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Nonostante quanto osservato nel paragrafo precedente, è evidente che oggi non sembra il momento migliore per parlare di un federalizing process europeo: le cause della crisi economica che attanaglia gli Stati del vecchio continente vengono ricondotte fondamentalmente alla costruzione europea, ai vincoli economici e finanziari che ne derivano, alla impossibilità di manovre economiche e sociali nazionali86. Un “corpo senza un’anima”87 insomma, in quanto la democrazia per esistere presuppone un demos, un popolo, e un popolo europeo non esiste. Certo, non si può dire che una riflessione intorno alla crisi dell’Unione europea rappresenti qualcosa di nuovo. Al di là della sterminata produzione bibliografica degli ultimi vent’anni, in cui le sorti dell’Unione vengono immancabilmente associate a termini come crisi, impasse, declino, deficit, a ben vedere è la stessa evoluzione normativa e istituzionale dell’edificio europeo a mostrare come essa proceda costantemente, sin dalla sua creazione, attraverso rotture successive, situazioni di stallo politico e decisionale cui hanno fatto seguito momenti di rilancio dell’integrazione comunitaria88. Un gigante dai piedi di argilla.

Per dirla con i termini assai efficaci usati in un recente dibattito italiano sul punto, la crisi è un elemento connaturale all’Unione Europea proprio per il fatto di essere questa, sin dall’origine, “un ideale senza modello”89, un “sistema in evoluzione e

85 B. CARAVITA, Federalismi, Federalismo europeo, Federalismo fiscale, in federalismi.it, editoriale n. 9/2011, pp. 3 - 4.

86 B. CARAVITA, Il Federalizing process europeo, in federalismi.it, editoriale n. 17/2014, pag. 1. 87 M.P. MADURO, the importance of being called a constitution: Constitutional authority and the authority of constitutionalism, in International Journal of Constitutional Law, 2005, pag. 340. 88 E. OLIVITO, G. REPETTO, Perché pensare la crisi dell’U.E. in termini di conflitti costituzionali, in Costituzionalismo.it, fascicolo 3/2016, pp. 1 - 2.

89 L. TORCHIA, In crisi per sempre? L’Europa fra ideali e realtà, in Riv. trim. dir. pubbl., 2016, pag. 617.

dotato di … caratteristiche di precarietà [che] ha bisogno delle crisi per svilupparsi”90. Oggi, tuttavia, appare sempre più chiaro che tutto ciò non è stato e

non è privo di costi. Questa nuova situazione economico - finanziaria impone risposte che non siano meramente tecniche, bensì profondamente e drammaticamente politiche, richiedendo scelte complessive di orientamento dell’assetto sociale. Le possibilità a disposizione degli Stati europei per uscire dalla crisi sono poche e sostanzialmente molto chiare: da una parte si può scegliere di schiacciare l’acceleratore della integrazione europea dando vita ad un momento propulsivo finalmente decisivo; dall’altra, si può decidere di frenare, assumendo la consapevolezza che ciò significherebbe non solo fermarsi o retrocedere di qualche metro, bensì sancire la fine ed il fallimento di tutto il processo, che si mostrerebbe incapace di efficacia proprio nel momento in cui dovrebbe mostrarne91.

La fase di crisi attuale, infatti, si presenta come molto diversa e sicuramente molto più grave rispetto a quella della metà degli anni duemila, se non altro perché si estende su fronti diversi (dalla crisi dell’euro a quella dei migranti, da Brexit, oggetto della nostra analisi, al terrorismo, dalle ondate populiste alle resistenze nazionalistiche dei paesi dell’Est) e perché non può certo essere dissociata dalla più generale crisi economica che ha afflitto il continente europeo più di altri quadranti geopolitici. Seppure, quindi, si può condividere l’idea di un fisiologico e ininterrotto procedere a singhiozzo dell’integrazione europea, diventa ogni giorno più difficile ragionare della situazione in corso come di un’inevitabile “crisi di crescita”, dietro alla quale si nascondono le premesse per un rilancio prossimo venturo dell’ideale europeo92.

Di contro, il processo di integrazione ha da diversi anni superato un punto di non ritorno, oltre il quale non sono più concesse pause ed indecisioni. Oggi, infatti, si può osservare come la totalità dei grandi settori normativi con cui gli Stati europei si confrontano quotidianamente hanno sempre una dimensione comunitaria da tener presente. La stessa "custodia" dei valori fondamentali comuni, come

90 S. CASSESE, “L’Europa vive di crisi”, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 3/2016, pag. 785.

91 B. CARAVITA, La grande sfida dell’Unione Europea tra prospettive di rilancio e ombre di declino, in federalismi.it, editoriale n. 1/2012, pag. 2.

abbiamo visto nel paragrafo precedente, sembra non più affidata alle dinamiche istituzionali interne, bensì al ruolo, da un lato, della Corte di Giustizia delle Comunità europee, all'altro, alla procedura disegnata nell'art. 7 del Trattato Europeo. Per di più tale dimensione negli ultimi anni si è fatta sempre più pressante e dettagliata, tanto da diventare parte integrante e determinante delle politiche dei singoli Stati membri dell’Unione. Non solo, la dimensione europea è oggi dominante sia sotto il profilo generale (c'è una dimensione europea dei principi costituzionali, del diritto penale, del diritto commerciale, del diritto amministrativo), sia in settori più tecnici come la concorrenza, i servizi bancari, quelli assicurativi, le politiche della sicurezza, la giustizia, le comunicazioni elettroniche, la tutela dell'ambiente, le politiche del lavoro, il procedimento amministrativo e così via.

Sostenere che la dimensione europea di tutti questi settori sia predominante equivale a dire che gli ambiti in questione sono stati oggetto di un importante processo di omogeneizzazione in forza del quale oggi il contenuto sostanziale delle legislazioni dei singoli stati europei è pressoché identico. Questa forte omogeneizzazione in atto spiega perché gli Stati europei siano oggi legati tramite un doppio filo al processo di integrazione e soprattutto è la dimostrazione del fatto che il processo, pur se a questo risultato si è arrivati quasi inconsapevolmente, non può permettersi di affrontare passi indietro, ma solo di raggiungere il compimento definitivo di una organizzazione di tipo federale93.

Tuttavia il rischio di fare del governo europeo attuale un federalismo esecutivo che risolve la sua azione in un adeguamento agli imperativi del mercato, vede piuttosto il processo di integrazione europea come l’istituzionalizzazione di un percorso di condivisione politica e costituzionale che pone tanto agli Stati che all’Unione sfide comuni, che richiedono ad entrambi i livelli tanto la riattivazione dei canali di partecipazione democratica quanto la previsione di una comune responsabilità tra Stati intorno alle scelte di fondo94.

93 B. CARAVITA, op. cit., pp. 2 - 3.

94 J. HABERMAS, Democracy or Capitalism? On the Abject Spectacle of a World Society Fragmented Along National Lines, in ID., The Lure of Technocracy, Cambridge, 2015, pp. 85 ss., 93.

Se una sfida, quindi, è dato cogliere nell’attuale fase, è proprio quella con cui si verrà misurando in futuro la capacità dell’UE di riassestare in termini partecipativi la sua azione, approdando a quella “comune responsabilità” come unico verosimile metro dell’azione pubblica in grado di limitare la prevalenza assoluta della logica di mercato95.

Del resto, a rendere oggi poco realistico (ancora prima che non auspicabile) un ritorno ai confini nazionali sta anche la circostanza che proprio il terreno delle scelte economiche ha dimostrato in questi anni come i governi nazionali abbiano potuto, per un quadro regolativo che glielo permetteva ma anche per una loro debolezza intrinseca, “accaparrarsi i benefici della convivenza dell’Unione a fini interni, ed esternalizzare gli svantaggi”96.