lavoratori, si passò alla libera circolazione dei cittadini. Malgrado le limitazioni, “il prodotto di questa fase è tutt’altro che trascurabile: la Cee riconosce infatti una cittadinanza specializzata che per la prima volta viene sganciata da un’appartenenza nazionale per essere collegata a un mercato comune”45. Ed è proprio a partire da questo nucleo originario che si è potuto procedere verso la progressiva integrazione dei diritti fondamentali nel contesto giuridico comunitario. In quest’ambito, un ruolo determinante è stato svolto dalla Corte europea di giustizia la quale, non senza ambivalenze, ha saputo sfruttare i vuoti normativi presenti nell’ordinamento

44 Documento di Bruxelles sul futuro della protezione dei diritti sociali in Europa, Presidenza Belga del Consiglio d’Europa, febbraio 2015, reperibile al link: https://rm.coe.int/168045ad95, pag. 3.

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europeo per procedere ad un ampliamento dei diritti di cittadinanza. In pratica, la Corte ha utilizzato la tutela della libertà di circolazione e soggiorno per stabilire una serie di “diritti soggettivi da rivendicare direttamente e da proteggere nei confronti di tutti”46. Il passaggio successivo consiste nell’emancipare “i diritti fondamentali del cittadino europeo (soprattutto quelli civili) dalla libertà di circolazione, facendo diventare la cittadinanza il suo status primario”47. Un passaggio importante in questa direzione è rappresentato dalla Direttiva 2004/38/EC relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e delle loro famiglie di muoversi e risiedere liberamente nel territorio degli stati membri, che supera definitivamente le restrizioni che limitavano a determinate tipologie tale diritto. La direttiva infatti, determina “le modalità d’esercizio del diritto di libera circolazione e soggiorno da parte dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari” estendendo quindi i diritti garantiti ai cittadini europei anche ai loro familiari, qualunque sia la loro cittadinanza e uscendo una volta per tutte dal rapporto che legava la cittadinanza all’originaria libertà di circolazione dei lavoratori48.

In particolare, l’art. 7.1, lett. a) e b) della direttiva, subordina la libertà di circolazione transfrontaliera per un periodo superiore ai tre mesi e il conseguente accesso cross-border ai diritti sociali all’esercizio di un’attività lavorativa o al possesso di risorse economiche sufficienti, a meno che il cittadino europeo non abbia soggiornato legalmente in un altro Stato membro per un periodo maggiore di cinque anni. È confermata, quindi, la distinzione tra cittadini economicamente attivi e cittadini non economicamente attivi in funzione della consueta logica che favorisce le libertà economiche a dispetto della tutela dei diritti fondamentali49. La Corte pertanto, è stata chiamata ad attenuare la tensione - che riemerge ogniqualvolta il cittadino di uno Stato membro richieda l’accesso alla assistenza sociale in un altro Stato membro - tra due differenti esigenze: quella di proteggere i sistemi di welfare nazionali, da una parte; quella di garantire la portata transnazionale dei diritti e delle prestazioni connesse alla cittadinanza europea, dall’altra50.

46 C. MARGIOTTA, op.cit, pag. 100. 47 C. MARGIOTTA, op.cit, pag. 164. 48 M.C. MARCHETTI, op. cit., pp. 146-147. 49 T.N. POLI, op. cit., pag. 21.

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I passaggi principali che hanno delineato il percorso interpretativo operato dalla Corte europea di giustizia, è senz’altro rintracciabile in alcune sentenze dove la Corte stessa, si è mossa attraverso il ricorso all’azione combinata delle disposizioni sulla cittadinanza e un’interpretazione estensiva dell’art. 20 TFUE, relativo alla cittadinanza europea e ai diritti da essa garantiti.

Nel caso Micheletti (C-369/90 del 1992), la Corte afferma che la legislazione di uno Stato membro non può limitare gli effetti dell’attribuzione della cittadinanza di un altro Stato membro, pretendendo un requisito ulteriore per il riconoscimento di tale cittadinanza, al fine dell’esercizio delle libertà previste dal Trattato. Il principio sembrava così risolversi in una direttiva destinata a regolare i rapporti tra gli Stati membri in merito al rispetto della reciproca indipendenza nell’attribuzione della cittadinanza nazionale, in relazione all’applicazione delle fonti comunitarie51.

Con la sentenza Grzelczyck (C-184/99 del 2001) la Corte ha affermato che “lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri che consente a chi di loro si trovi nella medesima situazione di ottenere, indipendentemente dalla cittadinanza, il medesimo trattamento giuridico”. Il caso Zhu e Chen (C-200/02 del 2004) ha riguardato una famiglia cinese che aveva deciso di far nascere la propria figlia in Irlanda al fine di potersi avvalere della regola dello ius soli in modo così da far acquistare alla bambina la cittadinanza irlandese cui sarebbe derivata la cittadinanza europea. Dopo la nascita, la bambina diventata cittadina irlandese, si trasferì insieme alla madre nel Regno Unito e a quel punto invocava le norme europee per godere di un titolo di soggiorno; la questione sottoposta alla Corte di giustizia era la seguente: si applica e si riconosce la cittadinanza europea o si tratta di un caso di abuso di diritto? Nella pronuncia la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha ritenuto di applicare al caso in questione il principio della libertà di circolazione interna e ha riconosciuto pertanto il diritto invocato dai familiari della bambina. La Corte ammetteva pertanto il diritto di soggiorno dell’ascendente cittadino di

51 Per approfondimenti C. DEREATTI, Il ‘caso Micheletti’ e la cittadinanza dell’Unione europea. prospettive europee per le seconde generazioni di emigranti, in Nuovi valori dell’italianità nel mondo. Tra identità e imprenditorialità, a cura di R. BOMBI e V. ORIOLES, Editrice Universitaria Udinese, Udine, 2011, pp. 91-99.

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uno Stato terzo che abbia a carico il minore e disponga, a sua volta, di risorse sufficienti per sé e per i propri figli, un segnale quindi di grande apertura.

Nella sentenza Rottmann (C-135/2008 del 2010), invece, la Corte di Lussemburgo ha dato una lettura ben più ampia della necessità di rispettare il diritto comunitario nell’esercizio della competenza statale in materia di cittadinanza. La sentenza si è espressa sul caso di un ex cittadino austriaco che, dopo aver conseguito per naturalizzazione la cittadinanza tedesca (perdendo quella austriaca), subiva la revoca della stessa, ritrovandosi così apolide e privato anche della cittadinanza europea. In questo caso, la Corte ha stabilito che, quando si tratti di cittadini dell’Unione, l’esercizio della competenza statale di determinazione dei modi di acquisto e perdita della cittadinanza “può essere sottoposto a un controllo giurisdizionale condotto alla luce del diritto dell’Unione”52, qualora leda i diritti

tutelati dall’ordinamento U.E. In particolare, poiché nel caso considerato la revoca della cittadinanza tedesca comportava la perdita della cittadinanza europea, la Corte ha rimesso al giudice nazionale la verifica se la decisione rispettasse il principio di proporzionalità, indicando alcuni parametri di giudizio per un tale esame, come per esempio la valutazione delle conseguenze che la revoca determinava sulla situazione dell’interessato rispetto alla perdita dei diritti comunitari o la gravità dell’infrazione commessa per l’acquisto della cittadinanza poi revocata. A questa conclusione, peraltro, la Corte di Giustizia sembra arrivare a prescindere dall’esistenza di una situazione transfrontaliera, ma esclusivamente in virtù del legame di condizionalità esistente tra la cittadinanza nazionale e quella europea. Ne deriva che norme e provvedimenti nazionali in materia di cittadinanza statale sembrano acquisire un nuovo parametro di controllo nelle fonti sovranazionali europee, mentre i dubbi interpretativi nella materia potranno essere giudicati dalla Corte di giustizia53.

Con la pronuncia Zambrano (C-34/09 del 2011), la Corte ribadisce che “l’art. 20 TFUE osta a provvedimenti nazionali che abbiano l’effetto di privare i cittadini dell’Unione del godimento reale ed effettivo dei diritti attribuiti dal loro status di

52 CGUE, C-135/08, Rottmann, 2.3.2010, § 48. 53 E. A. FERIOLI, op. cit., pp. 17-19.

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cittadini dell’Unione”, aprendo la strada ad una sostanziale autonomizzazione della cittadinanza europea da quella nazionale54.

La sentenza, infatti, adombrando l’applicazione del principio di parità di trattamento sulla base della cittadinanza europea anche alle situazioni interne, chiarisce che la cittadinanza di uno Stato membro conferisce lo status “accessorio” di cittadino europeo, previsto dall’art. 20 TFUE, che, come tale, “osta a provvedimenti nazionali che abbiano l’effetto di privare i cittadini dell’Unione del godimento reale ed effettivo dei diritti attribuiti dal loro status di cittadini dell’Unione” o che possano produrre indirettamente un effetto analogo attraverso il diniego del permesso di soggiorno e il rifiuto del permesso di lavoro nei confronti dei genitori del minore cittadino europeo e, quindi, incidere sull’unità e sulla tutela della vita familiare. Nel caso Zambrano lo status di cittadino europeo del minore diviene rilevante indipendentemente dall’esercizio della circolazione transfrontaliera, costituendo il fondamento per il riconoscimento autonomo di una serie di diritti. Tuttavia la decisione non richiama l’applicazione della Carta dei diritti: l’art. 34 prevede il diritto di ogni persona che risieda o che si sposti legalmente all’interno dell’Unione di ricevere il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali; l’art. 7 stabilisce il diritto al rispetto della vita privata e della vita familiare55.

Queste sentenze segnano il superamento dell’interpretazione della cittadinanza europea in termini di mera libertà di circolazione delle persone: nei casi esaminati infatti, si riconosce che la cittadinanza europea costituisce uno status autonomo dei cittadini europei e gli Stati membri non possono adottare misure lesive nei confronti dei diritti da essa garantiti. Ed è proprio da questo percorso disegnato dalla Corte che riparte il dibattito sulla cittadinanza europea, alla ricerca di una possibile apertura verso una cittadinanza di residenza, capace di garantire gli stessi diritti a chiunque risieda sul territorio dell’Unione56. Si tratta di un modello di cittadinanza inclusiva che prenda atto dei cambiamenti incorsi nella società europea e della distanza che si è prodotta tra una nozione di cittadinanza legata

54 M.C. MARCHETTI, op. cit., pag. 147. 55 T.N. POLI, op. cit., pp. 21-22.

56 Nel 1991 il Parlamento europeo, con la Risoluzione sulla cittadinanza dell’Unione, era intervenuto sulla possibilità di istituire una cittadinanza europea fondata sulla residenza, con riferimento alla nozione di “persone residenti nell’Unione” (GUCE, C 326, 205, 16.12. 1991).

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all’appartenenza nazionale e il dato di fatto che fa della società europea una società multiculturale57.

La stessa Corte di giustizia tuttavia, ha invertito la rotta con una serie di sentenze che, pur non sconfessando il percorso precedente, ha finito per riportare l’esercizio dei diritti di cittadinanza all’interno dei confini previsti dalla libertà di circolazione ai sensi della Direttiva 2004/38. In queste pronunce, sono evidenziati chiaramente i limiti che incontra la disciplina europea dei diritti sociali.

Ci si riferisce in particolare alla sentenza Dano (C-333/13del 2013) che riguarda la pretesa di Elisabetta Dano e di suo figlio Florin, al momento dei fatti di appena cinque anni, di ottenere la concessione di prestazioni assicurative di base, riservate dalla normativa tedesca a chi richiede lavoro. La signora Dano, di origine rumena, vive dal 2010 in Germania presso la sorella e già percepisce per il figlio assegni familiari mensili; ella, peraltro, non ha mai lavorato né in Romania, né in Germania e non risulta nemmeno che abbia mai cercato effettivamente un impiego. Il rinvio pregiudiziale alla Corte verte, quindi, in particolare, sull’interpretazione del principio generale di non discriminazione, chiedendo anche di verificare, con un profilo di un certo rilievo per questo scritto, “se la concessione di prestazioni non contributive, volte a garantire la sussistenza, possa essere limitata per i cittadini dell’Unione, salvo situazioni di grave emergenza, alla messa a disposizione dei mezzi necessari per il rientro nel paese d’origine, o se invece gli articoli 1, 20 e 51 della Carta dei diritti fondamentali impongano la concessione di prestazioni più ampie atte a permettere una permanenza duratura”58.

La Corte, dopo aver evidenziato che le prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo, oggetto della controversia, ricadono nella più ampia nozione di prestazioni d’assistenza sociale, ha negato alla signora Dano le prestazioni richieste, dichiarando di non riscontrare nel caso in questione una violazione del principio di non discriminazione sancito dagli articoli 18 e 20 TFUE e disciplinato in maniera più specifica all’articolo 24 della Direttiva 2004/3810. La Corte, pur ribadendo che la cittadinanza europea costituisce lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri e che questo garantisce loro il diritto a non essere

57 M. C. MARCHETTI, op. cit. pp. 147-148. 58 G. GRASSO, op. cit., pag. 11.

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discriminati, rileva che tale diritto non è assoluto, ma deve sottostare alle condizioni e ai limiti previsti dai Trattati e dal diritto derivato. In particolare, l’articolo 24 della Direttiva stabilisce che il divieto di discriminazione opera solo nei confronti dei cittadini che abbiano diritto a soggiornare nel territorio dello stato ospitante ai sensi della Direttiva stessa. Il diritto a soggiornare, una volta passati i primi tre mesi, sussiste solo per i lavoratori o, nel caso di persone non economicamente attive, per coloro che dispongano “di risorse economiche sufficienti”, così da non diventare “un onere a carico dell’assistenza sociale dello stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno” (articolo 7/b). Pertanto, secondo la Corte, uno Stato membro deve “avere la possibilità, ai sensi di detto articolo 7, di negare la concessione di prestazioni sociali a cittadini dell’Unione economicamente inattivi che esercitino la libertà di circolazione con l’unico fine di ottenere il beneficio dell’aiuto sociale di un altro Stato59 membro pur non

disponendo delle risorse sufficienti per poter rivendicare il beneficio del diritto di soggiorno” (punto 78 della sentenza), come conseguenza inevitabile della Direttiva 2004/38 (punto 77 della sentenza). Vale solo la pena sottolineare che la Direttiva in questione stabilisce anche che “il ricorso da parte di un cittadino dell’Unione o dei suoi familiari al sistema di assistenza sociale non dà luogo automaticamente ad un provvedimento di allontanamento” (articolo 14/3)60. La pronuncia Dano evidenzia tutta la fragilità della stessa incorporazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel diritto dei Trattati. La Corte, infatti, ribadisce stancamente che le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione e che la Carta medesima non amplia l’ambito di applicazione del diritto europeo al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei Trattati (cons. n. 88). Con la conseguenza che le condizioni sostanziali per l’esistenza del diritto a prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo possono essere fissate solo dal legislatore nazionale, abilitato anche a definire la portata della copertura sociale assicurata da tale tipo di prestazioni, e, poiché per tale ambito gli Stati membri non attuano in realtà il

59 Il fenomeno del cosiddetto “turismo sociale”. 60 M.C. MARCHETTI, op. cit., pp. 149-150.

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