Sicuramente, un’importantissima premessa da fare per meglio comprendere il percorso che ci accingiamo ad intraprendere in questo capitolo, riguarda il fatto che non di qualunque forma di migrazione si è discusso durante la campagna Brexit, bensì soprattutto di quella proveniente dagli stessi Stati membri dell’Unione Europea. In questo contesto infatti, una considerazione via via crescente è stata riservata ai flussi migratori provenienti dai Paesi dell’eurozona più duramente colpiti dalla crisi economica, divenuti con l’acuirsi della stessa, prevalenti rispetto ad altre direttrici interne all’unione135.
L’incedere della crisi avrebbe così “alimentato meccanismi di exit interni ai sottosistemi nazionali, innescando fenomeni migratori di trascendimento dei confini nazionali i quali hanno funzionato, ad un tempo, da valvola di sfogo della voice, nell’interno dei Paesi in crisi, ma anche da detonatore di disfunzionalità presso altri confini interni dell’Unione, alimentando l’opzione di exit nei Paesi divenuti poli di attrazione dei flussi migratori intraeuropei”136, ed il Regno Unito è
stato sicuramente uno di questi.
La Gran Bretagna infatti rappresenta un luogo che storicamente, si propone all’avanguardia nella costruzione del moderno concetto di welfare state e nell’affermazione dei diritti sociali.
La caratteristica essenziale dell’affermazione di ogni categoria di diritti (civili, politici e sociali), in Inghilterra e poi in Gran Bretagna, è la dimensione negoziale del processo politico. La centralità di questo elemento si spiega molto bene con la
135 E.N. FRAGALE, (Br)Exit and voice nella crisi esistenziale dell’Unione europea, in Istituzioni del FederalismoRivista di studi giuridici e politici, Numero speciale del 2016, pag. 106.
constatazione che “ci troviamo di fronte ad una società che tende a rifuggire dalle tentazioni palingenetiche e dalle virtù salvifiche delle rivoluzioni (per lo meno nel significato che noi contemporanei attribuiamo al concetto di rivoluzione) e ad un ordinamento privo di una Carta costituzionale scritta e rigida, in grado di imbrigliare il gioco politico all’interno di binari giuridici consolidati”137.
La storia delle “moderne” politiche sociali in Gran Bretagna può essere fatta risalire ai primi anni del XIX secolo, quando gli sconvolgimenti sociali della rivoluzione industriale, posero la necessità di un rinnovato intervento da parte dello Stato. Originariamente furono anzitutto uno strumento di mantenimento dell’ordine da tumulti, disordini e criminalità diffusa nelle città industriali. Già nell’Ottocento inoltrato, però, le organizzazioni del movimento operaio, abbandonato il Cartismo138, si rivolsero su posizioni rivendicative per una riduzione delle ore di lavoro, per alcune tutele minime e per una regolamentazione almeno parziale del lavoro minorile. Queste richieste si incontrarono paradossalmente con le componenti più paternalistiche della società e della politica inglese dell’epoca, in una graduale estensione dell’intervento “minimalista” dello Stato e delle associazioni filantropiche contro la povertà, intesa generalmente come la miseria totale degli emarginati dal processo di produzione del capitalismo. Il progressivo, ancorché disorganico, incremento della legislazione sociale fu evidente già prima della Grande guerra, tramite l’introduzione di leggi a tutela dei lavoratori, e di un sostegno minimo in ambito pensionistico, di povertà infantile, di infortuni sul luogo di lavoro da parte dei governi liberali del periodo 1905-1914139.
137 Per un’ampia trattazione sul tema si rimanda a C. MARTINELLI, Diritto e diritti oltre la Manica. Perché gli inglesi amano tanto il loro sistema giuridico, Bologna, il Mulino, 2014. 138 Movimento politico-sociale inglese. Prese nome dalla People’s Charter (1838) in cui i cartisti chiedevano il suffragio universale maschile, lo scrutinio segreto, il Parlamento annuale, un’indennità ai deputati, collegi numericamente uguali e la soppressione del censo. Le petizioni furono respinte dal Parlamento (1839, 1842) e ciò provocò sommosse a Birmingham e a Newport. Alle richieste politiche se ne aggiunsero altre di ordine sociale: diritto al lavoro e al suo prodotto integrale, socializzazione della terra e controllo economico dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori. Spinti dalla rivoluzione del 1848 in Francia, i cartisti organizzarono una manifestazione, che però fallì segnando la loro fine.
139 Per l‘evoluzione delle politiche britanniche dal XIX secolo fino alla nascita del welfare state, sempre con un‘attenta analisi delle diverse interpretazioni su tale processo, si veda K. Laybourn, The Evolution of British Social Policy and the Welfare State, Keele University Press, Keele 1995, pp. 37-178.
Il periodo interbellico risulta però essere fondamentale per comprendere in quali direzioni si sarebbero mosse le politiche di intervento dello Stato nell’economia e nella società, e per rendere evidenti delle tendenze cominciate già con la fine della Grande guerra. Nei vent’anni dal 1919 al 1939, infatti, i governi britannici dovettero fronteggiare dapprima gli effetti distruttori della guerra sul piano materiale e umano, e poi le conseguenze della Grande crisi.
Da questo punto di vista il XIX secolo è paradigmatico. In particolare, il periodo che va dagli anni Trenta agli anni Ottanta vede il Regno Unito incamminarsi con passo spedito sulla strada della democratizzazione dei meccanismi costituzionali, con un progressivo allargamento della partecipazione alla vita politica e all’attività delle istituzioni. Le riforme elettorali rappresentano la chiave di volta di quel processo. Quelle leggi non sono solo strumenti grazie a cui settori sempre più ampi di popolazione (maschile) acquisiscono il diritto a partecipare al gioco democratico, ma diventano la precondizione necessaria per favorire l’apertura del sistema politico a nuove esigenze e a fondamentali bisogni di cambiamento pretesi da una fascia sociale sempre più larga, e sempre più rilevante anche politicamente. L’inverarsi di questa precondizione accelera il processo di riconoscimento dei diritti perché allarga il campo della negoziazione tra interessi diversi. L’assenza di una carta costituzionale, la tradizione della common law, il ruolo creativo del giudice, sono tutti elementi consueti su cui si innestano le innovazioni dell’età vittoriana, dando vita ad una stagione costellata di norme per quell’epoca estremamente all’avanguardia in Europa sul piano della protezione dei diritti individuali e collettivi.
Il processo di riconoscimento dei diritti nel Regno Unito non ebbe, e non avrebbe potuto avere, alcuna genesi traumatica, alcuna proclamazione astratta, alcun afflato universale. Al contrario, pienamente in linea con la storia dell’ordinamento britannico, questa accelerazione ha vissuto su una dimensione negoziale ed economicistica, su lotte concrete per conquistare un gradino alla volta. Certo, a queste lotte non sono state estranee le piazze e talvolta le violenze contrapposte hanno preso il sopravvento. Tuttavia, la tendenza fondamentale di quel tempo è andata nel senso di una istituzionalizzazione del conflitto sociale per il riconoscimento giuridico, step by step, di determinate posizioni. Ed è significativo
notare, in questo quadro, lo stretto rapporto che intercorse in quegli anni tra vittoria del liberoscambismo, sia sul terreno del confronto tra le dottrine economiche che su quello più concretamente giuridico, ed espansione delle libertà sindacali e dei diritti legati alla condizione lavorativa e sociale. La modernità del Regno Unito di metà Ottocento stava soprattutto lì: libero scambio e legislazione sociale si affermavano a scapito di alcune incrostazioni tradizionali come il classismo punitivo di stampo medievale, il protezionismo o la proprietà immobiliare (specialmente quella fondiaria, la cui eccessiva tutela rischiava di rendere immobile anche l’intera società)140.
Così lo Stato si apriva e favoriva gli interessi e le attività dei nuovi ceti emergenti, mostrando anche un buon grado di adattamento alle nuove situazioni sociali determinate dalla Rivoluzione industriale. Allo stesso tempo le istituzioni preservavano loro stesse, integrando pezzi della società che prima si sentivano estranei e tagliati fuori dalle decisioni politiche, e finivano così per accrescere il loro prestigio. Questo mood popolare costituirà un potentissimo deterrente contro qualsiasi ipotesi insurrezionalista e contribuisce a spiegare le ragioni dell’assenza nel Regno Unito di condizioni per una stagione rivoluzionaria e, per contro, della presenza di quelle favorevoli alle riforme graduali in senso democratico.
I primi decenni del Novecento determinano un’ulteriore accelerazione di questo intreccio tra democratizzazione politica e riconoscimenti di diritti sociali141. È stata la progressiva estensione dei diritti politici (premessa fondamentale per l’ottenimento di quelli sociali) nel 1928, ma soprattutto la Grande crisi sistemica del 1929 ad aver posto d’urgenza la necessità di nuovi modi di intervento sociale, con modalità e finalità completamente differenti rispetto al passato. Secondo lo storico Laybourn, “the years between 1914 and 1939 saw the end of the policies on destitution that had dominated Victorian thinking and the development of selective policies to deal with the problems of specific social groups”142, e costituirono quindi uno spartiacque tra due diverse “filosofie” di intervento sociale.
140 C. MARTINELLI, Immigrazione e sanità pubblica. Il caso della Gran Bretagna, in Rivista AIC (Associazione italiana dei costituzionalisti), n. 4/2017, pag. 3.
141 C. MARTINELLI, op. cit, pp. 3-4. 142 K. LAYBOURN, op. cit., p. 183.
Sul piano giuridico, con il Parliament Act 1911 il sistema costituzionale viene definitivamente adeguato al modello parlamentare, con l’abbandono o l’affievolimento di istituti incompatibili con esso, a cominciare dalla funzione legislativa dei Lord che viene fortemente ridimensionata a tutto vantaggio delle prerogative dei Comuni e quindi, in definitiva, del legame maggioranza parlamentare-Gabinetto. Inoltre, negli anni successivi si assiste ad un sempre maggiore ampliamento e consolidamento di elementi coerenti con la democrazia parlamentare: suffragio universale, crescita del consenso e del ruolo politico del Partito laburista, rafforzamento della figura del Primo ministro. In sostanza, si afferma quella concezione e prassi della democrazia parlamentare che ancora chiamiamo Westminster model.
È in questo quadro politico-istituzionale che matura il primo embrione di stato sociale.
Si innesca cioè un circuito di questo tipo: il processo di democratizzazione conferisce sempre maggiore autorevolezza politica e strumenti giuridico- parlamentari al Primo ministro e all’Esecutivo per disegnare riforme sociali da finanziare e concretizzare grazie ad un aumento del prelievo fiscale a carico soprattutto delle upper classes. Così, nel 1911 venne approvato il National Insurance Bill che, tra l’altro, istituiva un sistema assicurativo obbligatorio contro le malattie e la disoccupazione a favore dei dipendenti (ma non dei loro familiari, e che non comprendeva neanche l’assistenza ospedaliera), finanziato dai lavoratori, dalle imprese e dalla fiscalità generale, con il coinvolgimento sul piano organizzativo delle friendly societies riconosciute e controllate dallo Stato143. In Gran Bretagna, la tendenza negli anni 1918-1929 fu quella dell’espansione in modo disorganico dei sistemi di sicurezza sociale, attraverso misure contro la disoccupazione, la malattia, gli infortuni e l’invalidità/vecchiaia, che ampliavano le coperture assicurative precedenti in senso più universalistico. Questa politica episodica di intervento, che nello specifico caso inglese conviveva con un’intensa attività di associazionismo caritativo e filantropico, non si dimostrò però in grado di rispondere efficacemente al problema strutturale e prolungato - che si sarebbe
143 C. MARTINELLI, op. cit, pag. 4.
rivelato centrale tra gli anni ‘20 e ‘30 - della disoccupazione di massa144. Queste
misure furono prese quasi per necessità dai governi inglesi, incapaci di scegliere una direzione precisa tra la volontà di un ritorno al laissez faire delle élite economiche e la rinnovata conflittualità sociale degli anni ‘20, un decennio di sostanziale stagnazione economica per la Gran Bretagna, caratterizzato da una forte disoccupazione e da una crisi delle industrie del carbone, del tessile e delle industrie pesanti dell’acciaio oltreché dell’edilizia.
Tuttavia appare interessante evidenziare come, in tale contesto, l’intervento dello Stato nella società e nelle vite dei suoi cittadini aveva delle finalità ben diverse rispetto ai presupposti su cui si sarebbe basato il futuro welfare state britannico. La Gran Bretagna non sfuggì all’idea dominante nell’Europa tra le due guerre che la Nazione fosse un “corpo malato”. Molti provvedimenti in materia sociale furono presi con l’esplicito obiettivo di rigenerare e depurare il corpo sociale dagli organismi nocivi al suo interno. Anche in Gran Bretagna furono propagandate o adottate politiche sociali di eugenetica, soprattutto negativa, come la sterilizzazione degli individui considerati pericolosi per la società e per lo Stato, e la loro esclusione da ogni forma di tutela. I dibattiti e le ricerche “scientifiche” anche in Gran Bretagna furono incentrati sulla richiesta di politiche di controllo delle nascite, di riduzione delle malattie infettive veneree e dell’abuso di alcool. Queste politiche di eugenetica furono rivolte verso quello che fu definito un “gruppo sociale problematico”, che coincideva a grandi linee con i ceti sociali più bassi ed emarginati delle grandi città industriali inglesi, con i portatori di handicap e disabilità mentali e con le giovani donne povere e nubili. Lo stesso spirito animava anche altre misure prese dallo Stato, come per esempio in materia igienico-sanitaria, urbanistica e previdenziale; lo storico Mazower ha scritto che questo tipo di politiche sociali nei Paesi europei dell’epoca per “accrescere la popolazione e a migliorarne la salute riflettevano le ansie di stati nazionali decisi a difendere o riaffermare sé stessi in un mondo di nemici”145.
144 Per un’analisi più dettagliata e precisa delle misure prese dai governi britannici tra il 1919 ed il 1929, si rimanda a G. Montroni, Lo Stato sociale in Gran Bretagna tra le due guerre in “Studi storici: rivista trimestrale dell‘Istituto Gramsci”, n. 2 aprile-giugno 2003 (anno 44), pp. 373-397, in particolare cfr. pp. 376-392.
Sarà infatti solo con la Seconda guerra mondiale che si porranno le condizioni per la costruzione di un vero e proprio welfare state moderno. Le tragedie della guerra con il conseguente aumento delle difficoltà riguardo alle condizioni di vita soprattutto per le classi meno abbienti, convinsero le autorità politiche della necessità di costruire uno stato sociale più stabile e includente di quanto non fosse stato fino a quel momento, in grado, nel futuro, di proteggere il popolo dagli imprevisti della vita e da altre eventuali crisi del sistema economico e, nel presente, anche di rendere più sopportabili per le masse gli immani sacrifici che lo sforzo bellico rendeva indispensabili. Ecco, quindi, che nel giugno del 1941 il Governo di coalizione nazionale presieduto da Winston Churchill decide di istituire una commissione con l’incarico di “intraprendere un esame dei progetti già esistenti per le Assicurazioni sociali e provvedimenti affini con speciale referenza alla loro correlatività, compresi quelli inerenti alle paghe dei lavoratori, e di avanzare suggerimenti del caso”, a capo della quale viene nominato William Henry Beveridge146. Questa Commissione ha avuto modo di
elaborare le linee programmatiche per un nuovo Stato sociale, compito tanto più importante nel pieno svolgersi della Seconda guerra mondiale.
Proprio in questo contesto, il “Piano Beveridge” è stato fondamentale non solo come arma di propaganda e mobilitazione contro il nemico nazista, ma anche come dichiarazione programmatica di riforma sociale radicale, compatibile però con il rafforzamento delle istituzioni liberaldemocratiche inglesi. In antitesi al modello di Stato sociale totalitario e razziale tedesco, Beveridge propose uno Stato che liberasse i propri cittadini dal bisogno all’interno di una società libera. Il principio alla base del Piano Beveridge del 1942 era la creazione di un sistema di protezione sociale che esistesse per il cittadino, e il cui scopo avrebbe dovuto essere “abolire il bisogno, assicurando a qualsiasi momento della vita ad ogni cittadino che voglia lavorare in misura della propria capacità un reddito sufficiente per far fronte alla responsabilità che gli incombono”.
L’abolizione del bisogno sarebbe stata raggiungibile attraverso la distruzione di quei “Cinque Giganti” che affliggevano la società inglese, identificati nel Rapporto con “la Miseria […], la Malattia, l’Ignoranza, lo Squallore e l’Ozio.”. Il
mezzo per sconfiggere la povertà assoluta doveva invece essere l’assunzione da parte dello Stato di un ruolo attivo di politica sociale e allo stesso tempo di programmazione economico-industriale, con l’istituzione di un vasto programma di protezione sociale, la creazione di un servizio sanitario nazionale e l’incentivo alla piena occupazione.
Le proposte avanzate dalla Commissione in questo senso prospettavano l’unificazione e la revisione generale dell’irrazionale sistema previdenziale britannico. Tale riforma si basava su un allargamento delle assicurazioni sociali all’intera cittadinanza. Dovevano così essere ampliate le coperture assicurative e previdenziali statali a tutti i lavoratori, i sussidi per l’infanzia e le forme di prevenzione della disoccupazione di massa. Doveva inoltre essere costituito un servizio sanitario universale e nazionale. Le misure di protezione sociale (che coprivano i casi di disoccupazione, malattia, infortuni sul lavoro, invalidità e vecchiaia) e i sussidi familiari furono ambedue rivolte a sostenere “keynesianamente” la domanda, garantendo un reddito minimo universale, ma ponendo allo stesso tempo al centro dell’azione sociale il lavoro e la piena occupazione.
La creazione di un sistema sanitario nazionale - gratuito e universale - era ritenuto uno dei perni fondamentali per poter intraprendere politiche di prevenzione e assistenza sanitaria, e di tutela per i lavoratori malati o infortunati, finalizzate alla riabilitazione al lavoro.
Sarebbero stati però proprio i laburisti di Attlee, avversari politici del partito di Beveridge alle elezioni del ‘45, a mettere in pratica gran parte delle sue riforme. In quanto alla realizzazione politica del Piano del 1942, non si può difatti prescindere dalle grandi riforme “strutturali” varate dal governo laburista di Attlee, rese peraltro possibili dal nuovo orientamento degli Stati usciti vincitori dalla Seconda guerra mondiale.
In questo quadro prende forma, tra il 1945 e il 1948, il modello britannico di moderno welfare state, con determinate caratteristiche di base che conserverà
praticamente inalterate fino alla fine degli anni ‘70, e riconducibili al celebre slogan: from the cradle to the grave147.
Tra i principali interventi volti alla costruzione del welfare state troviamo appunto l’istituzione del servizio sanitario nazionale. Nel 1946 il Governo Laburista di Clement Attlee, e del ministro della sanità Aneurin Bevan, istituisce con il National Health Service Act il primo sistema sanitario nazionale a base universalistica che costituirà per decenni un modello per tutto il mondo progredito. Veniva previsto un sistema finanziato dai tributi dei cittadini, governato a livello nazionale, che erogava una serie di prestazioni sanitarie gratuite. Le famiglie usufruivano gratuitamente dei medici di base, dei ricoveri ospedalieri nei nosocomi pubblici e della somministrazione farmaceutica.
In quel momento la Gran Bretagna, su questo terreno, si poneva all’avanguardia in Europa e nel mondo148.