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La didattica della sintassi nella pratica ginnasiale: dal metodo tradizionale descrittivo alla verbodipendenza.

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Sommario

PREMESSA 2

PRIMO CAPITOLO: MODELLI LINGUISTICI E METODI DIDATTICI 4

INTRODUZIONE 5

IL MODELLO TRADIZIONALE 6

NUOVI ORIENTAMENTI METODOLOGICI 16

LINEE FONDAMENTALI DELLA SINTASSI STRUTTURALE DI TESNIERE: LA GRAMMATICA DELLA DIPENDENZA 19

IL METODO GLOBALE 40

SECONDO CAPITOLO: LA DIDATTICA DELLA SINTASSI DEI CASI 50

INTRODUZIONE 51

IL METODO TRADIZIONALE 53

IL METODO GLOBALE 79

LA GRAMMATICA DELLA DIPENDENZA 86

TERZO CAPITOLO: LA VERBODIPENDENZA IN UNA PROPOSTA OPERATIVA 96

INTRODUZIONE 97

ANALISI SINTATTICA DI PASSI DI ANABASI I1. 98

SCHEMI AD ALBERO 108

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Premessa

Trascurata, spesso ossimoricamente frantumata, talora semplicemente ignorata. La situazione della sintassi nella maggior parte dei manuali di greco in uso nella scuola italiana non rende giustizia a una componente essenziale di questa lingua, che ne organizza il funzionamento e le potenzialità espressive.

La constatazione di quella che è parsa una seria lacuna, e che deve forse ascriversi al tradizionale e ingeneroso confronto con la sintassi del latino – certo più rigida e sistematica – costituisce la base di questo lavoro.

È cosa nota e ribadita ormai da tempo che il modello linguistico della grammatica tradizionale, applicato allo studio delle lingue classiche, ha privilegiato uno studio dettagliato e minuzioso della morfologia, indagata fin nelle forme meno usuali. Ciò è avvenuto a scapito dell’osservazione delle strutture e dello studio della sintassi, che non ha trovato una collocazione specifica neppure nella scansione dell’apprendimento previsto nel quinquennio del liceo classico. Nel biennio ginnasiale l’attenzione prevalente verso le forme ha relegato in secondo piano l’approfondimento sintattico, affidato ad anticipazioni o a rapide incursioni poco sistematiche, che spesso non hanno trovato un inquadramento sufficientemente meditato nemmeno nel triennio, orientato alla lettura dei testi. Il riepilogo di sintassi affidato al liceo, nella maggior parte dei casi non finalizzato ad una trattazione esaustiva e collocato nel volume di versioni, dà infatti più l’impressione di uno strumento di sostegno estemporaneo per la traduzione che quella di un repertorio di nozioni mirato a un approfondimento meditato dei meccanismi che governano la lingua.

Testimonia questa incerta collocazione dello studio della sintassi anche l’impostazione dei manuali, che nei casi peggiori sono privi nel volume di teoria di una sezione esclusivamente dedicata alla sintassi, e dotati, in quelli di esercizi, soltanto di schede informative. In altri casi essi sono provvisti di un corredo teorico di sintassi insufficiente e asistematico, e solo in qualche caso più fortunato forniti di una parte sintattica articolata sistematicamente.

Al di là dell’indagine sulle sue motivazioni, lo status quaestionis incoraggia dunque una riflessione sui metodi di insegnamento della lingua, e in particolare della sintassi.

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3 Nel primo capitolo viene affrontato sinteticamente il rapporto tra modello teorico e metodo didattico, per poi evidenziare le principali modalità con cui viene proposto lo studio della sintassi in tre diverse prospettive metodologiche: la grammatica tradizionale, che si fonda sull’indimostrata equivalenza tra predicazioni linguistiche e predicazioni ontologiche; la grammatica della dipendenza – o verbodipendenza – che smentisce questa visuale assolutizzante analizzando la lingua da un punto di vista interno, formale e nelle sue strutture; infine il metodo globale, che assume come punto di riferimento le modalità dell’apprendimento diretto – di tipo appunto globale – proprio della lingua materna.

Il secondo capitolo focalizza un settore specifico della sintassi – la sintassi dei casi – per verificare in che modo i tre orientamenti di metodo analizzati trattano quest’argomento. Per il metodo tradizionale – che è il più diffuso – l’analisi è condotta su cinque manuali scolastici, differenti per datazione e impostazione didattica.

Per il metodo globale viene preso in considerazione il Corso intitolato Reading Greek, che ha esteso allo studio delle lingue classiche modalità da tempo felicemente esperite per lo studio di quelle moderne.

Per la verbodipendenza invece, in mancanza di un manuale di greco che adotti questo modello, farò riferimento a singoli contributi, peraltro quasi sempre concepiti per il latino, per estrarne i criteri metodologici da utilizzare nello studio della sintassi dei casi. Il terzo capitolo formula una proposta operativa il cui fine è quello di verificare l’efficacia didattica della verbodipendenza. Viene pertanto proposta, a titolo esemplificativo, la lettura di alcuni passi di Anabasi I 1, articolati secondo i criteri di questo modello linguistico, caratterizzato dalla centralità del verbo e dalla ricostruzione del suo quadro predicativo. La presentazione, in chiusura, di schemi ad albero che raffigurano graficamente la struttura sintattica dei singoli periodi, ha lo scopo di offrire una percezione più diretta e immediata della organizzazione del testo analizzato.

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Primo capitolo:

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Introduzione

“È difficile vedere come si possa insegnare una lingua in particolare senza conoscere la struttura e il funzionamento della lingua nel suo complesso”1. Le parole del linguista Eddy Roulet introducono alla sostanza della questione qui affrontata, ovvero il rapporto tra l’astrazione teorica della linguistica e le esigenze concrete della didattica delle lingue.

Anzitutto va osservato che la distinzione in due discipline consapevolmente autonome è un fatto moderno, dato che “sino all’inizio del ventesimo secolo, teoria, descrizione e insegnamento delle lingue erano considerati un’entità unica”2. Sulla scorta del modello medievale e prima aristotelico si aveva allora una concezione ancora assolutizzante del linguaggio, nel quale i piani di studio si sovrapponevano uniformandosi, e il cui costante riferimento era la Grammatica di Port-Royal3. Neppure la linguistica storica comparata dell’ottocento apportò uno sviluppo decisivo nel delineare queste distinzioni, poiché la riflessione prese in esame non la lingua in sé, ma la sua evoluzione. Fu soltanto con la lezione di Ferdinand de Saussure4 che si aprirono le porte ad una speculazione teorica che, considerando la lingua un sistema compiuto e autonomo, valutò la linguistica come una disciplina indipendente e nettamente distinta dalla glottodidattica.

Va aggiunto che della linguistica, il cui fine è creare modelli teorici e polivalenti, fa parte anche la descrizione di una lingua specifica. Questa fase particolare di un processo generale costituisce il ponte tra pura astrazione e pratica didattica.

Per quanto riguarda la relazione tra le due discipline, essa consiste prevalentemente nella possibilità, da parte della didattica delle lingue, di prendere in prestito le acquisizioni della teorizzazione linguistica. Va detto da subito, tuttavia, che non è possibile trasferire direttamente e globalmente i risultati teorici nella pratica didattica, poiché le due discipline hanno fini, metodi e metalinguaggi differenti: “la grammatica scientifica, cioè il modello, dovrà costituire il riferimento, dare le coordinate generali, ma da sola, senza la considerazione dei problemi dell’insegnamento, rischierà di essere,

1

ROULET 1980, p. 94.

2 ROULET 1980, p. 12.

3 Antoine Arnaud, Claude Lancelot, Grammaire générale et raisonnée, Port Royal 1660. Cf. infra pp.

11-12.

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6 anche se scientificamente valida, inadeguata”5. Pertanto, nell’analizzare questo rapporto, è necessario precisare sempre che cosa la didattica trae o può trarre dalle teorie linguistiche, e adattarla alle proprie esigenze: la concezione generale del linguaggio, il metalinguaggio, una migliore conoscenza della struttura della lingua che si riverbera implicitamente sui contenuti dell’insegnamento etc. Non si tratta tuttavia di un rapporto unidirezionale, nel senso che la glottodidattica sfrutta la linguistica teorica senza darle nulla in cambio6. Si tratta invece di una relazione reciproca in cui la didattica delle lingue assolve al compito di costante verifica degli elaborati teorici, ponendo eventualmente problemi intorno ai quali la linguistica costruisce la sua riflessione.

Il fine del presente capitolo è mettere in luce un aspetto specifico di questa relazione, vale a dire il rapporto che lega la teoria grammaticale nelle sue diverse elaborazioni alla pratica della glottodidattica, e in particolare alla didattica delle lingue classiche: quali modelli astratti costituiscono la base teorica sulla quale si sono insegnati e si insegnano il greco e il latino?

Il modello tradizionale

Il cosiddetto modello linguistico tradizionale non è frutto di una teorizzazione organica e astratta, ma presuppone una datata e lunga riflessione sul linguaggio e sul mondo, i cui albori risalgono a Platone ed Aristotele.

L’aspetto sostanziale che distingue il modello tradizionale da quelli moderni – ovvero da Saussure in poi – è il ricorrere, nell’indagine sul linguaggio, a predicazioni di tipo nozionale e non formale. Ciò significa che le categorie grammaticali non sono definite in base al loro rapporto reciproco – e quindi formalmente –, ma muovendo dalla presunta corrispondenza con le categorie della logica e del mondo oggettivo – e quindi sostanzialmente, nozionalmente. Ogni categoria grammaticale è dunque intesa come

5 GIORDANO RAMPIONI 1998, p. 62. Cf. WILKINS 1973, p. 228, dove si parla di “insights”,

intuizioni, a proposito degli arricchimenti teorici che la didattica può trarre dalla linguistica, e si chiarisce che questa ha il compito di “accrescere le cognizioni sulla natura del linguaggio, al quale viene viene sensibilizzato chiunque abbia studiato linguistica”.

6Cf. ROULET 1980, p. 102. Diversamente la pensa WILKINS 1973, p. 2, nota 3: “Si sostiene

generalmente che la glottodidattica possa trarre giovamento dalla linguistica. Non ritengo possa verificarsi l’ipotesi contraria”.

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7 specchio di una corrispondente categoria logica, e si parla pertanto di grammatica speculativa, col preteso risultato di avere a che fare con categorie universali, valide per ogni lingua perché valide nella realtà. Tuttavia queste definizioni nozionali non sono soddisfacenti. Efficace l’esemplificazione di Proverbio relativa alle parti del discorso: “esse vengono definite sulla base del senso in esse contenuto o secondo il senso che loro si conferisce. Ciò crea una evidente serie di ambiguità: se il sostantivo, infatti […] designa spesso delle sostanze, questo valore attribuitogli non è universale e non costituisce un criterio per definirlo. Se dico, infatti, la verità o il blu, esprimo delle qualità; se dico la corsa o il canto esprimo dei processi; se dico infine il per o il contro, esprimo delle relazioni” 7. Ciò che è essenziale è invece la funzione che le parti del discorso ricoprono all’interno della complessa rete di rapporti della frase.

Qualche cenno storico

Vediamo ora, in sintesi, quali sono state le fasi di sviluppo della speculazione grammaticale attraverso le quali si è strutturata la cosiddetta grammatica tradizionale – oggetto di studio in queste pagine – soffermandoci rapidamente soltanto sui momenti significativi ai fini della nostra ricerca.

La riflessione sulla lingua affonda le sue radici all’interno dell’indagine filosofica del VI e V secolo a. c., per svilupparsi in seguito in direzione segnatamente grammaticale. Inizialmente la speculazione ebbe per oggetto il linguaggio come organismo8, e in particolare l’interrogativo se la lingua fosse un organismo naturale o convenzionale; se si trattava insomma di qualcosa di insito nella natura umana, e quindi φύσει, oppure di un insieme formale frutto di una riflessione concordata, e quindi νόμῳ. Le implicazioni filosofiche delle due posizioni si riverberano sul rapporto tra parola e realtà, e possono ritrovarsi rispettivamente nel pensiero di Eraclito9, che vi riconosce relazione d’identità,

7 PROVERBIO 1981, p. 55. 8 Cf. PROVERBIO 1981, pp. 56-62. 9

Con Antonino Pagliaro – citato in PROVERBIO 1981, p. 57 – possiamo dire che per Eraclito “la proposizione è il modello verbale di ciò che è il reale come movimento”. GAMBARARA 1984, p. 225, ricorda che “Eraclito interpreta e spiega il mondo correlandone gli elementi: questo legame di contraddizione (“coincidentia oppositorum”, “concordia discors”) costituisce l’ordinamento, l’armonia profonda di tutte le cose, la loro natura e legge. Ad essa sono soggetti i nomi”: da questa convinzione

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8 e di Parmenide10, che al contrario ritiene che la parola non possa significare la realtà del mondo.

Anche Platone ed Aristotele si inserirono, in seguito, nel dibattito sulla natura del linguaggio. La riflessione più matura e articolata sul problema della cosiddetta “correttezza” dei nomi, vale a dire della corrispondenza che li lega al piano della realtà, è esposta nel Cratilo11: qui Platone pone il problema della convenzionalità del linguaggio, mettendo in fertile opposizione dialettica le opinioni di chi sostiene la naturalità dei nomi – e dunque il loro valore ontologico –, e di chi invece ne asserisce l’origine convenzionale. Lo sciame etimologico, che occupa la parte centrale del dialogo (396c–421c), costituisce il banco di prova delle due tesi contrapposte, senza condurre, in conclusione, a un punto d’accordo12: “attraverso la confutazione di entrambe le tesi emerge, nel corso del dialogo, quella che è per Platone la soluzione corretta. L’esattezza del linguaggio dipende da una conoscenza prelinguistica delle cose, dunque la questione della giustezza delle parole, isolatamente presa, non ha alcun significato”13.

Nel De interpretazione Aristotele, invece, afferma la convenzionalità del linguaggio: ἔστι δὲ λόγος ἅπας μὲν σημαντικός, οὐχ ὡς ὄργανον δέ, ἀλλ' ὥσπερ

εἴρηται κατὰ συνθήκην (De interpr. 16b 34 - 17a1).

Le origini della riflessione linguistica ebbero dunque per oggetto la lingua come ente in sé.

Nacque presto anche l’interesse per la sua struttura e le sue componenti, con l’inizio di un’indagine propriamente grammaticale14 che, come detto, pose le basi teoriche di quello che abbiamo chiamato modello grammaticale tradizionale.

deriva il significato del fr. 48 Diels-Krantz: βίος: “τῶι οὖν τόξωι ὄνομα βίος, ἔργον δὲ θάνατος […]”, dove la parola βιός – arco – è insieme paronimo di βίος, “vita”, e foriera di un significato opposto ad essa.

10 Cf. Parmenide 28 B 8, 34-41: i nomi che gli uomini hanno dato all’essere non gli corrispondono (cf.

GAMBARARA 1984, pp. 230-235).

11 Per un commento al Cratilo cf. SEDLEY 2003 e il recentissimo ADEMOLLO 2011. 12

Pl. Crat., 438d5–e1: δῆλον ὅτι ἄλλ' ἄττα ζητητέα πλὴν ὀνομάτων, ἃ ἡμῖν ἐμφανιεῖ ἄνευ ὀνομάτων

ὁπότερα τούτων ἐστὶ τἀληθῆ, δείξαντα δῆλον ὅτι τὴν ἀλήθειαν τῶν ὄντων. […] Ἔστιν ἄρα, ὡς ἔοικεν, ὦ Κρατύλε, δυνατὸν μαθεῖν ἄνευ ὀνομάτων τὰ ὄντα, εἴπερ ταῦτα οὕτως ἔχει.

13 TRABATTONI 1998, p. 105. Cf. anche ADEMOLLO 2011, pp. 444-447. 14

Sull’origine della riflessione segnatamente grammaticale cf. DELLA CASA 1973, PFEIFFER 1973, e LALLOT 1988. BERTAGNA 2006 a p. 89 osserva che “la grammatica greca emerge quale forma di

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9 In età classica fu Protagora il primo a compiere studi grammaticali15, distinguendo tra l’altro i generi del nome (τὰ γένη τῶν ὀνομάτων διῄρει, ἄρρενα καὶ θήλεα καὶ σκεύη, Aristot., Rhet. III 5. 1407b 6), mentre per quanto riguarda la suddivisione dei tempi del verbo la testimonianza di Diogene Laerzio – πρῶτος μέρη χρόνου διώρισε, IX 52 – risulta ambigua e ha suscitato autorevoli riserve16.

È in Platone e Aristotele che si coglie l’inizio di una sistematizzazione del panorama grammaticale greco. Fu infatti Platone il primo ad operare la distinzione fondamentale tra nome, ὄνομα, e verbo, ῥῆμα17, osservando la diversa funzione svolta da queste due categorie:

Τὸ μὲν ἐπὶ ταῖς πράξεσιν ὂν δήλωμα ῥῆμά που λέγομεν. […] Τὸ δέ γ' ἐπ' αὐτοῖς τοῖς ἐκείνας πράττουσι σημεῖον τῆς φωνῆς ἐπιτεθὲν ὄνομα18.

La valutazione platonica poggia dunque su criteri diversi da quelli attuali, sintattici e non morfologici: il termine ὄνομα viene riferito qui esclusivamente alla parte del discorso che può essere soggetto di una predicazione19.

La rilevanza del contributo platonico fu assoluta perché determinò l’oggetto dell’indagine: “une fois constaté qu’on parle avec (au moins) deux espèces de mots, philosophe, puis grammairiens, n’auront de cesse qu’ils n’aient établi s’il y en a d’autres, et combine, et pour quoi faire”20.

Aristotele sviluppò la sua riflessione grammaticale nella Poetica e nel De interpretatione, individuando come discriminante per la distinzione tra ὄνομα e ῥῆμα l’indicazione di tempo, presente nel solo verbo.

sapere autonomo fra il II e il I sec. a. C” – in relazione alla datazione dell’Ars grammatica di Dionisio Trace – “ma le sue radici ed il suo stesso lessico risalgono al periodo classico, se non al periodo arcaico, e trovano un fertile terreno nella produzione letteraria e nella filosofia greca”.

15 L’interesse dei sofisti per la lingua – e per la grammatica – è testimoniato ampiamente: cf. PFEIFFER

1973, pp. 90-96; LALLOT 1988, pp. 12-13.

16 Cf. PFEIFFER 1973, p. 92, che definisce questa attribuzione “piuttosto infelice”.

17 Il valore tecnico di “verbo” assunto da ῥῆμα in Platone è approfondito da BERTAGNA 2006, che

rivisita organicamente lo spettro di significati del termine all’interno dei dialoghi platonici. Nel Sofista,

ῥῆμα, che in precedenza veniva definito per alterità rispetto a ὄνομα e λόγος, viene a “rivendicare un

ruolo positivo, cioè la predicazione di qualcosa rispetto ad un oggetto”(BERTAGNA 2006, p. 109).

18 Pl., Soph. 262a.

19 Cf. PROVERBIO 1981, p. 65 e LALLOT 1988, p. 14: “L’opposition onoma-rhēma, chez Platon,

apparaît donc plus logique que morphologique”.

20

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10 ὄνομα δέ ἐστι φωνὴ συνθετὴ σημαντικὴ ἄνευ χρόνου […] ῥῆμα δὲ φωνὴ συνθετὴ σημαντικὴ μετὰ χρόνου21

.

Da questo momento in poi ogni contributo alla teorizzazione grammaticale fu improntato alla ridiscussione e all’ampliamento di quanto astratto da Platone – e Aristotele –, con l’aggiunta o la modifica delle parti in cui suddividere il discorso. Alla riflessione grammaticale si dedicarono, come noto, gli Stoici22, interessati agli aspetti logici del linguaggio, i loro continuatori di Pergamo23 e i grammatici alessandrini24. Questi ultimi impostarono una teoria grammaticale sistematica, ma non organizzarono le strutture della lingua in una teoria definita. Tra loro si distinse un allievo di Aristarco, Dionisio Trace, al quale è attribuita una τέχνη γραμματική25, il più antico trattato grammaticale di greco giuntoci.

Quest’opera traghettò la codificazione grammaticale a Roma: adattata al latino da Varrone26, costituì il riferimento principale per lo studio della grammatica latina, e nella trattazione delle parti del discorso non conobbe che “alcune modifiche di secondaria importanza, dando in tal modo consistenza all’opinione che le categorie grammaticali elaborate dagli studiosi greci e definite nozionalmente […] costituissero categorie universali e proprie del linguaggio in generale27”.

Questo presupposto teorico fondamentale si consolidò nel tempo e attraverso la canonizzazione dell’Ars grammatica28 di Donato e delle Institutiones grammaticae29 di Prisciano gli studi grammaticali giunsero al Medioevo, epoca in cui rifiorirono riaffermandosi in direzione universalistica. La filosofia Scolastica, in particolare,

21 Arist., Poet., 1457a 10-15.

22 “Paulatim a philosophis ac maxime Stoicis aucuts est numerus [scil. orationis partium]”, Quint., 1, 4,

19. Sul contributo della grammatica degli Stoici alla teoria delle parti del discorso cf. LALLOT 1988, pp. 15-17.

23 Secondo Svetonio fu Cratete di Mallo a portare gli studi grammaticali a Roma: “Primus igitur, quantum

opinamur, studium grammaticae in urbem intulit Crates Mallotes”, Gramm. 2, 1. La scuola stoicizzante di Pergamo sostenne la posizione che valuta la lingua φύσει, assumendo l’appellativo di anomalista, al

contrario della scuola alessandrina, analogista perché convinta che l’origine della lingua fosse basata su norme prefissate, νόμῳ.

24 Cf. PFEIFFER 1973, pp. 329-422; LALLOT 1988, pp. 17-22.

25 II-I sec. a.c., cf. PFEIFFER 1973, pp. 403-413. Il testo, breve e schematico ma sistematico, è

frammentario. Sulla discussa autenticità dell’opera cf. DI BENEDETTO 1958.

26

Di Varrone sono andati perduti i libri Disciplinae e De origine linguae latinae, mentre del De lingua

latina ne restano 6 dei 25 originari.

27 Così PROVERBIO 1981, p. 68. 28

IV sec d. C., divisa in 3 libri.

29

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11 concepì la grammatica latina – allora il latino era la lingua della cultura, della scienza e della diplomazia – come chiave di lettura della realtà, come uno strumento che “verbalizza il reale30”: i modi di manifestarsi delle cose sarebbero stati strettamente collegati alle parole che le significano e all’intelletto che le conosce, secondo il triangolo modi essendi – modi significandi – modi intelligendi, da cui l’appellativo di modistae ai sostenitori di tale teoria31. Si evidenzia qui, dunque, la pretesa – e sopra smentita – corrispondenza tra categorie grammaticali, logiche e della realtà, caposaldo della grammatica tradizionale.

Di lì a non molto gli studi avrebbero conosciuto il vero e proprio trionfo della grammatica: dopo l’età umanistica, in cui fu privilegiata la lettura delle opere classiche rispetto allo studio formale della lingua, si degenerò in accademia e retorica, nel cosiddetto umanesimo delle lettere, poiché le humanae litterae, svuotate del loro reale messaggio, si trasformarono da mezzo in fine, con profondo tradimento dell’ideale umanistico32. Il formalismo, la pedanteria e la retorica esercitarono il loro magistero facendo perno sulla grammatica, divenuta unico obiettivo degli studi linguistici33. La stessa importanza determinante fu attribuita alla grammatica dagli studiosi di Port Royal. In quest’abbazia nei pressi di Versailles si ritirò, nel XVII secolo, una comunità di studiosi di formazione giansenista e rigidamente razionalista, che si dedicò ad un poderoso studio della logica e della lingua, intese come due ambiti complementari, il primo dei quali rivolto alla definizione delle categorie del discorso, il secondo all’articolazione e all’espressione del pensiero. La Grammaire générale et raisonnée di Arnaud e Lancelot, edita nel 1660, dichiara universale la sua validità, fondandosi sul presupposto che le lingue si basano sulle medesime sostanze e differiscono per i soli accidenti. A causa della vantata universale logicità della grammatica, la Grammaire di Port-Royal ripropone e rafforza l’equivoco di fondo della grammatica tradizionale, vale a dire l’assunto che ogni sintagma della lingua di partenza trova un’equivalente

30

Così FLOCCHINI 1999, p. 16.

31 Numerosi sono tra XII e XIII sec. i trattati grammaticali intitolati “De modis significandi”.

32 Significativi sono i titoli di opere come il “De causis linguae latinae”, che indaga la lingua alla luce

delle categore aristoteliche (J. C. Scaliger, Lugduni Batavorum 1540).

33

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12 corrispondenza nella lingua d’arrivo, prevedendo, nella traduzione, l’uso di perifrasi quando non di vere e proprie storture34.

Il modello grammaticale tradizionale, dunque, le cui radici risalgono alla prima riflessione dei sofisti, filtrata attraverso un lungo percorso (Platone, Aristotele, Stoici, stoicizzanti, alessandrini, grammatici latini, filosofia medievale, sclerotizzazione post-umanistica, logicisti di Port-Royal) ha tuttavia conservato nel tempo la sua fisionomia essenziale basata sulla premessa indimostrata dell’identità tra categorie grammaticali, logiche e oggettive.

Il primo passo verso l’astrazione del linguaggio si ebbe all’inizio del XIX secolo, con la nascita della linguistica comparata. Nella temperie culturale d’inizio XVIII sec., anche in relazione alla nascita del movimento romantico, “andava sorgendo una generale insoddisfazione per le spiegazioni cosiddette logiche e aprioristiche, e una preferenza per il ragionamento storico35”. Tale sensazione, che non era limitata allo studio del linguaggio36, favorì l’osservazione dell’origine dei fenomeni e delle loro mutevoli condizioni esterne, privilegiando la dimensione diacronica e la prospettiva storica. La percezione dell’esistenza di somiglianze notevoli tra lingue geograficamente distanti tra loro37 aprì una pagina di studi linguistici che colpì profondamente la grammatica tradizionale: il suo presupposto basilare, ovvero l’universalità delle strutture grammaticali, fu smentito dal fatto che “tutte le lingue sono soggette ad un continuo mutamento, e che in particolare il greco e il latino classico non erano, da un punto di vista linguistico, che stadi di un processo di continua evoluzione e che gran parte della loro struttura grammaticale si poteva spiegare tramite riduzione o espansione di un sistema più antico di descrizioni grammaticali. Si capì che lingue diverse e stadi cronologici diversi della medesima lingua possono variare notevolmente nella struttura grammaticale, e perciò non era più possibile asserire che il quadro tradizionale delle categorie grammaticali era essenziale al funzionamento del linguaggio umano38”.

34 Cf. PIVA 2004, pp. 65-66. 35 LYONS 1971, p. 28.

36 Per tutti i campi valga l’esempio delle scienze naturali, con la pubblicazione dell’Origine della specie

di C. Darwin (1859).

37 Si è soliti citare come episodio alborale della linguistica comparativa la conferenza di un funzionario

inglese a Calcutta, sir William Jones, che espose nitide analogie tra latino, greco e sanscrito (cf. LYONS 1971, p. 31).

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13

Applicazione didattica del modello linguistico

Nel prendere in considerazione il rapporto tra modello linguistico tradizionale e didattica delle lingue classiche, diciamo da subito che l’impianto teorico si è conservato pressoché inalterato, mentre sul piano operativo si è verifivata nel corso del tempo un’evoluzione che ha cercato di ottimizzarne le applicazioni, limandone le asperità e relativizzandone l’approccio. Osserviamo dunque i risvolti didattici che hanno caratterizzato l’applicazione di questo modello, richiamando contestualmente i “correttivi” introdotti nella pratica dell’insegnamento nei manuali che si sono adeguati a questo tipo di orientamento metodologico.

Un aspetto centrale del metodo tradizionale è il ruolo di primaria rilevanza attribuito alla grammatica, concepita come chiave di lettura, o speculum, del mondo. Essa viene studiata analiticamente, con la ripartizione nie tre grandi blocchi distinti di fonetica, morfologia e sintassi. Tale impostazione, nella sua forma più rigida, ha dato luogo a quella che è stata definita una “polverizzazione degli apprendimenti grammaticali39” che non rende giustizia all’aspetto sistematico della lingua40, e che conferisce eguale importanza a fatti significativi ed eccezioni, con un’improduttiva sovrapposizione dei livelli di priorità. Questo curricolo, dall’aspetto “manifestamente innaturale […] non procede dal più significativo (sintassi) verso il meno significativo (fonetica), ma in direzione opposta41”. Da questa direzione “atomistica” e, appunto, “innaturale” della grammatica tradizionale la didattica recente42 ha cercato di deviare, attribuendo maggiore rilevanza alla sintassi43.

La morfologia, tuttavia, resta nella maggior parte dei casi il campo di studio privilegiato in questo approccio didattico, accompagnato da una scarsissima attenzione al lessico. L’applicazione didattica del presupposto teorico fondamentale della grammatica tradizionale, l’universalità delle categorie grammaticali, ha come principale conseguenza la convinzione di un rapporto paritario tra lingua di partenza e lingua

39 PIVA 2004, p. 199.

40 Già nel 1912 il filosofo e professore Giuseppe Zamboni era persuaso del fatto che “non si possiede una

lingua finché il lessico, la morfologia e la sintassi sono tre cose distinte” (in proposito si veda PROVERBIO 1981, p. 48).

41PROVERBIO 1979, p. 10.

42 Per la didattica recente e i criteri intorno ai quali procede cf. infra cap. II. 43

Cf., per esempio, già CURTIUS 1921, Prefazione p. IX, che nel corso delle varie edizioni succedutesi negli anni ha visto aumentare sensibilmente la sezione dedicata alla sintassi.

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14 d’arrivo. Se ogni lingua, infatti, si regge sulle medesime predicazioni grammaticali, la lingua di partenza si pone come punto di riferimento costante, e il processo di traduzione, recuperando il suo significato etimologico, si configura come un vero e proprio trasferimento di contenuto da una griglia all’altra.

Emerge, tuttavia, a un certo stadio della riflessione linguistica, la necessità di relativizzare la validità di questo assunto, poiché come nota Cracas “ai livelli più avanzati la grammatica diventa più difficile, dato che le categorie equivalenti si differenziano maggiormente nella loro struttura linguistica. Per esempio il latino nobis fugiendum est non ha una struttura simile in italiano44”. Se, sulla base del modello tradizionale, dobbiamo credere nell’universalità delle categorie grammaticali, siamo costretti a rubricare casi del genere nel novero delle eccezioni o delle particolarità espressive che esigono procedimenti di onerosa memorizzazione. Se si relativizza l’approccio, si riconosce invece che ogni lingua si costruisce su strutture proprie, solo in alcuni casi assimiliabile a quelle di un’altra lingua: I was given a present non corrispone sintatticamente all’italiano mi è stato dato un regalo.

L’assunto dell’universalità delle categorie grammaticali riconosce dunque alla lingua madre il ruolo di punto di partenza e di modello allo stesso tempo: l’analisi logica, grammaticale e del periodo rappresentano i presupposti su cui si imposta un fuorviante parallelismo tra lingua di partenza e lingua di arrivo, in una prospettiva didattica normativa e produttiva. Ne sono prova espressioni oggi non più accettate come “in greco il complemento di causa si traduce con” e l’abitudine didattica per cui dalla regola si forgia l’esempio, costruendo una prospettiva errata, opposta a quella corretta e che riserva alla grammatica una posizione prioritaria rispetto alla lingua45.

Il ruolo di punto di partenza accordato alla lingua madre ha un ulteriore effetto di banalizzazione sintattica: la definizione di casi “diretti” per il nominativo e l’accusativo, e di “indiretti” per il genitivo e il dativo (in latino anche per l’ablativo)46, motivata dall’esigenza, nella traduzione italiana, del ricorso ad una preposizione o meno, appiattisce la specificità sintattica della L1: una una frase come ἤκουσα τοῦ ξένου non richiede affatto, in italiano, l’utilizzo di una preposizione.

44

CRACAS 1979, p. 34.

45 Cf. MONTELEONE 1998, pp. 42-45, che riporta alcuni casi di rigide prescrizioni per lo studio della

sintassi, tratti da manuali di latino.

46

Cf. BIONDI-PULIGA 1995, I, p. 48. La didattica della sintassi dei casi sarà esaminata puntualmente nel secondo capitolo.

(15)

15 Il problema è stato affrontato di recente in maniera chiara e incisiva, recuperando la distinzione tra “sintassi di regime” e analisi logica47, e spiegando che lingue diverse rispondono a “sintassi di regime” diverse, benché l’analisi logica si pretenda universale: “il regime dunque è un principio di organizzazione interno alla lingua, il complemento è una forma del discorso definita in termini semantici. Il primo analizza la frase dal punto di vista della lingua presa in esame, l’altro individua dei ruoli di realizzazione del giudizio assertivo a livello interlinguistico”. La sintassi di regime del greco prevede che il complemento oggetto possa essere espresso in accusativo (λαμβάνειν τὴν πόλιν), in genitivo (ἀκούειν τοῦ ξένου) o in dativo (χρῆσθαι ταῖς ναυσί), ma l’analisi logica propria della grammatica tradizionale, che definisce genitivo e dativo casi “indiretti”, non è in grado di spiegare questi fenomeni, sorvolando di fatto sull’organizzazione sintattica delle singole lingue ed appiattendone le specificità48.

Il metodo tradizionale, che accorda alla grammatica un ruolo prioritario rispetto alla lingua, dà forma all’intero sistema di insegnamento/apprendimento delle lingue classiche, sia in prospettiva normativa sia nella più recente impostazione descrittiva, presupponendo una riflessione sul funzionamento del sistema linguistico – langue – che precede l’acquisizione delle competenze utili a livello di parole49.

Non sfugge l’improprietà di un approccio del genere, che procede in maniera diametralmente opposta rispetto alla direzione che sperimentiamo nell’apprendimento della lingua madre, in cui dalle conoscenze della parole si risale alla comprensione della langue50.

47

Si veda tra gli altri GARBUGINO 1995, pp. 589-590, che offre in merito una spiegazione assai lucida, dalla quale sono riprese le righe seguenti.

48 Su questo aspetto fondamentale della sintassi ci soffermeremo incisivamente: cf. infra. 49

Con langue e parole mi riferisco ovviamente ai concetti enucleati in SAUSSURE 1916.

50

(16)

16

Nuovi orientamenti metodologici

In anni recenti si è affinata la sensibilità per la didattica, e conseguentemente la riflessione sull’opportunità di apportare dei correttivi nell’impostazione dell’insegnamento tradizionale delle lingue classiche.

Non è questa la sede per indagare le motivazioni che hanno prodotto progressivamente un senso generale di insoddisfazione51 sia per i docenti sia per i discenti, con risultati che sono deludenti sul piano dell’interesse e del profitto. Quello che invece è opportuno mettere in rilievo è che si è avvertita la necessità di introdurre dei cambiamenti, anche nell’ottica stessa sotto cui si inquadra l’insegnamento delle lingue classiche, ottica che non può e non deve privilegiare l’obiettivo di una produzione in lingua – di ascendenza umanistica52 – e deve invece puntare sulla ricezione del testo53.

L’approccio al testo – si legge nei Programmi Brocca – va articolato sia a livello formale, attraverso lo studio della morfosintassi e del lessico54, sia a livello contenutistico, perché emerga il messaggio che l’autore ha inteso trasmettere introducendoci in un orizzonte altro da noi e a noi culturalmente legato55.

In questa prospettiva è emersa anche l’inadeguatezza dell’orientamento didattico tradizionale, improntato a un rigido grammaticalismo, in nome di un approccio più duttile al testo nelle sue diverse componenti, sia grammaticali – morfologiche e sintattiche – sia lessicali, che si ponga come obiettivo una competenza di tipo ricettivo. Parallelamente si è diffusa la convinzione della necessità di un rinnovamento didattico mirante alla brevità, che privilegi le nozioni “di base” per un apprendimento ragionato

51 Tutti i contributi che propongono strategie innovative muovono da questo presupposto, ovvio e

generalizzato. Cito tra gli altri il solo caso della J.A.C.T., l’équipe che, in ambiente anglosassone, ha realizzato l’esperienza del metodo globale di Reading Greek (cf. pp. 31-41).

52

Cf. MONTELEONE 1998, pp. 45-46.

53 La centralità del testo è stata chiaramente ribadita dalle proposte didattiche della Commissione Brocca,

che ha lavorato all’elaborazione di piani di studio per la riforma della scuola secondaria negli anni 1988-1992 (cf. MPI, Piani di studio della scuola secondaria superiore e programmi dei primi due anni: le

proposte della commissione Brocca, Firenze 1991(d’ora in poi Programmi Brocca biennio), p. 291,

“Indicazioni didattiche”.

54 Cf. MPI, Programmi Brocca biennio, “Obiettivi di apprendimento”, p. 213-214. 55

Cf. MPI, Programmi Brocca biennio, “Finalità specifiche”, p. 118: “la capacità di decodificare i testi […] costituisce lo strumento privilegiato di accesso a questo patrimonio di civiltà”.

(17)

17 della lingua, capace di selezionare quanto si rivela più spendibile sul piano della comprensione del testo56.

Come abbiamo visto, il metodo tradizionale, che è tuttora ampiamente in uso, distingue i tre campi grammaticali della fonetica, della morfologia e della sintassi, con un inevitabile risvolto di astrazione, ma allo stesso tempo con il vantaggio di una descrizione sistematica e compatta dei fenomeni linguistici, che ne può agevolare l’apprendimento.

All’interno della spinta innovatrice avvertita sul terreno della didattica delle lingue classiche, nel corso del secolo scorso, si è affiancata al metodo tradizionale una maniera didattica diametralmente opposta nell’impostazione, ovvero il cosiddetto “metodo globale”, che premette la lettura del testo alla teorizzazione grammaticale, proponendo modalità abitualmente utilizzate per l’apprendimento delle lingue d’uso57.

Il lessico in questa prospettiva è lo strumento fondamentale per il controllo e per la conoscenza di una lingua, ed è su di esso che va orientato lo sforzo mnemonico del discente.

Il dato fondamentale da tenere presente, tuttavia, è che le lingue antiche, proprio perché non più in uso, mancano della componente essenziale dell’aspetto pragmatico-comunicativo, e ciò comporta che il loro insegnamento-apprendimento abbia un carattere libresco con un inevitabile risvolto di astrazione58.

È dunque evidente la necessità di una mediazione: opzioni metodologiche ponderate possono ridurre l’eccesso di teorizzazione che tradizionalmente ha caratterizzato la didattica, senza derivare in approcci non giustificabili per lingue pragmaticamente

56 Cf. PIAZZI 1993, la cui indagine,limitata al campo del latino, risponde con buone proposte alla

richiesta, da parte del corpo insegnante, di brevità didattica. Alcune delle linee guida della Didattica Breve (d’ora in poi DB) fanno parte delle innovazioni che il modello tradizionale ha adottato per ottimizzare la propria efficacia: frequenzialità, importanza del lessico, individuazione di passepartout che consentano di ordinare il molteplice in poche categorie, rilevazione puntuale di dati di analogia e alterità tra le lingue etc.

57

Tra questi due orientamenti di metodo, che si collocano in opposizione polare, si registrano approcci che mediano le loro posizioni: cf. MONTELEONE 1998, p. 53, che chiama “metodo diretto” il percorso equilibrato che, senza rinunciare alla grammatica, propone da subito la lettura di testi compiuti. Per il metodo globale cf. infra pp. 40-49.

58

(18)

18 concluse: in questa prospettiva la valorizzazione della sintassi, come espressione del “funzionamento” di una lingua, ha certamente un ruolo non trascurabile59.

Proprio la sintassi è l’aspetto della lingua privilegiato da altri orientamenti didattici, che si conformano a modelli elaborati dalla linguistica teorica post-saussuriana, le cui caratteristiche sono state adattate alle specificità delle lingue antiche60. Tali modelli – e dunque tali proposte –adottano un approccio formale alla lingua, valorizzandone una concezione relazionale in cui le categorie grammaticali sono definite e studiate nei loro rapporti reciproci61.

L’obiettivo specifico di questo lavoro è verificare l’efficacia didattica di uno di questi modelli – la grammatica della dipendenza – fornendone un esempio di applicazione al testo.

Va precisato subito che la bibliografia di riferimento concerne in nettissima prevalenza la didattica del latino, con pochi interventi specifici sul greco, fatto che ha necessariamente limitato il supporto teorico dell’indagine.

La grammatica della dipendenza è il modello linguistico che recentemente ha suscitato maggiore interesse, anche per via della potenziale complementarietà con la grammatica tradizionale62. Essa ha la sua matrice nella riflessione grammaticale di Lucien Tesnière, linguista del secolo scorso, insegnante di francese a stranieri e insegnante di lingue slave che ha elaborato negli anni ’50, anche sulla base degli stimoli dell’insegnamento, una teoria di sintassi universale di tipo strutturale63. Il modello è stato poi discusso e modificato per l’applicazione alla didattica delle lingue classiche64, con alcuni correttivi che ovviamente non ne hanno intaccato i fondamenti teorici.

59

Tra gli altri elementi significativi in questa direzione didattica vanno segnalati l’uso precoce del testo d’autore, l’attenzione al lessico e la sottolineatura di fattori grammaticali trasversali alla lingua, tutti elementiche rimandano alle coordinate che caratterizzano la DB.

60 Cf., in toto, PROVERBIO 1979, e specialmente l’Introduzione. 61

Cf. PROVERBIO 1979, p. 12.

62 Cf. infra pp. 37-38.

63 TESNIERE 1959. Sui precursori della grammatica della dipendenza elaborata da Tesnière, e sul

concetto di valenza verbale cf. PROVERBIO 1979, p. 211, nota 14.

64

(19)

19

Linee fondamentali della sintassi strutturale di Tesnière:

la grammatica della dipendenza

Gli Eléments de Syntaxe Structurale di Lucien Tesnière hanno un’impostazione strutturalista, poiché individuano nella frase – e nella lingua tutta – una rigida struttura, organizzata intorno a connessioni determinanti una gerarchia. Parallelamente vanno ascritti anche alle teorie linguistiche che vanno sotto il nome di funzionalismo, poiché si fondano sulla convinzione che ogni elemento della frase ricopre una funzione precisa nell’economia dell’insieme. Ne risulta che “la syntaxe structurale est en même temps la syntaxe fonctionelle, et que, comme telle, elle aura essentiellement à étudier les différentes fonctions nécessaires à la vie de la phrase65”.

La frase è concepita come un sistema strutturato, gerarchicamente ordinato dai meccanismi della sintassi. Ogni frase presenta connessioni che, mettendo in luce i rapporti di dipendenza tra le parole, permettono di evidenziare l’elemento régissant, reggente, e l’elemento subordonné, subordinato. In quest’ottica, cardine della frase, che tutto subordina a sé, è il verbo: la grammatica della dipendenza è pertanto definita anche verbodipendenza66.

È possibile parlare di un ordine strutturale della lingua, che, indicando “l’activité mentale […] inconsciente” che il parlante esercita nel dare forma al proprio pensiero, ne delinea la struttura. A questo si oppone l’ordine lineare, che indica la manifestazione sequenziale del pensiero, la sua mise en phrase: ne consegue che “parler une langue, c’est en transformer l’ordre strutctural en ordre linéaire, e inversement que comprendre une langue, c’est en transformer l’ordre linèaire en ordre structural”.

La sintassi si configura come lo studio dell’ordine strutturale della frase, ovvero dei rapporti di dipendenza tra i suoi elementi. Tesnière distingue a questo proposito tra parole piene – verbo, sostantivo, aggettivo, avverbio – dotate di significato, e parole vuote – articolo, preposizione, congiunzione –, non dotate di significato, “utensili grammaticali” il cui unico compito è di precisare o trasformare le categorie delle parole piene. Soltanto queste ultime hanno la proprietà di dar luogo a rapporti di dipendenza,

65 TESNIERE 1959, p. 39. Le citazioni seguenti in francese di cui non è specificata la fonte derivano dalla

prima parte dell’opera, intitolata La Connexion (pp. 11-313).

66

(20)

20 creando in tal modo, e dominando, un nodo: da un verbo possono dipendere sostantivi e avverbi; da un sostantivo aggettivi; da un aggettivo avverbi; da un avverbio avverbi. Il numero degli elementi subordinati al nodo – esistono dunque nodi verbali, sostantivali, aggettivali e avverbiali – è vario e potenzialmente infinito, mentre di un particolare statuto gode il nodo verbale: qui si incardina il concetto di dipendenza su cui si basa il modello di Tesnière, che parla a proposito del verbo di valenza.

La valenza è la proprietà del verbo di legare a sé un certo numero di elementi, o attanti. Nella lettura tesnièriana ciascun verbo necessita di uno, due, tre o nessun attante per saturare la propria valenza e dare luogo a frasi sintatticamente compiute67: si parla pertanto di verbi avalenti, monovalenti, bivalenti e trivalenti68.

Avalenti = il pleut;

Monovalenti = Alfred tombe; Bivalenti = Alfred frappe Bernard;

Trivalenti = Alfred donne le livre à Charles.

La nozione di attante si applica a tutti i sintagmi nominali69 che, all’interno di una frase, partecipano al processo verbale. Verbo e attanti costituiscono la parte imprescindibile del nodo verbale, che esprime un “dramma in miniatura”, poiché “il comporte obligatoirement un procès, et le plus souvent des acteurs et des circostances. Transposé du plan de la réalité dramatique sur celui de la syntaxe structurale, le procès, les acteurs et les circostances deviennent respectivement le verbe, les actants et les circostants”. I circostanti si presentano come relazioni accessorie, non richieste necessariamente dalla valenza del verbo, legate alle circostanze di tempo, luogo, modo in cui avviene il processo espresso dal verbo. Gli attanti esprimono invece le relazioni necessarie del verbo, e dal punto di vista sintattico corrispondono rispettivamente a soggetto,

67 La compiutezza sintattica dipende da quella semantica: sul rapporto tra le due componenti della frase

cf. infra la teoria dei tratti semantici, pp. 31-34.

68 Risulta chiaro che mentre quello di dipendenza è un concetto esclusivamente qualitativo (da una

categoria può dipendere soltanto un'altra determinata categoria), il concetto di valenza è anche quantitativo, poiché determina rigidamente il numero di elementi che si legano al verbo.

69 “Les actants sont toujours des substantifs ou des équivalents de substantifs”. Così TESNIERE 1959, p.

(21)

21 complemento diretto e complemento indiretto70. Le altre parti della frase che gli attanti possono subordinare sono dette complementi di secondo – o terzo, quarto etc. – livello. Il verbo si trova dunque al vertice della gerarchia delle connessioni, e da esso dipendono tutti gli altri elementi della frase71. Tali connessioni possono essere rappresentate attraverso un grafo ad albero, detto “stemma”, che evidenzia la dipendenza verbale:

rendra

Marie livre vous sûrement demain

votre

Il grassetto evidenzia il verbo e gli elementi necessari al processo verbale: “Marie” è il primo attante72, “livre” il secondo, “vous” il terzo; “votre”, che fa parte del nodo sostantivale, è un complemento di secondo livello (linea tratteggiata); “sûrement” e “demain” sono circostanti (freccia). “Rendra”, che è il verbo, in quanto tale domina gli altri elementi73.

70A proposito delle frasi passive Tesniére parla di “contro-soggetto” o “secondo attante passivo” per

definire quello che la grammatica tradizionale chiama complemento d’agente. Cf. TESNIERE 1959, p. 109.

71 Questa concezione, per cui il verbo è l’elemento dominante, con soggetto e complementi ugualmente

subordinati, è mantentuta anche da Happ (cf. infra pp. 22-25), ma si scontra tra le altre con quella di Martinet (cf. infra pagg. 28-29).

72

Dopo la teorizzazione di Tesnière gli elementi della frase hanno conosciuto definizioni formalmente diverse ma sostanzialmente equivalenti: attanti, argomenti, complementi vincolati o obbligatori; circostanti, espansioni, libere asserzioni etc. Noi opteremo per la suddivisione in complementi

obbligatori, facoltativi e di secondo livello.

73

(22)

22

Il modello Tesnière–Happ

Sostenitore del modello della grammatica della dipendenza come approfondimento della struttura della frase in direzione funzionale, il filologo tedesco Heinz Happ valuta la possibilità di una sua applicazione allo studio del latino74.

Il debito nei confronti della Syntaxe structurale di Tesnière è sostanziale ed esplicito – “la grammatica della dipendenza […]è essenzialmente […] una creazione del linguista francese L. Tesnière75” – ma l’approfondimento a cui è sottoposto questo modello è significativo sotto diversi profili.

Happ individua nel numero limitato degli attanti il principale punto debole del modello di Tesnière, e propone una lettura diversa e più articolata della valenza del verbo. Esso anche qui domina due categorie di elementi (Satzpositionen)76:

complementi (Ergänzungen), vincolati al quadro predicativo del verbo; libere asserzioni (freie Angabe), che indicano circostanze accessorie.

I complementi di Happ corrispondono dunque agli attanti di Tesnière, come le libere asserzioni ai circostanti. Di fatto per distinguere le libere asserzioni dai complementi è indispensabile la semantica, che chiarisce l’accessorietà delle determinazioni, benché Happ teoricamente e intenzionalmente tenga separato questo piano e quello della sintassi.

I complementi sono sette, ma in realtà “a livello logico, oltre al soggetto”, compare “un solo altro argomento per i diversi tipi di complementazione del predicato, che viene indicato con il nome di oggetto”77

C1, soggetto: Vertitur… caelum78 (Virgilio);

C2, oggetto-genitivo: Animus…meminit praeteritorum (Cicerone);

74 HAPP 1979. 75

HAPP 1979, p. 194.

76 Il termine “Satzposition” risulta più esplicito dell’italiano “elemento”, poiché ogni Satzposition può

essere occupata da diversi tipi di impletivi linguistici: cf. infra p. 24.

77

Si veda GARBUGINO 1995, pp. 585-603.

78

(23)

23 • C3, oggetto-dativo: Mundus deo paret et huic oboediunt maria et hominum

vita iussis supremae legis obtemperat (Cicerone); C4, oggetto-accusativo: Rana conspexit bovem (Fedro); C5, oggetto-ablativo: Filium suum vita privavit (Cicerone); C6, oggetto-preposizionale: De illis lacrimis recordor (Cicerone); • C7, circostanziale (o oggetto locale):

o Ennius habitavit in monte Aventino (Svetonio);

o Sextus Roscius ruri semper habitavit (Cicerone)79.

C6 e C7, apparentemente simili, possono essere facilmente distinti: in C6 il verbo determina l’obbligatorietà di una specifica preposizione, a differenza di C7, dove questa varia in base alla specificazione semantica della relazione tra il verbo e l’elemento che regge (puer super/apud/ante/post domum est).

Secondo Happ i complementi – uno o più di uno per volta – possono saturare la valenza di ogni verbo latino, dando così luogo a enunciati sintatticamente compiuti.

Nel modello tesnièriano manca invece un caso come Sextus Roscius ruri semper habitavit.

Le libere asserzioni non sono catalogate in maniera esauriente, benché Happ riconosca la necessità di proporne l’inventario80.

Graficamente, complementi e libere asserzioni vengono collocati da Happ sull’asse sintagmatico, dove vengono indicate le “posizioni di frase” (Satzpositionen), da saturare in accordo alla valenza del verbo.

C1 C2 C3 C4 C5 C6 C7 LA

79

Cf. HAPP 1979, p. 200. Né la numerazione progressiva dei complementi, né la loro denominazione basata sui casi della declinazione hanno valore assoluto. Esse vengono utilizzate in quanto “etichette molto pratiche”, senza voler “privilegiare gli impletivi sostantivali rispetto agli altri tipi di impletivi, né attribuire all’ordine dei casi un significato fisso”: così in HAPP 1979., p. 200.

80

(24)

24 Concetto centrale nell’approfondimento di Happ è che le posizioni possono essere “riempite” da diversi tipi di elementi, o impletivi, e non esclusicamente da un sostantivo. Per esempio nella posizione C4, che individua la funzione di oggetto espresso in accusativo, possono essere utilizzati i seguenti impletivi:

• gruppo nominale; • gruppo pronominale; • infinito;

• accusativo e infinito; • frase secondaria.

L’insieme dei diversi impletivi di una posizione costituisce il paradigma, e la scelta tra questi la scelta paradigmatica. Si configura pertanto un duplice meccanismo di funzionamento della frase81: combinazione sull’asse sintagmatico, selezione sull’asse paradigmatico, che si può rappresentare graficamente così:

C1 C2 C3 C4 C5 C6 C7 LA

asse sintagmatico Modello grafico della frase

scelta paradigmatica

Nell’ottica di questo modello ermeneutico, Happ ritiene che la sintassi della lingua latina, tra l’altro, dovrebbe stabilire:

a) l’inventario dei complementi e delle libere asserzioni; b) le scelte paradigmatiche per ogni posizione82.

81

Cf. IODICE DI MARTINO 1994, p. 654. La distinzione deriva da SAUSSURE 1916.

82 Nel campione esaminato (HAPP 1979, p. 205) le secondarie introdotte da ut o quod sono piuttosto rare

(5 casi soltanto come C1), mentre sostantivi e pronomi compaiono nella stragrande maggioranza dei casi. Sulla base dell’uso linguistico, statisticamente verificato, si può dunque realizzare una scala di priorità nella scelta paradigmatica delle posizioni dei complementi.

(25)

25 Considerando il suo un προτρεπτικὸς λόγος83, Happ lascia ad altri parte di questo compito, per dedicarsi alle combinazioni dei soli complementi, che chiama piani di costruzione.

Spogliando passi scelti delle orazioni di Cicerone, Happ risale ai 22 piani di costruzione più frequenti, “un’accettabile via di mezzo tra il troppo indifferenziato e il troppo complicato”84, selezione che ha l’ambizione didattica di rappresentare i modelli frasali della prosa latina classica. Se ne ricava, per esempio, che oltre un verbo su quattro (28,6%) è di quelli che Tesnière chiama bivalenti, e che tra questi occorrono soltanto due piani di costruzione (CI-C4 e C1-C7), il primo dei quali compare nella stragrande maggioranza dei casi (91,2%), a fronte di una scarsa frequenza del secondo(8,8%). È tuttavia evidente che un simile spoglio, proprio a causa del suo criterio statistico, non permette di superare del tutto il limite contestato al modello Tesnière, non presentando – perché poco frequente – una costruzione (C1-C2) come Animus meminit praeteritorum.

Il modello Tesnière-Sabatini e l’applicazione al latino di Andreoni

Fontecedro.

Si basa sul modello Tesnière-Happ l’impostazione dell’analisi linguistica di Francesco Sabatini85 mirata sull’italiano e successivamente adattata al latino da Emanuela Andreoni Fontecedro86.

Il modello di Happ, abbiamo visto, distingue sette posizioni-funzioni sull’asse sintagmatico, ciascuna delle quali può essere occupata da un diverso elemento linguistico. Lo studioso, superando la sintassi tradizionale, sostiene che bisogna distinguere “nettamente tra la funzione svolta nella frase (posizione) e le diverse unità linguistiche (impletivi) che di volta in volta possono ricoprire tale funzione” e considerare “gli impletivi a partire dalla posizione, e non viceversa”87.

83

HAPP 1979, p. 209.

84HAPP 1979, p.203. L’occorrenza relativa minima è dell’1%. 85 SABATINI 1984.

86

ANDREONI FONTECEDRO 1986; 1988. Cf. anche AGOSTI 2003; 2004; 2009.

87

(26)

26 Se il piano di distinzione è quello della funzione sintattica, e non della morfologia, ci si accorge – sulla scorta di Tesnière e necessariamente superandolo88 – che i complementi obbligatori possono ricoprire tre funzioni, quella di primo, secondo e terzo subordinato dal verbo, a prescindere dal caso o elemento linguistico che li esprime.

Non c’è differenza di funzione sintattica, infatti, a livello di complementi vincolati al verbo, tra genitivo, dativo o accusativo, così come tra sostantivo o proposizione completiva89. Ne consegue che anche la forma del caso è da considerarsi alla stregua di un impletivo, poiché la funzione è determinata dalla posizione di primo, secondo o terzo subordinato del verbo, e non dalla forma linguistica assunta: C2, C3 fino a C7 designano dunque non le posizioni, ma gli impletivi90.

Il riconoscimento di tre sole funzioni espresse dai complementi sta alla base dell’adattamento di Sabatini, dal quale deriva l’applicazione al latino di Andreoni Fontecedro. Ne proponiamo qua, in estrema sintesi, gli aspetti che più interessano il presente lavoro.

Sabatini raccoglie nel complesso la lezione tesnièriana, ampliando l’inclusività del secondo e del terzo attante. Per Tesnière il secondo attante ricopre esclusivamente la funzione di oggetto diretto e il terzo quella di oggetto indiretto. Sabatini invece classifica i verbi in base alla loro valenza nel modo seguente:

Avalenti = impersonali, nessun complemento (es. piove; nevica);

Monovalenti = un solo complemento, soggetto (es. i cani abbaiano; Piero sbadiglia);

Bivalenti = soggetto e altro complemento, diretto o indiretto (Paolo legge un libro; il gatto cammina sul tetto);

88 Il limite del modello Tesnière, come abbiamo visto, è riconoscere come secondo attante esclusivamente

l’oggetto diretto, e come terzo esclusivamente l’oggetto indiretto.

89 Per la funzione dei casi, soprattutto in relazione al diverso ruolo sintattico ricoperto nella frase, si rinvia

al secondo capitolo, dove questa costituirà il soggetto della trattazione.

90 Per quanto vada riconosciuto ad Happ di non privilegiare sugli altri – almeno programmaticamente –

l’impletivo sostantivale dettato dalla marca del caso (cf. supra p. 23, nota 79), è evidente che il suo modello non distingue in maniera soddisfacente la forma dalla funzione: se parliamo di funzione di

oggetto-genitivo o oggetto-dativo, questi non possono essere equiparati, p. es., a una proposizione

completiva, che nulla ha a che vedere con la forma dei due casi, mentre è possibile farlo se parliamo di una generica funzione oggetto.

(27)

27 • Trivalenti = soggetto e altri due complementi (es. Paolo dà un libro a Maria; i

fiumi scendono dai monti al mare)91.

Viene dunque riconosciuto che un verbo bivalente può avere un oggetto diretto o un oggetto indiretto, con la conseguente suddivisione: si diranno intransitivi i verbi avalenti e monovalenti, e transitivi i bivalenti e trivalenti, con la distinzione tra transitivi diretti – che selezionano un oggetto diretto – e transitivi indiretti – che selezionano un oggetto indiretto.

Questo ampliamento riveste un’importanza rilevante nell’adattamento al latino di Andreoni Fontecedro. In latino come in greco un oggetto indiretto – definito tale in quanto in italiano si configura esclusivamente come forma analitico-preposizionale – nella maggior parte dei casi è espresso sinteticamente, attraverso una desinenza. Il modello Tesnière-Sabatini-Fontecedro classifica il complemento che troviamo nella frase Caesar potitus est totius Galliae (per Happ funzione di oggetto-genitivo, C2) come un semplice caso di secondo subordinato del verbo (A2) in cui l’impletivo linguistico si presenta sotto la forma di sostantivo+attributo al genitivo. Analoga la situazione per frasi come dei tibi favent (per Happ funzione di oggetto dativo, C3) o Caesar ad castra pervenit (per Happ funzione di complemento preposizionale, C6)92. A livello di complementi obbligatori del verbo, il modello Sabatini-Fontecedro è più snello ed essenziale di quello di Happ, perché li riduce coerentemente a tre funzioni – soggetto, oggetto diretto e oggetto indiretto, siglate A1, A2 e A3 – mettendo in secondo piano la diversità morfologica.

Per quanto riguarda libere asserzioni e complementi di secondo, terzo livello etc., invece, la differenza non è sostanziale – si parla di “espansioni” e “circostanti del nucleo” – e non arricchisce il modello originale93.

91 Cf. SABATINI 1984, tabella a p. 298. 92 Cf. ANDREONI FONTECEDRO 1986, p. 53. 93 Cf. SABATINI 1984, pp. 377-383.

(28)

28

La teoria sintattica di Martinet

All’interno della linguistica funzionalista94 ha espresso orientamento diverso e più vicino a quello tradizionale la sintassi generale di André Martinet95.

Martinet individua nel nesso di soggetto + predicato, chiamato sintagma predicativo, il nucleo fondamentale della frase, rispetto al quale ogni altro elemento è un’espansione: recupera così la nozione di frase minima proprio della grammatica tradizionale e superata dalla verbodipendenza. Tale impostazione ha suscitato notevoli perplessità, in quanto il concetto martinetiano di espansione induce l’erronea impressione di un’autosufficienza del nesso soggetto + predicato, rispetto al quale i complementi sono considerati su un piano diverso. È stato invece giustamente osservato che “dal punto di vista logico-sintattico non c’è dubbio che i complementi richiesti dal verbo sono indispensabili tanto quanto il soggetto”96.

Martinet riconosce nel linguaggio due articolazioni: la prima isola gli elementi dotati di forma fonica e significato, non scomponibili in unità successive dotate di senso; la seconda riguarda il tessuto sonoro nei suoi singoli elementi diacritici, non dotati di significato ma atti a distinguere una parola da un’altra.

A livello della prima articolazione l’insieme videmus si compone di due parti dal senso distinto, i monemi:

vide fornisce un’informazione semantica comune a una serie di derivati e prende il nome di lessema;

mus indica la desinenza verbale e fornendo un’informazione di tipo morfologico assume il nome di morfema.

A livello di seconda articolazione distinguiamo per esempio la forma v-i-d-e-m-u-s dalla forma v-i-d-e-m-u-r, sulla base dell’opposizione sonora dei fonemi –s– e –r–.

Interessa qui, chiaramente, soprattutto la prima articolazione, che attraverso i morfemi esprime i rapporti logici tra gli elementi della frase e ha dunque una funzione sintattica. 94 Cf. supra p. 19. 95 Cf. MARTINET 1966. 96 GARBUGINO 1995, p. 593.

(29)

29 Martinet attribuisce un’importanza assai rilevante alla morfologia, specialmente alle “marche di senso” costituite dai morfemi: “è abbastanza frequente che i lessemi si annettano dei morfemi che, indicando la loro funzione nell’enunciato, cioè i loro rapporti con gli altri segni, consentono loro di comparire in posizioni diverse senza vere modifiche del senso dell’insieme. Ciò avviene spesso in latino, dove puerum, debitamente caratterizzato come oggetto dal segmento –um, potrà figurare indifferentemente prima o dopo il verbo”97.

È tuttavia chiaro che in questa maniera Martinet risolve la sintassi nella morfologia, con prevedibili difficoltà in quanto non approfondisce semanticamente la struttura della frase98. Non è infatti il solo morfema –um, indicando l’accusativo nelle sue varie funzioni, a caratterizzare come oggetto puerum, ma la compresenza del verbo videt, con il suo significato, e quello del lessema puer–: “avec un autre verb (sémaniquement “se déplacer”) et l’accusatif mille passus […] la fonction” sarà “toute différente”99.

Considerazioni

Il soggetto e l’oggetto

Dopo aver preso in considerazione – seppur in modo molto sintetico – i modelli Tesnière, Tesnière-Happ e Tesnière-Sabatini-Fontecedro, che articolano secondo modalità sensibilmente diverse la grammatica della dipendenza, è opportuno fare alcune considerazioni in relazione alla prospettiva sintattica della grammatica tradizionale. Punto di partenza può essere la constatazione di una certa analogia, poiché entrambe affermano la centralità del verbo e “tendono a mettere ordine nella frase, a costruirla”100, seppure con significative differenze. Sostanzialmente diverse risultano, invece, le conseguenze che derivano nella valutazione del soggetto e dei complementi. Nella grammatica tradizionale – che si basa sull’analisi logica – il soggetto ha un’importanza determinante e un ruolo privilegiato: è fattore indispensabile per completare il significato del verbo, con il quale costituisce la cosiddetta frase minima, un insieme non scomponibile sintatticamente considerato nucleo di base di ogni

97 MARTINET 1966, p. 25. 98

Cf. GARBUGINO 1995, p. 592.

99 MONTELEONE 1998, p. 69. Cf. anche BALBO 2007, p. 67: “la sintassi martinetiana riproduce le

linee metodologiche della sintassi tradizionale e non rende ragione in modo sufficiente dei valori sintattici diversi di parole formate da monemi identici”.

100

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