L’esercizio della libertà di circolazione dei lavoratori europei ha concorso a generare forti pressioni sui livelli di prestazione sociale e sui relativi costi in capo ai bilanci dei singoli Stati membri, producendo di riflesso reazioni di contenimento e chiusura nei confronti, soprattutto, dei cittadini c.d. “neocomunitari”.
Nei mesi antecedenti la celebrazione del referendum, la campagna politico- mediatica nel Regno Unito è stata fortemente caratterizzata, come abbiamo già avuto modo di esaminare, da una specifica sovraesposizione del tema dell’immigrazione come voce pretensivamente condizionante la scelta fondamentale sul se aderire o meno alla richiesta a favore o contro l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea183. L’argomento immigrazione è stato, altresì,
fortemente strumentalizzato, tanto da lasciar spesso confondere il tema dell’afflusso nel Regno Unito di immigrati extra-comunitari ed extra-europei, compresi i rifugiati e i richiedenti asilo, con il ben diverso problema dei cittadini dell’U.E. di provenienza da altri Paesi membri e la libertà di circolazione e stabilimento all’interno del mercato unico di questi ultimi, in un quadro di denunciata crisi del processo di integrazione e dell’Unione europea. Immigrazione “interna”, libertà di circolazione dei cittadini e dei lavoratori, diritti connessi allo status di cittadinanza europea sono stati, in sostanza, al centro del dibattito pubblico per diversi mesi. In particolare, ed oggetto ora della nostra attenzione, forti tensioni si sono manifestate in riferimento ai diritti dei cittadini europei, non nazionali, legittimamente residenti nel Regno Unito, soprattutto i diritti sociali e i diritti connessi al rapporto di lavoro, laddove veniva posto al centro della
183 F. BILANCIA, Il referendum del Regno Unito sulla Brexit: la libertà di circolazione dei cittadini Ue nel mercato interno ed il problema del costo dei diritti sociali, in Istituzioni del Federalismo, numero speciale, pp. 71-73.
discussione il costo delle relative prestazioni a carico dell’amministrazione pubblica; denunciando addirittura una sorta di messa in competizione dei cittadini britannici, da un lato, ed europei immigrati, dall’altro, per la provvista di tali prestazioni. Che si tratti di un tema all’attenzione degli sviluppi dell’ordinamento dell’Unione europea è cosa, del resto, nota da tempo. Le tensioni in merito ai diritti sociali dei cittadini europei residenti in altri Paesi dell’Unione, diversi dal proprio, avendo generato infatti una disciplina più restrittiva ad opera del diritto dell’U.E., come vedremo determinano a cascata significativi interventi da parte della stessa Corte di giustizia dell’U.E. Nell’ottica funzionalistica in cui muove, fin dalle origini, il diritto comunitario, e successivamente il diritto dell’U.E., le libertà di circolazione all’interno del mercato unico sono state abitualmente considerate piuttosto come strumenti per la costruzione del mercato che non come diritti individuali di cittadinanza. L’obiettivo essendo quello di implementare la cosiddetta competitività del mercato interno europeo al cospetto dei mercati globali. A fronte di tale prospettiva di sviluppo, pertanto, allorché gli effetti della crisi finanziaria, avviatasi a far data dal 2008, cominciarono a manifestarsi anche nell’economia reale, i tagli al servizio delle prestazioni sociali dei cittadini che diversi Stati membri furono costretti ad assumere per ragioni di sostenibilità dei propri bilanci hanno rapidamente condotto ad importanti tensioni di sistema, in considerazione della competizione da parte degli stranieri aventi diritto alle medesime prestazioni; stranieri, ma pur sempre cittadini europei184.
Questi processi di qualificazione delle vicende evolutive della crisi finanziaria, come aggravate dall’afflusso di immigrati cittadini europei, in relazione ai presunti maggiori costi delle prestazioni sociali, hanno assunto una ulteriore rilevanza a seguito degli interventi della giurisprudenza della Corte di giustizia. Quest’ultima ha infatti sostenuto e garantito a più riprese che le prestazioni di welfare sono strettamente connesse alla tutela dei diritti sociali - come diritti individuali di cittadinanza - andando pertanto oltre lo schema funzionalistico e con ciò generando però conflitti interni agli stessi sistemi politici nazionali. Un case-law, seppur occasionalmente più rights-oriented che non market-oriented, più aperto alle istanze pretensive degli individui, potendo comportare un
implemento dei costi di tali prestazioni a carico delle amministrazioni statali. In alcuni momenti concorrendo così a determinare forti contrasti ideologicamente forieri di conflitti animati da istanze nazionalistiche laddove alla riduzione della spesa sociale ad opera della legislazione statale per fronteggiare la crisi, con effetti gravanti su tutti i cittadini, abbiano potuto fare da contraltare decisioni giudiziarie, anche di giudici nazionali, di riconoscimento di diritti a tali prestazioni a vantaggio di cittadini stranieri, ma europei legittimamente residenti. Ciò tanto in riferimento specifico ai tagli di determinate prestazioni, quanto all’introduzione di elementi di condizionamento per la loro fruizione. Così, ad esempio, ha provocato un acceso dibattito, significativamente rianimatosi proprio in occasione della campagna referendaria nel Regno Unito, il sistema di condizionalità introdotto ad opera delle Housing Benefit (Amendment) Regulations del 2012 che ha sottoposto a riduzioni quantitative percentuali gli assegni erogati agli assistiti, in proporzione al numero di vani “in sovrannumero”, rispetto alle stime dei bisogni familiari, delle abitazioni dei beneficiari di prestazioni assistenziali. Attraverso una stima del potenziale reddito della famiglia nell’ipotesi di affitto di tali vani, infatti, il provvedimento ha assunto tale situazione di fatto come concorrente alla determinazione dei limiti reddituali limitativi - o addirittura ostativi - delle prestazioni sociali reclamate dai suoi componenti185. A fronte di queste significative riduzioni dei livelli di prestazione sociale, generatrici di un ricco ed articolato contenzioso giudiziario in relazione all’utilizzo degli spazi abitativi privati, in quanto considerati “eccedenti” rispetto alle necessità familiari in ordine al numero degli effettivi residenti, il riconoscimento all’opposto della garanzia di analoghe prestazioni a vantaggio di cittadini europei non nazionali bisognosi ha spesso purtroppo concorso a generare un clima di risentimento ed ostilità, facilmente strumentalizzabile in sede di campagna referendaria a favore dell’uscita del Regno Unito dall’U.E. (leave). La classica rivisitazione dei luoghi polemici tipici della c.d. “guerra tra poveri”, alimentata dalla presunta competizione tra cittadini e stranieri nel concorso per la fruizione delle prestazioni sociali.
185 F. BILANCIA, op.cit., pag. 76.
Alla luce di questo contesto, gli Stati membri cominciano sempre più di frequente a vedersi riconosciuta dall’U.E. la facoltà di negare il diritto di residenza a cittadini europei di altri Stati membri, privi di risorse economiche sufficienti, tali da assicurare che per loro e le loro famiglie non si determinino le condizioni per la pretesa erogazione di prestazioni assistenziali, sanitarie, scolastiche o altre agevolazioni tariffarie per la fruizione di servizi pubblici che finiscano con il pesare sui sistemi di welfare del Paese ospitante aggravandone i relativi costi. Tutti sintomi di un mutato clima generale in riferimento alle modalità di esercizio della libertà di circolazione delle persone, il cui regime giuridico in Europa sta finendo con il rendere del tutto plausibile proprio quella guerra tra poveri i cui drammatici segnali abbiamo ritenuto di individuare nei discorsi animati dalla campagna referendaria per la Brexit ma che, purtroppo, hanno assunto un ruolo anche nella dimensione ufficiale delle relazioni diplomatiche tra i Governi degli Stati membri, nei reciproci rapporti e in seno alle istituzioni dell’Unione europea186.
186 Per approfondimenti si rimanda alla lettura integrale del saggio di F. BILANCIA, Il referendum del Regno Unito sulla Brexit: la libertà di circolazione dei cittadini Ue nel mercato interno ed il problema del costo dei diritti sociali, in Istituzioni del Federalismo, numero speciale.
CONCLUSIONI
Quello intrapreso nel presente elaborato è sicuramente un percorso articolato, complesso e connotato dall’analisi dei diversi aspetti e delle più variegate sfaccettature che hanno caratterizzato il caso Brexit. La finalità che l’elaborato ha voluto perseguire è quella di cercare di mettere in luce come, da un singolo episodio, dalla decisione di un solo Paese, da un quesito a cui il cittadino sia chiamato - attraverso lo strumento referendario - a dare una risposta, possano derivare conseguenze a cascata che si riflettono direttamente su una pluralità di persone, di Stati, di ordinamenti giuridici.
Il referendum Brexit può essere inserito tra questa tipologia di eventi, rappresentando senza dubbio un punto di svolta nel processo di costruzione europeo. Un tema che si presta sicuramente ad un’analisi di tipo traslazionale che coinvolge i più disparati ambiti, da quello giuridico a quello economico - sociale. L’obiettivo primario è stato pertanto quello di provare ad individuare l’insieme degli effetti scaturiti dalla vicenda Brexit, con particolare riferimento a quelli di natura giuridica, per esaminarli nella loro complessità e cercare di ricostruire un quadro, il più completo possibile, della situazione.
La riflessione è iniziata esaminando il concetto di cittadinanza europea e la sua evoluzione all’interno delle norme contenute nei Trattati. Un nuovo “tipo” di cittadinanza di natura duale, proprio perché costituisce un arricchimento giuridico della cittadinanza nazionale, uno status di secondo grado, che rappresenta il presupposto per l’esercizio di diritti e doveri ascrivibili al patrimonio costituzionale comune e interno all’Unione.
Questo status, per quanto di secondo grado, ha conferito qualcosa in più al cittadino di uno stato membro dell’U.E., esso gode infatti di un sistema di protezione diplomatica e consolare comune - un diritto non certo irrilevante ai fini dell’effettività della tutela dei diritti fondamentali -, dell’elettorato attivo e passivo nelle elezioni relative agli enti locali presso cui abbia la residenza, a prescindere della sua cittadinanza di origine, la possibilità di rivolgersi al mediatore europeo. Diritti che sicuramente hanno contribuito a rinvigorire il senso di appartenenza dei cittadini europei alla stessa Unione.
Un istituto, quello della cittadinanza europea, che ha visto pertanto accrescere nel tempo la propria rilevanza e grazie al quale si è assistito ad un ampliamento dei diritti stessi di cittadinanza, soprattutto alla luce dell’entrata in vigore del Trattato di Nizza.
L’introduzione della cittadinanza europea ha inoltre rappresentato un importante strumento per conferire una legittimità democratica all’agire delle istituzioni dell’U.E., andando in qualche modo ad affievolire quel deficit di democraticità di cui l’Unione è stata accusata fin dalle sue origini.
L’essere cittadino europeo diviene pertanto uno status giuridico destinato a pesare sempre di più, come si è potuto evincere dalla lettura delle pronunce della Corte di giustizia dell’U.E. che hanno dato, seppur a fasi altalenanti, sempre più centralità al requisito del possesso della cittadinanza europea.
Nonostante il processo che ha caratterizzato in positivo l’affermazione della cittadinanza europea, si è visto però come in realtà i diritti sociali, collegati per propria natura a quello status, abbiano da sempre assunto nel contesto giuridico europeo il ruolo di attori secondari rispetto ai diritti civili e sociali. Questa posizione di “retroguardia” del sistema dei diritti sociali è sicuramente giustificabile dalle originarie finalità dell’Unione europea - prima Comunità economica europea - che vedeva nella realizzazione di un mercato libero, unico e concorrenziale, il suo primario scopo. È proprio in quest’ottica funzionalistica che la tutela dei diritti sociali viene riservata alla competenza dei singoli Stati membri, in quanto considerata dall’Unione europea quale causa di mobilitazione di risorse economiche non più pertanto destinabili al raggiungimento di obiettivi di natura meramente economica.
La questione di rilievo diviene pertanto quella di cercare di far coincidere il riconoscimento di una piena libertà di circolazione in favore dei cittadini europei con le conseguenze che questa mobilità comporta. Il singolo individuo, infatti, spostandosi porta con sé il proprio bagaglio di bisogni, di necessità di tutela in termini di diritti e questo insieme di importanti fattori ha evidentemente un costo destinato a ricadere sullo Stato ospitante.
In un momento di crisi economica questo aggravio di oneri per i singoli Paesi diviene ancora più gravoso e soprattutto percettibile, tanto da scatenare quei sopiti
sentimenti di volontà di ritorno allo Stato nazione che da tempo sembravano scomparsi. Nel Regno Unito è in parte accaduto questo.
Nel corso dell’elaborato sono state esaminate le cause che hanno condotto alla vittoria del Leave, motivi per lo più legati a fattori di natura economica ed alla necessità di imporre dei limiti alla possibilità di usufruire del sistema di welfare britannico per i cittadini europei provenienti da altri Stati membri.
Il risultato del referendum Brexit ha portato tuttavia a significative conseguenze anche sotto un altro rilevante profilo; sul piano della tenuta dello stesso modello di costituzionalismo britannico, richiedendo l’intervento delle Corti britanniche che, attraverso un complesso percorso argomentativo, hanno riconfermato la supremazia del principio della sovranità parlamentare. Per intraprendere la procedura di recesso ai sensi dell’art. 50 del Trattato di Lisbona, si è pertanto resa necessaria l’approvazione di una legge parlamentare che ha attribuito all’esecutivo il potere per porre in essere tutte le azioni necessarie.
Nell’ultima parte dell’elaborato si è cercato di comprendere meglio il funzionamento del sistema di welfare nel contesto giuridico europeo affrontando al contempo la questione della effettiva sostenibilità dello stesso alla luce della crisi economica. Dall’analisi condotta è apparso evidente come la tutela dei diritti sociali in ambito europeo sia comunque collegata a questioni di “mercato”, le norme comunitarie prevedono infatti delle forti garanzie a favore dei soli lavoratori e dei propri familiari. La finalità è evidente e richiama ancora una volta quella visione funzionalistica dell’Unione: la volontà di potenziare il mercato unico anche attraverso la mobilitazione di capitale umano in grado di dare il proprio contributo alla crescita economica dell’U.E.
Tuttavia in un momento di difficoltà economica, anche la garanzia dei diritti sociali dei lavoratori e dei loro familiari diventa materia di dibattito, per questo gli Stati che sono divenuti meta di flussi migratori intraeuropei - tra cui il Regno Unito - hanno auspicato un maggiore intervento dell’Unione, anche e soprattutto di tipo economico.
Dall’inazione dell’U.E. che ha contribuito ad acuire il malcontento, si è giunti al risultato del referendum del giugno 2016.
Al momento attuale, risulta davvero complicato trarre delle conclusioni certe su quanto la questione Brexit impatterà effettivamente sul sistema di garanzia dei diritti e delle libertà nello spazio giuridico europeo. Dalla lettura dell’elaborato, si sarà compreso come in realtà, ad oggi, la strada intrapresa dalle istituzioni europee sia stata quella di “non scegliere”, preservando il più possibile lo status quo, garantito - grazie all’accordo di recesso recentemente raggiunto - per tutto il periodo di transizione di cui, sintomaticamente, si è previsto la possibilità di proroga. In questo modo, i negoziatori hanno inteso prevedere di poter estendere ulteriormente il lasso temporale di validità delle disposizioni contenute nell’accordo, guadagnando così tempo prezioso e necessario a realizzare una futura e più stabile intesa tra le parti coinvolte.
Tuttavia, anche una lettura critica della decisione delle istituzioni europee di rimandare nel tempo una definizione più precisa dei termini della separazione del Regno Unito dall’Unione europea, può risultare rilevante ai fini della nostra analisi. Già nelle premesse iniziali, si è richiamato il fatto che, per molti, i diritti sociali siano in qualche modo considerati finanziariamente condizionati, ovvero soggetti a dinamiche economiche che ne definiscono la rilevanza giuridica. Quando si pensa all’influenza dell’economia sul sistema dei diritti sociali, balena subito l’idea che il condizionamento sia comunque sempre in negativo e sicuramente, in una fase di crisi economica, questo è quello che spesso è accaduto. I vincoli imposti alla finanza pubblica a causa della crisi, sembrerebbero infatti comportare una limitazione dei diritti sociali, che oltre ad essere sottoposti ad un bilanciamento economico, risultano gravati da un ulteriore vincolo intrinseco: la riserva del possibile.
Lo stesso referendum Brexit, come è stato ribadito più volte nel corso dell’elaborato, ha rappresentato un forte segnale di quanto la percezione della mancanza di risorse economiche - la riserva del possibile, appunto - possa riflettersi sul sistema delle garanzie. Si pensi alle originarie richieste del Regno Unito, a quell’ipotesi di Hard Brexit che avrebbe comunque condizionato fortemente l’esistenza dei cittadini europei e degli stessi cittadini britannici. Il recesso del Regno Unito dall’Unione europea veniva presentato come un vero e
proprio “divorzio complicato”187 che, come tale, avrebbe comportato importanti
ricadute in termini economici ma, soprattutto, sul piano delle tutele giuridiche e dell’esercizio delle libertà, prima fra tutte quella di circolazione in uno spazio giuridico comune.
Dalla lettura dell’accordo di recesso del 14 novembre - che lascia apparentemente invariato lo scenario post-Brexit - e dall’esame di quanto accaduto, ma soprattutto di quanto detto e scritto dal giugno 2016, ci si potrebbe giustamente domandare, cosa può aver spinto il Regno Unito - così forte della propria volontà di recuperare un’autonomia nazionale - a cambiare in maniera determinante la propria posizione. Un cambiamento di prospettiva che pare però non essere frutto di un ripensamento delle originarie pretese, ma piuttosto vissuto come un risultato sofferto, “il migliore che si potesse ottenere”, come dirà la stessa Theresa May. Un accordo scaturito da un compromesso: da una parte la possibilità di poter continuare a godere dei vantaggi di un mercato libero, dall’altra l’impegno a garantire ai cittadini europei e britannici il rispetto dei diritti - tra cui anche quelli di natura sociale - ad essi attribuiti dall’ordinamento giuridico europeo. Diritti finanziariamente condizionati, ma questa volta si tratta di un condizionamento al contrario dove, grazie alla prospettiva di non incorrere in penalizzazioni di natura economica, viene mantenuto il sistema di garanzia originario che era stato in buona parte protagonista della campagna pro Brexit.
Quello che possiamo pertanto pacificamente affermare è che l’iniziale chiusura da parte del Regno Unito ad ogni possibilità di rivedere le originarie posizioni, sia in qualche modo venuta meno. Ciò che dispiace verificare è che, dall’altro lato, tale ripensamento trae origine da motivazioni prettamente di natura economicistica: ancora una volta quindi la tutela e la garanzia dei diritti e delle libertà dei singoli - in questo caso dei cittadini europei e di quelli britannici - sono state oggetto di un bilanciamento a fronte di interessi politici ed economici.
187Definizione efficace di C. Martinelli in “L’isola e il continente: un matrimonio d’interesse e un divorzio complicato. Dai discorsi di Churcill alle sentenze Brexit”, In Rivista AIC, n. 1/2017.
BIBLIOGRAFIA E LETTURE UTILI ALL’APPROFONDIMENTO