I.
L’imperfezione antropologica e la passione sociale
1. La consapevolezza di un io debole e lo sviluppo del desiderio mimetico A cavallo fra il XVII e il XVIII secolo vengono elaborate diverse soluzioni al problema della condizione umana; indubbiamente, fra esse, quella fornita da Rousseau è una delle più lucide e penetranti. Nell’indagine sull’uomo e le sue passioni il filosofo ginevrino formula un pensiero dai tratti marcati che sa scorgere le premesse lontane e le conseguenze di ogni sua implicazione. L’uomo moderno era già stato “smascherato” da Montaigne nella sua debolezza intrinseca: emerge infatti nei Saggi l’immagine di un Io debole, conscio sì delle proprie possibilità, ma anche consapevole della propria imper-fezione1. Smentire la presunta autonomia e autosufficienza della razionalità dell’uomo significa allora rivalutare il ruolo che l’altro gioca nella formazione di ogni individuo: una riflessione che si rivela, ancora oggi, di grande attualità e valore. Proprio da Mon-taigne, passando per filosofi quali Rousseau e Adam Smith, nasce quel dibattito odierno dedicato al tema dell’Altro, visto quale donatore di senso della nostra esistenza di esseri carenti. Siamo ormai di fronte ad una razionalità diversa, nata anche grazie a Rousseau, che ha fiducia nella risposta dell’altro e nella reciprocità. L’Altro non più come nemico o mio simile, ma come vera e propria parte mancante dell’Io, che si trova così ad essere continuamente messo in discussione, chiamato alla responsabilità da una figura altra ri-spetto a sé.
Ogni illusione di un percorso separato e soggettivo compiuto solamente dall’Io cade già con Thomas Hobbes, il quale comprende facilmente come l’uomo non possa più credere di essere un osservatore distaccato del mondo, tutto intento a perfezionare se stesso. Per Hobbes l’essere umano è un essere desiderante e acquisitivo che finirà inevi-tabilmente per scontrarsi con i suoi simili nella ricerca continua di potere. La passione
1 Cfr. l’interpretazione di E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del
dell’utile domina dunque l’uomo e lo conduce al perseguimento incessante di beni ma-teriali per colmare la propria intrinseca insufficienza. L’uomo non è un solitario osser-vatore del mondo circostante, ma è calato direttamente nella realtà e sperimenta la sua naturale tendenza all’aggressività, spinto dal desiderio della gloria e dell’utile: preoccu-pato della propria conservazione, cerca in tutti i modi di garantirsi l’accesso ai beni di cui ha bisogno. Per Hobbes l’altro entra in gioco solo quale potenziale nemico; sarà al-lora la paura a spingere gli uomini a stipulare un contratto per uscire dallo stato di guer-ra di tutti contro tutti, in vista della gaguer-ranzia di ordine e protezione fornita dalla sfeguer-ra politica a cui tutti decidono di sottoporsi. La paura primitiva, comune anche agli altri animali, nell’uomo di Hobbes viene sublimata in una passione razionale che rappresenta la causa prima di ogni calcolo di reciprocità. E precisamente si tratta della paura della morte: massimo dei mali naturali, cui l’uomo cerca incessantemente di fuggire. La mor-te fonda così il pomor-tere sovrano poiché riesce a manmor-tenere gli uomini nell’insicurezza, as-sicurando stabilità e durata del regime politico.
Quella hobbesiana è sicuramente una prospettiva ben diversa da quella di Rousseau sui sentimenti naturali dell’uomo, ma si rivela preziosa per comprendere co-me il pensiero filosofico del ‘700 abbia iniziato a raffigurarsi l’altro e a sperico-mentare le forme in cui questa figura influisce nella vita quotidiana e politica. Anche Mandeville coglie l’aspirazione ad avere sempre di più, quel desiderio acquisitivo così feroce che accentua i vizi e le passioni umane, ma che assume per lui una sfumatura diversa, sem-pre più vicina a quella che sarà di Rousseau, che del resto conosceva bene l’autore olan-dese. L’istinto di conservazione (self-love) e la preferenza per sé che ognuno richiede (self-liking) assomigliano molto all’amour-de-soi e all’amour-propre: per Mandeville essi sono determinanti per la socialità e il progresso stesso della collettività. Tramite il sentimento di self-liking ogni individuo avverte quell’impulso vitale che lo porta a co-municare con l’altro per mostrare la propria superiorità. L’individuo di Mandeville si
muove esclusivamente all’interno di una logica dell’orgoglio quale mero desiderio di essere approvato per ciò che possiede. Ecco allora che sentimenti negativi come la cieca ambizione e l’avidità mettono in moto la passione acquisitiva al fine di ottenere una ric-chezza personale. Il desiderio di stima induce inoltre a mascherare i propri difetti, mo-strando solo la parte di sé che potrà essere approvata e ammirata dagli altri: così Man-deville crea una società disciplinata le cui fondamenta sono però i vizi dell’uomo. Il de-siderio di essere riconosciuti non porta dunque un miglioramento individuale, ma solo un progresso sociale; comincia così a configurarsi una valutazione positiva del ruolo dell’Altro, che non approda però ancora alla soluzione di Adam Smith, che vedrà il de-siderio di migliorarsi perfettamente espresso nel dede-siderio di essere ammirati.
Rousseau si inserisce in questo filone di pensatori che tentano di riportare alla luce la fondamentale tensione verso l’altro, insita in ognuno di noi. La sua peculiarità, fra i tanti punti di vista brevemente esaminati, è quella di operare, in modo disincantato, all’interno della morale per mostrare all’uomo una via da percorrere al fine di non cade-re nel mondo dell’appacade-renza e diventacade-re cade-realmente persone degne di riconoscimento. Rousseau analizza in modo approfondito i sentimenti e introduce nella ricerca dei prin-cipi generali della morale la prospettiva di sentimenti particolari, ovvero quelli di ap-provazione e disapap-provazione che suscitiamo in chi ci osserva quando agiamo. Il filoso-fo ginevrino si rende conto che le azioni di ogni uomo sono condizionate da qualcosa che si situa al di fuori del suo essere e sposta così il punto di vista, finora adottato in morale, dalla parte di chi agisce a quella di chi osserva. Questo punto di partenza avvi-cina Rousseau al succitato Adam Smith, che, seppur giungendo a conclusioni diverse, parte dalla comune convinzione che i principi di approvazione e disapprovazione mora-le vadano ricercati fra i sentimenti e mora-le passioni degli uomini e non nella componente in-tellettuale della natura umana. La riflessione di Smith all’interno della Teoria dei
la teoria del filosofo scozzese si configura come una reale alternativa all’egoismo e al razionalismo (stessa direzione rintracciabile nelle opere del filosofo ginevrino). Innanzi-tutto per Smith la ricostruzione del riconoscimento morale si basa esclusivamente sul meccanismo della simpatia. Essa è il solo principio in grado di ricondurre ad unità la genesi dei differenti tipi di giudizi morali. La simpatia si configura come un processo immaginativo che ci permette di esaminare una situazione complessivamente considera-ta sulla base dell’approvazione o meno che potremmo provare. Il coinvolgimento sim-patetico ci proietta direttamente nell’approvazione o nella disapprovazione, non limi-tandosi a ravvivare un’emozione già sentita da un altro, ma piuttosto spingendoci a de-cidere se ci sentiamo o meno di condividerla rispetto alle cause che l’hanno generata. Grazie alla simpatia l’uomo è in grado di discriminare, tra i sentimenti e le passioni al-trui, quelli da accettare e quelli da rifiutare. Inoltre, può anche valutare la propria con-dotta basandosi sulla presenza di uno spettatore imparziale e ben informato, sia pure so-lo immaginario. Questo spettatore esterno è rappresentato come un uomo prodotto della nostra immaginazione: l’accordo fra le nostre emozioni e quelle di quest’ultimo ci con-sente di essere sicuri di operare in modo giusto, trasmettendoci il particolare piacere del-la simpatia; al contrario, il disaccordo con lo spettatore genera sentimenti sgradevoli propri di chi, a livello morale, sta compiendo uno sbaglio. La forza motivazionale della morale è dunque tutta racchiusa in questi sentimenti di piacere e dolore che ci spingono a ricercare l’approvazione altrui. La valutazione che operiamo sull’altro per essere effet-tivamente morale richiede dunque il rinvio ai sentimenti di approvazione e disapprova-zione di uno spettatore imparziale e ben informato. In ogni reladisapprova-zione simpatetica dob-biamo includere l’intervento di uno spettatore immaginario, in grado di far valere le esi-genze di una completa ricerca delle informazioni e di una prospettiva imparziale, non coincidente necessariamente con gli interessi e le pretese nostre o della persona con cui si simpatizza.
Provare simpatia per qualcuno significa dunque provare piacere nel percepire che condividiamo la risposta emotiva che l’altro dà alla situazione. La simpatia si rea-lizza così non solo quando conosciamo le emozioni altrui e riusciamo in qualche modo a partecipare ad esse, ma sentiamo anche, approvandole, di poter convergere su di esse. Come nota legittimamente Eugenio Lecaldano: «In Smith approvare moralmente una condotta significa simpatizzare con essa, ritenendola una risposta adeguata alla situa-zione, e ciò non solo è necessario, ma è sufficiente per rendere conto della genealogia della nostra vita morale»2. L’approccio che Adam Smith elabora verso la morale si svi-luppa, così come per Rousseau, attraverso l’altro, quale soggetto determinante nel rico-noscimento dei nostri sentimenti.
«Nella ricostruzione che ne offre Smith, la simpatia si presenta come una condizione psicologica sempre accompagnata da piacere, ma anche con un poten-ziale ricostruttivo e proiettivo molto più forte di quello che le attribuiva Hume quando si riferiva a quella simpatia più estesa, riflessa e resa possibile dall’uso dell’immaginazione. L’affermazione della gradevolezza e dell’ampio potere della simpatia da parte di Smith va sottolineata perché proprio grazie al loro riconosci-mento la sua teoria riusciva a guadagnare capacità analitiche rispetto al ruolo ge-nealogico della simpatia nella vita interiore.»3
Lo spettatore esterno rappresenta un vincolo, o quantomeno un controllo, interno alla condotta di ogni essere umano. La simpatia nasce dalla vista della situazione che suscita una passione, non direttamente da quest’ultima: ha origine interamente nella nostra im-maginazione, nella considerazione di ciò che proveremmo in una data situazione, sosti-tuendoci ad un altro che stiamo osservando, il quale spesso non si accorge affatto della
2 E. Lecaldano, Simpatia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013, p.53. 3 Ivi, p. 53.
sua condizione4. La ricostruzione immaginativa che si attiva in questi casi è così forte da permetterci di simpatizzare perfino con i defunti: la nostra fantasia attribuisce una te-tra malinconia alla loro condizione nella quale riusciamo a porci, rappresentandoci quali sarebbero le nostre emozioni in una tale situazione5. Non valgono dunque i vincoli em-pirici di contiguità spazio-temporale quando proiettiamo sugli altri le passioni e i senti-menti che sarebbero accettati dallo spettatore imparziale: possiamo allora immaginare quello che sentono persone nel corso di esperienze assolutamente fuori dalle nostre abi-tudini quotidiane.
Uno spettatore che si trova di fronte a una passione o condotta altrui entra nel-lo stato complesso della simpatia articolato in tre passaggi principali: innanzitutto entra in gioco la capacità di ricostruire la passione o condotta dell’altro: spiacevole se include sofferenza, piacevole se comporta gioia; successivamente si passa all’approvazione o disapprovazione della passione o condotta: stadio che risulterà gradevole nel primo caso e sgradevole nel secondo; infine si andrà a esaminare la concordanza o meno con la per-sona stessa oggetto della nostra simpatia, se le nostre approvazioni concordano prove-remo piacere simpatetico, altrimenti, se discordano, dispiacere. «[…] nel sentimento di approvazione esistono due cose da considerare: primo, la passione simpatetica dello spettatore; secondo, l’emozione che deriva dal suo osservare la perfetta coincidenza tra questa passione simpatetica in lui e la passione originaria nella persona principalmente interessata. Quest’ultima emozione, nella quale propriamente consiste il sentimento di approvazione, è sempre gradevole e dilettevole. L’altra può essere gradevole o sgrade-vole, a seconda della natura della passione originaria, le cui caratteristiche essa deve
4 «Proviamo a volte, al posto di un altro, una passione della quale lui stesso sembra del tutto incapace,
perché, quando ci mettiamo nei suoi panni, quella passione sorge in noi dall’immaginazione, nonostante non sorga in lui dalla realtà.» (A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, introduzione e note di Eugenio Lecaldano, trad. it. Stefania Di Pietro, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1995, p. 86).
5 «L’idea di quella tetra e infinita malinconia che la fantasia istintivamente attribuisce alla loro condizione
sorge certamente dal fatto che noi colleghiamo al mutamento che si è prodotto in loro la nostra coscienza di quel mutamento, dal fatto che ci mettiamo nella loro situazione, che poniamo, se mi si concede l’espressione, le nostre anime vive nei loro corpi inanimati, e quindi dal fatto che ci rappresentiamo quali sarebbero le nostre emozioni in una tale situazione.» (Ivi, p. 87-88).
sempre, in qualche misura, conservare»6. Osservare negli altri uomini una partecipazio-ne alle nostre emozioni ci riempie, secondo Smith, di una grande felicità, mentre la si-tuazione opposta provoca in noi la più insopportabile infelicità. Smith smentisce inoltre la presenza di qualsiasi motivazione egoistica all’origine di questi sentimenti di piacere e dolore: essi sono talmente immediati che non possono derivare in nessun modo da un calcolo di amicizia o inimicizia. Lo scambio immaginario di situazione attuato dalla simpatia mi proietta nell’altro, mi permette di trasferirmi nella persona con cui simpa-tizzo: considero quello che proverei se fossi davvero l’altro, non cambio solo le circo-stanze esteriori, ma anche il carattere e la persona7.
Così la simpatia aumenta la gioia, rappresentandone un’altra fonte, e allevia la pena, facendoci provare una sensazione piacevole, l’unica che in quel momento siamo in grado di sperimentare. In questo modo Smith spiega perché ogni persona infelice possa trovare grande sollievo nel raccontare la propria pena a un amico: come se quest’ultimo si facesse carico di una parte della sua sofferenza. Chi resta indifferente di fronte alla gioia dell’amico manca semplicemente di gentilezza, mentre chi non dà im-portanza a una sua sventura mostra segni di vera e propria inumanità. La consolazione della simpatia si rende necessaria soprattutto nei casi di dolore, mentre le piacevoli pas-sioni di amore e felicità non hanno bisogno del concorso di altri piaceri. Ma la simpatia non è piacevole solo per chi la riceve, anche il soggetto che la prova trae piacere da que-sto sentimento. Infatti, proviamo gioia ogni volta che riusciamo a condividere qualcosa con un’altra persona, a simpatizzare con lei, mentre non provare simpatia per chi soffre o per chi gioisce provoca in noi malumore. In un caso parliamo di debolezza o
6 Ivi, p.143, nota 15.
7 «[…] Quando mi dolgo insieme a te per la perdita del tuo unico figlio, per prendere parte alla tua pena
non considero quel che io, una persona di tale carattere e tale professione, soffrirei se avessi un figlio, e se questo figlio dovesse sventuratamente morire, ma considero quel che soffrirei se fossi davvero te, e non solo cambio con te le mie circostanze esteriori, ma anche la persona e il carattere. La mia pena, perciò, è del tutto per te, e niente affatto per me stesso: perciò non è affatto egoistica. Come può essere considerata egoistica quella passione che non deriva nemmeno dall’immaginare qualcosa che è capitato a me, o che è in rapporto con me, nella mia persona e nel mio carattere, ma che è del tutto riservato a ciò che è in rapporto con te?». (Ivi, pp. 597-598).
nimità nei confronti di chi si lamenta più di quanto potremmo fare noi nella stessa situa-zione, nell’altro di follia o leggerezza verso chi è troppo felice per qualcosa che ritenia-mo di scarso valore.
La simpatia gioca poi un ruolo fondamentale anche in ciò che è definito comu-nemente come approvazione di un’opinione: la condivisione di un sentimento è alla ba-se del procedimento grazie al quale riusciamo a concordare con qualcuno su un certo giudizio. La simpatia agisce in questi casi come un correttivo delle nostre emozioni: se non riusciamo immediatamente a immedesimarci nella sofferenza o gioia dell’altro, scatta un meccanismo che ci permette di comprendere che quelle sono le stesse emozio-ni che proveremmo comunemente nella medesima situazione. L’esperienza e questo ti-po di simpatia condizionale ci insegnano allora ad essere appropriati in ogni occasione. Smith, a differenza dei suoi contemporanei, sposta poi l’attenzione al problema delle cause dei sentimenti8; il motivo che suscita un certo tipo di affezione del cuore è determinante per chi si trova a giudicare poiché permette di valutare l’appropriatezza o meno dell’azione conseguente. Il fine a cui tende un sentimento o l’effetto che produce sono due parametri completamente diversi di giudizio e ci permettono solo di stabilire se una determinata azione merita ricompensa o punizione. Se l’affezione punta a rag-giungere un effetto di natura benefica, allora possiede un merito, se invece mira a un ef-fetto dannoso, ne deriverà un demerito. Ricompensa e punizione si attribuiscono così esclusivamente sulle qualità degli effetti a cui il sentimento condurrà. Ma nella vita co-mune, quando ci troviamo a giudicare la condotta di un altro, consideriamo anche un al-tro aspetto: non ci limitiamo a valutare i disasal-trosi o benefici effetti che egli ha prodotto, ma anche la futile o importante occasione che li ha scaturiti. Smith riesce così a cogliere l’importanza del paragone che instauriamo continuamente con l’altro, dello sguardo che
8 Cfr. interpretazione fornita da E. Lecaldano nella sua Introduzione ad A. Smith, Teoria dei sentimenti
posiamo su di lui per poi farlo ritornare in noi stessi e solo allora manifestarlo in una de-liberazione morale.
Quando ci troviamo a giudicare in base alle cause l’unico parametro di cui pos-siamo fare uso è il paragone con noi stessi9: quel movente avrebbe suscitato in noi la stessa reazione? Se la risposta è sì, allora approviamo quel sentimento perché propor-zionato e adatto; in caso contrario lo disapproviamo come stravagante e fuori misura.
Esprimiamo un giudizio morale di questo tipo in due casi: quando gli oggetti che suscitano il sentimento osservato non hanno nessuna particolare relazione con noi stessi o con la persona che stiamo giudicando; oppure quando questi oggetti sono considerati proprio nel loro provocare affezioni in noi o nell’altra persona. Nel primo caso, se c’è corrispondenza di sentimenti fra l’osservatore e chi prova effettivamente quella certa af-fezione, parliamo di buon gusto o giudizio. Sono questi i casi in cui ammiriamo la bel-lezza estetica del paesaggio o di un ritratto, la struttura di un discorso o la condotta di un terzo soggetto. Qui non si ricrea l’occasione che dà vita alla simpatia, l’immaginazione non entra in gioco perché si tratta di giudizi ovvi e semplici su cui al massimo si può di-scostare l’uno dall’altro sulla base di un diverso grado di attenzione riposto nell’osservazione dell’oggetto, o dal diverso sviluppo naturale delle facoltà mentali cui quegli oggetti sono indirizzati. Possiamo però ritenere degno di elogio, nei suddetti casi, chi riesce a farci ammirare un aspetto che non avevamo considerato del paesaggio o del ritratto, chi sa guidarci in questa direzione suscita la nostra meraviglia per la sua acutez-za di spirito e il tempo impiegato nello studio di particolari da noi trascurati. Gli esempi più immediati sono quello del matematico esperto che sa districarsi con precisione nelle operazioni più difficili o dell’uomo di gusto che sa distinguere le più impercettibili dif-ferenze di bellezza: sono le virtù intellettuali che oltre all’approvazione, suscitano
9 «Ogni facoltà in un uomo è il metro per giudicare la stessa facoltà in un altro uomo. Giudico la tua vista
attraverso la mia vista, il tuo udito attraverso il mio udito, la tua ragione attraverso la mia ragione, il tuo risentimento attraverso il mio risentimento, il tuo amore attraverso il mio amore. Non ho, né posso avere, alcun altro modo per giudicarle.» (Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, op. cit., p. 98).
raviglia e dunque ammirazione. Altra grande intuizione di Smith, derivante direttamente dall’analisi della lode concessa alle virtù intellettuali, è il criterio di approvazione origi-nale che si fonda non tanto sull’utilità di un certo giudizio, quanto sul suo accordo con la realtà e la verità, subordinato ovviamente al nostro punto di vista. Ciò che primaria-mente indirizza la nostra approvazione su una valutazione è dunque il suo essere giusta, l’essere perfettamente adatta all’oggetto a cui si riferisce.
Per quegli oggetti che invece ci colpiscono in prima persona o riguardano più da vicino il soggetto che stiamo giudicando, la corrispondenza di affezioni è più difficile da mantenere e, allo stesso tempo, più importante. In questi casi i due soggetti non osser-vano mai dalla stessa posizione, così come potrebbero fare di fronte a un quadro o a una poesia, nel giudicare i quali possono esserci diverse opinioni, ma non diverse affezio-ni10. Quindi se lo spettatore non riesce a provare lo stesso grado di partecipazione che sente la persona interessata, essi diventano intolleranti l’uno verso l’altro perché diso-rientati: il primo dalla passione o violenza, il secondo dall’insensibilità. Lo spettatore dovrà allora cercare di mettersi nei panni dell’altro e ricondurre a sé anche il minimo di-sagio provato da chi soffre e sforzarsi di rendere il più perfetto possibile l’immaginario scambio di situazioni. Nonostante lo sforzo attuato tramite la simpatia, non si riuscirà mai a rendere esattamente identiche le affezioni dei due soggetti. L’immaginazione del-lo spettatore del-lo porta a immedesimarsi nell’altro per un momento, poi prevale la consa-pevolezza della propria incolumità che impedisce di sentire lo stesso grado di intensità di chi è coinvolto in prima persona. Quest’ultimo è a conoscenza di questo impedimento e allo stesso tempo desidera trovare la totale simpatia con l’altro. L’unica consolazione per chi soffre sarebbe proprio quella di vedere le sue stesse emozioni nel volto di un al-tro, fine a cui può tendere soltanto livellando la propria passione e attenuandola fino al
10 «Nonostante i tuoi giudizi su questioni speculative e i tuoi sentimenti su questioni di gusto siano del
tutto opposti ai miei, posso facilmente passar sopra a questa opposizione e, se possiedo un certo grado di equilibrio, posso persino trovare un certo piacere nel conversare con te proprio su questi argomenti.» (Ivi, pp. 101-102).
punto in cui anche chi non è coinvolto potrà comprenderla. La compassione non sarà mai uguale al dolore naturale (dato che lo scambio che avviene è soltanto immaginario fra i due soggetti), ma si può aspirare a un’armonia nella corrispondenza reciproca dell’essere concordi, anche se non unisoni.
Per riprodurre questa concordia, sottolinea Smith, entra in gioco la simpatia sia dello spettatore che della persona osservata, la quale immagina continuamente come può essere vista dall’esterno con altri occhi, pensiero che la porta a ridurre l’intensità di quanto provava prima di giungere al loro cospetto. Ecco perché il sollievo offerto da un amico è così importante, l’animo si calma di fronte alla presenza di un altro che ci giu-dica e il cui giudizio noi cominciamo a immaginare ancor prima che egli possa espri-merlo. La società diventa allora nel testo di Smith uno dei rimedi più potenti per riporta-re tranquillità ed equilibrio nella mente dell’uomo: posizione che si avvicina molto a quella sostenuta da Rousseau. L’uomo solitario soffrirà irrimediabilmente per la man-canza di equilibrio che solo la presenza dell’altro dona all’uomo.
2. Trasformazione di sé e accesso alla dimensione morale: Adam Smith e Jean-Jacques Rousseau a confronto
Assistiamo così, nella filosofia morale di Smith, a una regolazione tutta interna delle passioni che non rende necessario l’intervento di un patto razionale o di un’istanza politica repressiva per riportare pace e serenità nella società. Basterà immaginarsi di fronte allo spettatore imparziale per attivare il desiderio mimetico, ovvero il desiderio che egli possa immedesimarsi nei principi della mia condotta e dunque approvarla. Que-sto mi porterà a ridurre a un grado ragionevole l’intensità della mia rabbia o della mia gioia poiché sentirò l’orrore per l’eventuale disapprovazione a cui potrei andare in con-tro se preferissi me stesso. Un’ulteriore aggiunta di Smith permette di non scadere nel banale conformismo che vede tutte le volontà appiattite e prive di una reale
trasforma-zione morale: simpatizzare con ciò che approverebbe uno spettatore immaginario im-parziale permette di cogliere la sostanziale differenza fra la ricerca del consenso o della lode delle persone che ci circondano, spinta solo dalla vanità dell’amor di sé, e la ricerca dell’essere degni di lode. L’uomo vuole essere stimato e degno di tale stima, non dissi-mulando i propri vizi, come abbiamo visto con Mandeville, ma ricercando la virtù. La vera qualità sarà allora la prudenza coincidente con un amore di sé corretto dal meccani-smo della simpatia. L’uomo prudente prende coscienza delle proprie abilità e competen-ze e desidera migliorarsi, spinta che lo porta anche alla rinuncia di beni e piaceri presen-ti in vista del futuro. Egli sa regolare il proprio interesse sulla base di quello dello spet-tatore imparziale e simpatizzare con ciò che è degno di lode può portarlo a ritenere ap-propriata anche una condotta che non trova successo tra i suoi concittadini: essere in ac-cordo con la coscienza e con l’immaginato uomo interno possono anche aiutarlo ad agi-re controcoragi-rente. Questo rinvio immaginario allo spettatoagi-re imparziale lascia dunque lo spazio per una riflessione critica e razionale sulle azioni da noi compiute. Smith distin-gue così il carattere proprio dell’egoista, interessato solo a ciò che lo riguarda e incapa-ce di una qualsiasi uniformità con le regole generali, da quello dell’altruista, preoccupa-to della preservazione del mondo e dell’obbedienza alle regole sociali, ma comunque indirizzato all’azione dai propri interessi, e spinto anche dall’ambizione. Il sistema etico di Smith, così come poi quello di Rousseau, ricostruisce un contesto in cui l’appello ai propri sentimenti non è decisivo e finale poiché trovano spazio anche differenti opinioni da mettere a confronto con le reazioni universali di un immaginario spettatore imparzia-le.
Il comportamento virtuoso voluto da Smith non si appiattisce sulla mera appa-renza di una condizione media di vita, uniformata alle virtù sociali di giustizia, rispetto e lealtà e mostra invece la necessità di stabilità e continuità. L’ideale di medietà proposto da Smith si struttura sul dovere dell’auto-controllo, fatto di fatica e rinuncia. Forse il
fi-losofo scozzese incorre in questo modo nel rischio di una chiusura là dove la forza mo-tivazionale della simpatia sembra derivare unicamente dal piacere personale che pro-viamo nel convergere con le emozioni di un soggetto autorevole, quale lo spettatore im-parziale, senza lasciare spazio al piacere che possiamo ricavare dal dare sollievo all’altra persona o al contribuire alla sua felicità. Smith sembra spingere verso un ri-chiamo a esperienze già acquisite quando imposta la simpatia sul rinvio allo spettatore imparziale: processo che impedisce di valutare in modo creativo ogni singolo caso che ci si presenta di fronte. L’esigenza di stabilità a cui risponde la figura dello spettatore imparziale non tiene conto che in morale ciò che incide sono le motivazioni delle azioni e le conseguenti emozioni che producono sulle persone coinvolte. La prospettiva di Smith privilegia la condivisione e la convergenza dei sentimenti morali verso un unico spettatore, sancite dal piacere simpatetico che le accompagna, correndo però il rischio di arrivare a considerare la diversità e la differenza come qualcosa di negativo.
Smith nella Teoria dei sentimenti morali riesce tuttavia a mettere in evidenza l’innovativa (e utile nello studio di Rousseau) distinzione fra la motivazione della vanità che cerca in tutti i modi l’approvazione pubblica, e la motivazione in gioco nella morale che spinge non tanto a cercare all’esterno la lode altrui, ma più efficacemente ad essere degno della lode attribuita da uno spettatore immaginario interno. La simpatia quale processo riflessivo viene chiamata in causa per rendere conto della forza normativa del-le nostre prese di posizione etiche che riguardano non solo del-le condotte altruistiche, ma anche le esigenze della giustizia. La nostra approvazione morale delle condotte virtuose ricava la sua autorevolezza da quella dello spettatore imparziale e ben informato. Smith delinea così un territorio proprio dell’etica che esclude quelle condotte mosse dalla ri-cerca vanitosa di un’approvazione pubblica o dalla motivazione tesa a ottenere il con-senso uniformandosi ai valori sottoscritti nella società.
L’accesso alla dimensione morale attraverso un difficile percorso di conoscen-za di sé e cambiamento reale è espresso anche da Rousseau nella critica alla società svolta proprio in nome di una tensione etica contrastante l’omologazione. L’appiattimento in un modello virtuale conduce alla rinuncia del proprio sé, denuncia il filosofo ginevrino, avvicinandosi così alle posizioni di Smith. Una profonda frattura fra ciò che si è e ciò che si appare è all’origine del processo di mascheramento istituito dal-la società madal-lata in cui Rousseau si ritrova a vivere suo malgrado. Chiediamo conti-nuamente agli altri cosa siamo e non interroghiamo mai noi stessi: questo ci conduce al-la creazione di un’immagine falsa di noi. Presa coscienza di questo meccanismo di falsi-ficazione, possiamo andare alla ricerca del nostro vero io: un percorso che ci permetterà di accedere alla dimensione morale e alla vera felicità.
Se per entrambi i filosofi si configura come necessario un reale cambiamento interiore, con la conseguente condanna dell’apparenza della virtù, esso tuttavia non conduce all’acquisizione delle stesse facoltà, considerate dono specifico dell’uomo. Per Smith abbiamo visto quanto sia determinante il ruolo giocato dalla simpatia nella rela-zione con l’altro e nell’essenza dell’essere morale. Per Rousseau l’immedesimarela-zione, la concordanza con i sentimenti dell’altro rappresentano un’inclinazione istintiva dell’uomo, che però si configura in lui come pitié ed è rivolta indistintamente a tutti gli individui. Nella Prefazione al Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza
tra gli uomini Rousseau sostiene che nell’anima umana si trovano «due princìpi
anterio-ri alla ragione, dei quali, uno ci rende profondamente interessati al nostro benessere e alla conservazione di noi stessi, e l’altro c’ispira un’istintiva ripugnanza a veder morire o soffrire ogni essere sensibile, e soprattutto i nostri simili»11. Dall’unione e combina-zione che il nostro spirito fa di questi due principi scaturiscono tutte le regole del diritto naturale, senza dover ricorrere al concorso della sociabilità. Infatti, finché l’uomo non
11 J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, a cura di
opporrà resistenza all’impulso interiore alla pietà, non farà mai del male ad un altro uo-mo o ad altri esseri sensibili, se non nel caso estreuo-mo in cui sia in pericolo la sua stessa conservazione (caso in cui preferirà se stesso). L’impulso alla compassione estende così il diritto naturale anche agli animali, esseri che partecipano alla medesima natura dell’uomo in quanto dotati di sensibilità, nei cui riguardi si ha lo stesso obbligo che coinvolge i nostri simili: “Mi sembra infatti di aver l’obbligo di non far del male ai miei simili non tanto perché sono ragionevoli, quanto perché sono sensibili; e questa qualità, che la bestia e l’uomo hanno in comune, deve dare alla prima almeno il diritto di non essere inutilmente maltrattata dal secondo”12. Nell’esaminare criticamente lo stato di na-tura ricostruito da Hobbes13, Rousseau sottolinea l’importanza di questo istinto alla pietà nella natura umana, capace di attenuare in alcune circostanze la ferocia dell’istinto di conservazione, e successivamente dell’amor-proprio, moderando l’ardore per il proprio benessere con un’innata ripugnanza a veder soffrire un proprio simile. Istinto universale e anteriore ad ogni riflessione, la pietà assurge al titolo di sola virtù naturale il cui valore è stato riconosciuto perfino da Mandeville, citato da Rousseau come il più oltranzista dei detrattori delle virtù umane. Nella Favola delle api infatti Mandeville è costretto a considerare l’uomo quale essere compassionevole citando l’esempio di un uomo che, vedendo una bestia feroce sbranare un bambino, non può non provare orrore, nonostante la vicenda non presenti per lui nessun interesse personale. Rousseau ammette che Man-deville ha compreso come gli uomini non sarebbero stati altro che dei mostri se la natu-ra non avesse donato loro la pietà in soccorso della natu-ragione; tuttavia egli non avrebbe capito che da questa sola qualità derivano tutte le virtù sociali che vuole contestare agli uomini. «Infatti, che cos’è la generosità, la clemenza, l’umanità, se non la pietà indiriz-zata ai deboli, ai colpevoli, o alla specie umana in generale? Perfino la benevolenza e
12 Ivi, p. 91. 13
Sul rapporto fondamentale di Rousseau con Hobbes si vedano: M. Reale, Le ragioni della politica. J.-J.
Rousseau dal “Discorso sull’ineguaglianza” al “Contratto”, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983; R.
l’amicizia sono, a pensarci bene, conseguenze di una pietà continua, legata a un oggetto particolare: poiché desiderare che qualcuno non soffra che altro è se non desiderare che egli sia felice?»14. L’uomo dello stato di natura, privo di ragione, si abbandona conti-nuamente alla compassione, che si configura come il primo sentimento dell’umanità in grado di mitigare l’amor di sé in vista di una collaborazione reciproca dell’intera specie. Nello stato di natura la pietà sta al posto della legge e dei costumi, riuscendo a farsi ob-bedire con il suono dolce della sua voce e ispirando quella bontà naturale che consiste nel fare il proprio bene con il minor danno possibile per gli altri. Indipendentemente dai principi morali e dall’educazione ricevuta è in questo sentimento che va ricercata l’originale ripugnanza dell’uomo a fare il male, motivazione più forte di qualsiasi ragio-namento. Un freno del genere permette all’uomo selvaggio di vivere in armonia poiché, impegnato nel proteggere se stesso, più che nel procurare danno all’altro, non incorrerà in contese pericolose. E anche nel caso in cui ricevesse qualche violenza dai suoi simili non la considererà come un’offesa da vendicare o un motivo di scontro sanguinoso. La pietà si è purtroppo attenuata mano a mano che gli esseri umani sono diventati socievoli, poiché la ragione ha portato a peggiorare la specie rendendola sempre più insensibile col progredire della vanità, del rispetto, della stima e del disprezzo. La proprietà e la di-suguaglianza hanno poi progressivamente allontanato l’uomo da questo stadio di armo-nia.
3. La pitié, sentimento di umanità che non trova spazio nel mondo poli-tico
La pietà si presenta per Rousseau come un sentimento istintivo e originario della natura umana e come base di un diritto naturale assimilabile alla morale naturale, ma si distingue dalla simpatia di Smith in quanto relativa soltanto alle situazioni di sofferenza
e non riflessiva, ma immediata. Al massimo per Rousseau la pietà è un’emozione da condividere, ma non serve sul piano politico, elemento determinante invece per Smith.
Nell’Émile Rousseau analizza poi il ruolo della pietà o compassione da un punto di vista individuale e non più pubblico: che ruolo ha nella formazione morale di un gio-vane? Si delinea, principalmente nel libro IV, la considerazione del ruolo della simpatia, intesa alla stregua di pietà, nello sviluppo del carattere individuale. In Smith avevamo una considerazione troppo universalistica del carattere, mentre qui si ricostruiscono i tratti individuali dello sviluppo psicologico di Émile, che non rappresenta un individuo astratto come quello analizzato dal filosofo scozzese.15 Émile imparerà presto che è la sofferenza a unire gli uomini, in essa si coglie meglio la dignità di una natura comune e la garanzia dell’affezione.
«È la debolezza che rende l’uomo socievole: sono le nostre comuni miserie a dare umanità ai nostri cuori. Se non fossimo uomini non ne avremmo affatto. L’affetto è sempre un segno di insufficienza. Se ognuno di noi non avesse alcun bi-sogno degli altri non penserebbe affatto a legarsi a loro. […] Ne consegue che noi ci affezioniamo ai nostri simili più per il sentimento dei loro dolori che per il sen-timento dei loro piaceri. Perché in quel modo riusciamo a vedere meglio l’identità della nostra natura e la garanzia del loro affetto verso di noi.»16
Un uomo felice ispira subito più invidia che amore dal momento che il nostro amor-proprio soffre facendoci sentire che egli non ha alcun bisogno di noi; mentre un uomo infelice che soffre viene compianto con più facilità e l’immaginazione ci pone immediatamente al posto del miserabile piuttosto che a quello di chi è felice: il primo stato riesce a commuoverci più da vicino rispetto all’altro. «La vista di un uomo felice
15
Cfr. interpretazione di E. Lecaldano, Simpatia, op. cit., pp. 62-63.
16 J.-J. Rousseau, Émile o Dell’Educazione, con un saggio di Michel Tournier, trad. it. Marina Valensise,
ispira agli altri più invidia che amore: verrebbe subito accusato di usurpare un diritto non suo trasformandolo in una felicità esclusiva. E l’amor-proprio soffre anche facen-doci sentire che quest’uomo non ha affatto bisogno di noi. Ma chi non compiange l’infelice che vede patire? Chi non vorrebbe liberarlo dai suoi mali se bastasse a ciò un augurio?»17. La dolce voce della pietà ritorna per farci sentire il piacere di non soffrire come la persona che stiamo osservando: l’invidia non riesce a far scattare l’immedesimazione con l’uomo felice, ma ci fa semmai sentire la distanza con quest’ultimo.
«La pietà è dolce perché se uno si mette al posto di chi soffre sente comun-que il piacere di non soffrire come lui. L’invidia è amara, perché la vista di un uo-mo felice, invece di mettere l’invidioso al posto suo, gli dà solo il rimpianto di non esserci. Sembra che uno ci dispensi dai mali che soffre mentre l’altro ci priva dei beni di cui gode.»18
Il precettore insegna ad Émile che in noi esiste un’originaria tendenza che, nella rela-zione con l’altro sofferente, fa prevalere o un calcolo egoistico o il principio del con-fronto: sarà necessaria una formazione appropriata che inserisca il giovane in quelle si-tuazioni in grado di suscitare le esperienze giuste per risvegliare i sentimenti di pietà e immedesimazione. Per far nascere in Émile quello che viene definito come il primo sen-timento che commuove il cuore umano, secondo l’ordine voluto dalla natura, egli dovrà venire a conoscenza della sofferenza degli esseri simili a lui e scoprirla affine alla pro-pria o nuova rispetto a ciò che ha sperimentato in prima persona19. Émile imparerà così a identificarsi con l’altro sofferente, trasportandosi in lui per provarne la sofferenza e il
17 Ivi, p. 279. 18 Ivi, p.279. 19
«Per diventare sensibile e pietoso, il bambino deve sapere che esistono dei suoi simili i quali soffrono come ha sofferto lui, e sentono gli stessi dolori che ha sentito lui, e altri dolori di cui deve avere un’idea in quanto può sentirli anche lui.» (Ivi, p.280).
dolore: questo avverrà anche grazie al concorso della sua immaginazione, che si attiverà per compiere il passaggio dal proprio essere a quello dell’altro. Dunque, poiché non è nella natura umana immedesimarsi con facilità in chi è più felice, questo procedimento sarà favorito dalla presenza di chi è da compiangere: lungi dal far ammirare a Émile la sorte brillante degli altri, il precettore gli mostrerà piuttosto i lati tristi da temere che so-no dietro a questa20. Come nel processo della simpatia in Smith, anche nella compassio-ne descritta da Rousseau c’è una ricerca del sentimento provato dall’altro rispetto al do-lore visibile: si cerca di capire come l’altro si possa relazionare a questa sofferenza, e, sulla base della sua reazione, sul sentimento che noi gli attribuiamo, entra in gioco la pietà21. Ma essa va anche ampliata per impedire che degeneri in debolezza, si dovrà al-lora estenderla e diffonderla su tutto il genere umano e di conseguenza capire che non ci si abbandona ad essa se non quando è in accordo con la giustizia, poiché è la virtù che più concorre al bene comune degli uomini. Ecco che fa il suo ingresso anche la ragione, a differenza di quanto descritto nel corso dello sviluppo dell’uomo nel Discorso
sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, dove la riflessione
sem-brava intervenire solo a scapito della passione naturale della pitié, nello sviluppo del ca-rattere di Émile diventa necessario avere pietà non solo per il prossimo che gli si presen-ta qui e ora, ma per la specie intera: procedimento che richiede ovviamente il concorso dell’immaginazione ma anche della ragione per guadagnarsi la consapevolezza della fragilità dell’intera specie umana. Nell’Émile il precettore cerca in tutti i modi di coniu-gare la pietà con la capacità di giustizia; mentre nel Discorso la sola pietà bastava all’uomo primitivo, per l’uomo in società essa non è più sufficiente nel relazionarsi con gli altri individui. La compassione resta allora in Rousseau sempre una forma di
20
«Evitate di far germogliare in lui l’orgoglio, la vanità, l’invidia, con l’immagine ingannevole della felicità umana. Evitate innanzitutto di fargli vedere la pompa nelle corti, i fasti dei palazzi, il fascino degli spettacoli […] Gli uomini per natura non sono né re, né grandi, né cortigiani, né ricchi. Sono nati tutti nudi e poveri, sono tutti soggetti alle miserie della vita, ai dispiaceri, ai mali, ai bisogni, ai dolori di ogni tipo.» (Ivi, p.279).
21 «La pietà che si ha del male altrui non si misura in base alla quantità del male, bensì in base al
cipazione alle emozioni altrui, che si risveglia direttamente di fronte a una certa situa-zione e non è riconducibile a quel contagio emozionale che in Smith era assimilato alla simpatia; anzi, nella trattazione fatta dal filosofo ginevrino viene tralasciata del tutto quella dimensione che, collegando la simpatia con l’immaginazione, aveva permesso a Smith di sottolineare le capacità proiettive di questo processo rendendolo una forza atti-va nella civilizzazione. La pietà resta un’emozione elementare che non troatti-va nessuno spazio nel contratto sociale che farà riferimento al bene comune in termini tali da non doverla nemmeno chiamare in causa. Una condotta morale ridotta alla compassione o pietà finisce ovviamente col favorire una considerazione della società in cui prevalgono relazioni di profonda ineguaglianza. Farsi guidare interamente dalla simpatia o compas-sione può essere dannoso in quanto ci porta a privilegiare gli interessi di coloro che so-no più simili e familiari a so-noi, impedendoci di vedere quegli interessi, ugualmente degni, nascosti dietro a diversità superficiali e apparenti. Il processo formativo di Émile ci corda in parte l’educazione contemporanea là dove in entrambi i casi si cercano di ri-creare situazioni che permettano alle individualità di sottoporsi a esperienze con altre persone, provenienti da condizioni sociali e culture diverse. La questione della giustizia non può essere risolta se non va a coinvolgere direttamente anche la formazione e la tra-sformazione dei caratteri delle persone.
Rousseau, a cui il tema dell’uguaglianza è così caro, comprende l’importanza dell’impulso posto in noi dalla natura che serve di aiuto a quello che la giustizia da sola non potrebbe ottenere, e allo stesso tempo riconosce la pietà quale principio necessario, ma non sufficiente, per la crescita morale di Émile. La formazione morale individuale si accompagna alla formazione graduale di un carattere responsabile, dove la sola compas-sione non è più la qualità da cui derivano tutte le virtù sociali. Il contributo offerto da Rousseau sta proprio nell’aver collegato l’etica con un miglioramento delle capacità simpatetiche spontanee nell’uomo e non con una ragione svuotata di qualsiasi umanità,
presentata come alternativa a sentimenti ed emozioni. Rousseau non si porrà l’obiettivo di rinnegare la pietà, ma di correggerla nelle parzialità che la rendono inconciliabile con le esigenze di eguaglianza e imparzialità volute dal contratto sociale e che, del resto, fanno parte della pratica della moralità.
C’è dunque un’evoluzione nel pensiero di Rousseau che lo conduce a definire la compassione non come virtù etica, ma quale semplice dono della fantasia che consiste nella capacità di immedesimarsi negli altri, sentendo propria la loro sofferenza. La com-passione tipica dell’uomo nello stato di natura si configura come una semplice capacità naturale che, se analizzata, si scopre essere basata su un’impressione sensibile che non ha niente in comune con l’azione morale22. Questo tipo di sentimento non spinge l’uomo all’intervento attivo in favore dell’altro, nonostante senta come proprio il dolore che lo affligge. Il passaggio allo stadio morale non può avvenire con il solo concorso della compassione poiché nello stato di natura interesse individuale e interesse collettivo non coincidono, ma si escludono ed è obiettivo esclusivo della società quello di ricreare una simpatia che possa superare l’amor di sé e condurci ad una decisione attiva verso gli altri. Per Rousseau dunque nel campo morale non c’è spazio per un’inclinazione natura-le e istintiva alla simpatia, ma piuttosto trova qui il suo posto una capacità di autodeter-minazione che si esprime in una disposizione della volontà e che determina in questo senso la bontà tipicamente umana. L’essere benevolente verso gli altri non si caratteriz-za come virtù etica, il cui vero fondamento si radica nel riconoscimento di una legge morale a cui il singolo individuo si sottomette liberamente sottoscrivendo il contratto sociale. Il dono specifico dell’essere umano non è allora la pietà, ma la perfettibilità23
22 Cfr. E. Cassirer, Das problem Jean-Jacques Rousseau (1932), trad. it. Maria Albanese Il problema
Gian-Giacomo Rousseau in E.Cassirer, R. Darnton, J. Starobinski, Tre letture di Rousseau, Editori
Laterza, Bari 1994.
23 «[…] esiste un’altra qualità molto specifica che li distingue (l’uomo e l’animale), e sulla quale non ci
possono essere contestazioni, ed è la facoltà di perfezionarsi; essa, con l’aiuto delle circostanze, sviluppa successivamente tutte le altre facoltà, ed è insita in noi, sia nella specie che nell’individuo, mentre l’animale, passato qualche mese, è quale sarà tutta la vita, e la sua specie, dopo mille anni, è ciò che era il primo di questi mille anni.» (J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra
che gli permette di evolversi col tempo, non accontentandosi di quella dimensione che la natura gli offre immediatamente e costruendo per sé una nuova forma di esistenza che ovviamente comporterà anche la rinuncia dell’armonia tipica dello stato originario. Il progresso umano è rappresentato come qualcosa di inarrestabile ma che può essere gui-dato nella direzione giusta dalla volontà in un processo continuo di scelte che conduca-no alla libertà, la quale conduca-non rappresenta un doconduca-no offerto dalla natura, ma una conquista a cui si giunge dopo aver superato varie insidie. La società sembra allora avere questo ruolo determinante nel condurre l’uomo al suo vero fine che si delinea proprio nella li-bertà che non si affida al semplice sentimento, ma necessita di una visione morale che include anche la ragione. Se la sola compassione non basta per avere accesso alla di-mensione etica, anche la pura riflessione risulta essere carente come sola spinta verso l’azione morale: i principi della condotta etica e della vita politica possiedono una loro particolare immediatezza che si costruisce sulle fondamenta di un’intuizione attinente alla ragione. Le verità morali possono essere colte da tutto il genere umano a patto di esercitare correttamente la facoltà della perfettibilità in seno alla società, nella piena co-scienza della libertà e del diritto e in modo attivo sviluppando la spontaneità del volere.
Rousseau parla di un’origine naturale delle passioni, descrivendole come i principali strumenti della nostra conservazione e della piena espressione della nostra li-bertà24. Tuttavia egli riesce a mettere in evidenza, con grande lucidità, il processo di de-generazione che esse subiscono ponendosi in netto contrasto con la natura: quelle pas-sioni che ci soggiogano e lacerano la nostra interiorità non provengono dalla natura, siamo a noi ad appropriarcene a suo discapito. Responsabile del processo di alterazione che snatura le passioni, rendendole nocive, è la facoltà dell’immaginazione; essa infran-ge quel limite tracciato con sapienza dalla natura, accrescendo l’intensità dei sentimenti e trasformandoli in qualcosa di pericoloso e minaccioso per l’armonia dell’uomo con se gli uomini, op. cit., p.110).
stesso. «La fonte delle passioni è naturale, è vero: ma viene ingrossata da mille rivoli estranei; è un gran fiume che aumenta senza posa e in cui si riuscirebbe a malapena a trovare qualche goccia dalle acque originarie.»25. Se la fonte di tutte le passioni resta per Rousseau la sensibilità innata, l’immaginazione entra in gioco nel determinare la lo-ro inclinazione, conducendole all’erlo-rore. Nel Discorso sull’origine e i fondamenti
dell’ineguaglianza tra gli uomini l’immaginazione veniva presentata là dove l’uomo
dello stato di natura si accingeva ad entrare nel mondo sociale e morale. Questa facoltà è prima del tutto assente in lui e poi si sviluppa col tempo assieme alla riflessione in quella caratteristica tipica dell’uomo che è la perfettibilità, ed abbiamo visto come tale processo svolga una duplice funzione di emancipazione e corruzione poiché sottrae l’uomo da quella condizione di totale assenza della realtà psicologica e morale, tipica dello stato di natura, per gettarlo nel mondo delle passioni e dei desideri26.
Nel percorso formativo pensato dal precettore per Émile si vede chiaramente come l’immaginazione possa svolgere anche un effetto positivo là dove preserva il gio-vane dall’indiscriminato richiamo dei sensi, e, allo stesso tempo, genera un’illusione, esponendolo al rischio della delusione e dell’infelicità, una volta posto di fronte alla realtà. Se la nascita dell’immaginazione viene ritardata il più possibile in Émile, a causa del suo potenziale di distorsione delle passioni, essa, una volta insorta in modo naturale, viene poi sfruttata per tenerlo lontano dalle tentazioni sensibili: la perfezione immagina-ria della donna che è stata ricreata nella sua mente gli farà provare disgusto davanti ai piaceri offerti da altre donne.
L’immaginazione ci aiuta così nel creare un mondo parallelo a quello dei vizi e delle menzogne della società, spingendoci ad agire sempre per il meglio, tenendo in
25
Ivi, p. 267.
26 «Sarebbe triste per noi dover ammettere che questa facoltà distintiva, e quasi illimitata, è l’origine di
tutte le sventure dell’uomo; che è essa a farlo a uscire, con il passar del tempo, da quella condizione originaria nella quale potrebbe trascorrere giorni tranquilli e innocenti; che è essa a far apparire col trascorrere dei secoli i suoi progressi e i suoi errori, i suoi vizi e le sue virtù, e a farne alla fine il tiranno di se stesso e della natura.» (Ivi, p. 110).
mente una perfezione, che pur non esistendo, rappresenta tuttavia un importante model-lo di comportamento. Volgendo le nostre passioni in questa direzione, essa ci espone ovviamente al pericolo del disinganno: quando lo sguardo ricade, privo di illusioni, sul mondo reale e ne apprende la totale lontananza da quello che si era prefigurato in prece-denza, sorge l’infelicità.
II.
La riflessione psicologica e morale di Rousseau, amour de soi
e amour-propre
1. L’inizio della storia interiore individuale e collettiva
L’infelicità dettata dalla riflessione è del tutto assente nello stato di natura, in quello stadio dello sviluppo umano che Rousseau ricostruisce, in via congetturale, all’interno del Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini al-lo scopo di mostrare come al-lo spirito della società abbia corrotto e alterato le inclinazioni naturali dell’uomo conducendolo all’infelicità attuale. Ciò che interessa a Rousseau è mostrare la felicità dell’uomo selvaggio, fatta di libertà e tranquillità, a fronte della di-sperazione dell’uomo civilizzato che vive nell’affanno delle preoccupazioni quotidiane quali la ricerca della stima pubblica e la continua tensione verso l’acquisizione di mag-gior potere e ricchezza. Il risultato finale dell’esposizione del Discorso vuole dimostrare che l’ineguaglianza, quasi del tutto assente nello stato di natura, trae origine e forza dal-lo sviluppo delle facoltà intellettuali che conducono al progresso deldal-lo spirito umano, divenendo poi legittima e stabile con l’istituzione della proprietà e delle leggi. Rousseau tratteggia così la storia filosofica della coscienza umana ripercorrendo il processo di formazione dell’io dalle sue manifestazioni primitive e più semplici, fino alle sue carat-terizzazioni più complesse e organizzate. Ogni stadio è dunque caratterizzato da scena-rio e protagonisti ben definiti: il passaggio da uno all’altro si determina come una picco-la o grande rivoluzione interiore, condizionata sempre dal suo milieu. Questo romanzo dell’anima umana si snoda fra due poli, rappresentati da due figure simmetricamente opposte: l’homme naturel e l’homme civil, i quali, a loro volta, rimandano a due passioni strutturate agli antipodi l’una dell’altra, ovvero l’amour de soi e l’amour-propre. La par-ticolare impostazione genealogica impressa da Rousseau al Discorso sull’ineguaglianza permette di sciogliere per gradi le antitesi in una medesima e comune storia, quella che coinvolge l’individuo così come la specie. Il fondamentale passaggio dall’amour de soi
all’amour-propre non avviene dunque bruscamente, ma si compie attraverso una tra-sformazione qualitativa della passione originaria, amabile e mite, che cambia comple-tamente essenza, divenendo odiosa e irascibile a causa del concorso accidentale di cir-costanze esterne. La degenerazione dell’amor di sé avviene in parallelo al cambiamento delle circostanze ambientali a dimostrazione dell’idea, profondamente radicata nella morale di Rousseau, che i contesti naturali o sociali influenzino inevitabilmente gli stati psicologici e le passioni dell’uomo. Quest’intensa reciprocità fra la coscienza e il mon-do costituisce forse uno dei tratti più originali del pensiero di Rousseau che apre lo spa-zio all’intervento di una riforma in senso etico-politico, dal momento che l’uomo non viene presentato ovunque identico a sé, ma piuttosto diverso a seconda del contesto in cui si trova a vivere e dunque sempre suscettibile di cambiamenti27.
La risposta alla questione posta dall’Accademia di Digione (“Qual è l’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini, e se essa sia autorizzata dalla legge naturale”) fornita nel Discorso sull’ineguaglianza parte dalla constatazione che la più utile e, tuttavia, la meno progredita delle scienze umane sia proprio quella dell’uomo: la conoscenza di chi siamo rappresenta uno dei più interessanti problemi che la filosofia possa trattare e allo stesso tempo uno dei più difficili da risolvere in quanto è sempre più complicato accede-re all’essenza originaria, dimenticata al di sotto dei cambiamenti istituiti dal progaccede-resso umano. Come la statua di Glauco, sfigurata dalle intemperie del mare e del tempo, l’anima umana ha cambiato il suo aspetto in seno alla società diventando quasi irricono-scibile28. La prima forma di inuguaglianza deriva proprio dal miglioramento o
27 Cfr. B. Carnevali, Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau, Il Mulino,
Bologna 2004, pp.70-71.
28 Già nella figura della statua di Glauco è possibile intravedere la necessità, sentita così fortemente da
Rousseau, di andare a scavare in profondità per recuperare l’identità profonda della nostra essenza. Sotto le incrostazioni dell’opinione si cela il vero essere e la condizione necessaria per accedervi è, in un primo momento, la solitudine: «Cominciamo a ridiventare noi stessi, a concentrarci in noi, a circoscrivere la nostra anima con gli stessi limiti che la natura ha dato al nostro essere […] così la prima idea dell’uomo è quella che lo isola da tutto ciò che è diverso da lui. […] Raccoglietevi, cercate la solitudine, ecco il solo vero segreto grazie al quale potrete scoprire tutti gli altri.» (J.-J. Rousseau, Lettere Morali, a cura di R. Vitiello, Editori Riuniti, Roma 1994, Lettera sesta, p.158). Inoltre per una lettura di Rousseau sotto questa prospettiva si rimanda all’attenta analisi di E. Pulcini, L’individuo senza passioni, op. cit., cap. III.
ne a cui alcuni sono stati sottoposti in misura maggiore di altri, che invece sono rimasti più a lungo nel loro stato originario. Distinguere gli elementi naturali da quelli artificiali nello stadio attuale dell’uomo è ormai un compito arduo, al quale però Rousseau non ri-nuncia e vi si accinge con la consapevolezza di poter soltanto congetturare una possibile risposta, chiarendo i termini della questione e riconducendola alla definizione del diritto naturale. Il Discorso sull’ineguaglianza vuole infatti fissare l’istante in cui la natura fu sottoposta alla legge, ovvero determinare quando il diritto prese il posto della violenza e per quale concatenazione di eventi il forte accettò di servire il debole, il popolo scelse la tranquillità pagandola con la sua felicità. Rousseau dichiara fin dall’inizio che la sua ri-cerca non si dovrà considerare alla stregua di verità storica, quanto piuttosto come ra-gionamento ipotetico e condizionale adatto a chiarire la natura delle cose più a che a mostrarne l’effettiva origine29
.
«[…] vedo un animale meno forte degli uni, meno agile degli altri, ma, nell’insieme, organizzato più vantaggiosamente di tutti; lo vedo riposarsi sotto una quercia, dissetarsi al ruscello più vicino, trovare il proprio letto sotto lo stesso albe-ro che gli ha palbe-rocurato il pasto: ed ecco i suoi bisogni soddisfatti.»30
Questa è la prima descrizione dell’homme naturel che prosegue sottolineando la genero-sità della terra, capace di offrire, ad ogni passo, asilo e alimenti per tutti. Nell’osservazione di Rousseau l’uomo, non avendo un istinto propriamente suo, si ap-propria di tutti gli istinti degli altri animali, imitandoli a seconda dell’occorrenza e nu-trendosi di quasi tutto ciò che la natura gli pone di fronte. Fra gli uomini vengono sele-zionati quelli forniti di un buon fisico, capaci di divenire forti e robusti, mentre gli altri
29
«Il faut bien remarquer que l’état de nature n’e pas un impératif moral; il n’est pas une norme pratique, à laquelle nous serions invités à nous conformer: c’est un postulat théorique, mais qui reçoit une évidence presque concrète, par la vertu d’un langage qui sait donner à l’imaginaire tous les caractères de la
présence.» (J. Starobinski, “Introductions a le “Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité”, in
Œuvres Complètes, III Du Contrat Social, Écrites Politiques, Gallimard, Paris 1964, p. LVIII).
sono destinati a morire: il corpo è il solo strumento che conoscono e lo impiegano dun-que in diversi modi, sviluppandone appieno le capacità e portando così sempre con sé tutto ciò di cui hanno bisogno, ovvero le proprie forze. Lo stato emotivo e cognitivo in cui questi uomini si trovano fa capo semplicemente a due principi, anteriori alla ragione, rappresentati dall’istinto di autoconservazione e dalla naturale ripugnanza a veder soffri-re gli altri esseri sensibili; due specifiche circostanze esterne favoriscono questa dispo-sizione: la fecondità della terra, che riesce a nutrire tutti gli esseri viventi senza mobili-tare il lavoro o la concorrenza reciproca, e la dispersione naturale, ovvero quell’isolamento fisico che rende molto rari i contatti fra gli uomini. Non esiste allora una guerra di tutti contro tutti, come sosteneva Hobbes, poiché non c’è sproporzione fra la quantità di beni disponibili in natura e i bisogni degli uomini; l’armonia regna incon-trastata e scioglie ogni possibile aggressività nella dolcezza di un’identità simbiotica fra uomo e ambiente. La pitié rende evidente questo sentimento di coappartenenza, anterio-re a ogni riflessione, che mantiene l’uomo in un paradiso teranterio-restanterio-re dove l’istinto di con-servazione, potenziale fonte di violenza, è stemperato dalla ripugnanza a veder soffrire qualsiasi altro essere sensibile. La minima conflittualità è così eliminata sul nascere dal richiamo all’esperienza comune del dolore: argomento studiato quasi ad hoc contro quelle teorie che vogliono l’uomo naturalmente incline allo scontro (Hobbes) o timoro-so vertimoro-so gli altri animali e sempre pronto a fuggire (Cumberland e Pufendorf).31 Spa-ventato solo da ciò che non conosce (poiché non sa se potrà provocargli dolore) e nella condizione di non incontrare quasi mai bruschi cambiamenti o novità, l’uomo selvaggio prende presto coscienza della sua preminenza sugli altri animali, che supera in scaltrez-za, e si trova fin da subito di fronte alla possibilità di scegliere se accettare o evitare
31
«La funzione della pitié è complementare a quella dell’amour de soi (nei Dialogues sarà definita addirittura come una sua “emanazione”): lo limita nella sua pulsione istintiva, impedendo che la volontà di vivere si trasformi in volontà di potenza […] Si tratta di un antidoto preventivo al veleno
dell’amour-propre e, non a caso, nasce come un argomento ad hominem contro Hobbes: l’esperienza del dolore,
come un minimo comune denominatore biologico, neutralizza la rivalità naturale, predisponendo – seppure solo virtualmente – alle forme positive di socialità.» (B. Carnevali, Romanticismo e
l’incontro con essi. L’essere un agente libero è una qualità prettamente umana: l’impulso della natura comanda a tutti gli animali, ma l’uomo è l’unico che può decide-re se aderidecide-re o decide-resistedecide-re.
I modesti bisogni sono facilmente soddisfatti, lo scontro evitato e la mancanza di previdenza e curiosità impedisce a questi uomini di desiderare di più di quello che già hanno: i soli beni che conoscono sono il cibo, le donne e il riposo; mentre i rispettivi mali che possono sperimentare sono il dolore fisico e la fame (nemmeno la morte li in-quieta poiché non hanno nessuna idea di cosa significhi morire). Lo stato d’animo dell’uomo selvaggio è riprodotto unicamente dall’abbandono al sentimento di esistenza, nulla lo turba dato che desiderio di conoscere e previdenza non sono ancora entrati a far parte delle sue caratteristiche: le sue prospettive sul futuro si estendono a malapena fino alla fine della giornata, egli non si stupisce di niente e i suoi desideri non oltrepassano i bisogni fisici. L’istinto è dunque l’unica cosa che serve per vivere nello stato di natura e le facoltà intellettuali, possedute solo in potenza, saranno sviluppate esclusivamente col presentarsi dell’occasione di esercitarle, non prima, in modo da non risultare superflue anteriormente al loro effettivo bisogno. In questo stato non esiste nessun tipo di rapporto morale fra gli uomini e nessun dovere riconosciuto, nessun uomo può essere qui definito buono o cattivo, dotato di virtù o di vizio, se non relativamente alle qualità che possono nuocere o promuovere la sua conservazione.
«[…] così si potrebbe dire che i selvaggi non sono malvagi, proprio perché non sanno cosa vuol dire essere buoni; infatti non è né lo sviluppo dei lumi né il freno della legge che vieta loro di fare del male, ma l’assenza delle passioni e l’ignoranza del vizio.»32
Iniziano però a sorgere i primi problemi e Rousseau non esita a ricondurli a un cambia-mento ambientale che annulla le condizioni di fecondità e alienazione tipiche dell’idillio simbiotico. La natura smette di nutrire spontaneamente e direttamente l’uomo e si tra-sforma in un ostacolo da scavalcare utilizzando astuzia e forza. Le prime difficoltà in-contrate sono descritte con efficacia da Rousseau: l’altezza degli alberi che impedisce di coglierne i frutti, la concorrenza degli altri animali nella lotta per il cibo o la loro ferocia nell’attaccare, gli altri uomini che si costituiscono per la prima volta quali rivali nella contesa per il sostentamento. Diventa allora necessario acquisire velocità, agilità e forza per non perdere o, perlomeno, per cercare di compensare la perdita di ciò che si deve cedere al più forte. In questa delicata fase dell’umanità potrebbero scatenarsi conflitti di portata maggiore rispetto a quelli presupposti fino ad ora, ma Rousseau non lascia spa-zio a questa prospettiva e si concentra invece sul nuovo rapporto che si istituisce fra co-scienza e ambiente circostante a fronte di questa trasformazione. Il genere umano si estende e la differenza di terreni, climi e stagioni introduce nuovi modi di vivere: diven-ta necessaria una nuova operosità e aumendiven-tano le fatiche; chi vive nelle foreste divendiven-ta cacciatore e guerriero grazie all’arco e alla freccia, chi invece abita lungo il mare e i fiumi inventa lenza e amo e diventa pescatore. Le pelli degli animali e il fuoco vengono utilizzati per ripararsi dal freddo e in seguito si cuoce la carne, che prima veniva man-giata cruda. Questa continua applicazione di enti diversi fra loro e da se stesso genera nello spirito dell’uomo la percezione di nuovi rapporti: «Queste relazioni che noi espri-miamo con i termini di grande, piccolo, forte, debole, veloce, lento, pauroso, coraggioso, e altre idee simili, confrontate tra loro quando occorreva, e quasi senza pensarci, pro-dussero alla fine in lui una qualche riflessione, o piuttosto una automatica prudenza, che gli insegnava le precauzioni più necessarie alla sua sicurezza»33. Dunque, se prima la psicologia dell’uomo era contraddistinta dalla passività, adesso prevale l’angoscia per la
sopravvivenza e nell’interiorità si sviluppa una sorta di ragione strumentale. Siamo di fronte alla nascita della riflessione: una facoltà capace di istituire paragoni, giudicare e prevedere sviluppi futuri esclusivamente nel calcolo dell’interesse di sopravvivenza (le sue potenzialità infatti non sono ancora indirizzate alla contemplazione). La conseguen-za più evidente di questa nuova situazione è l’acquisizione di una diversa consapevolez-za di sé che andrà a turbare la precedente comunione con la natura: l’uomo si percepisce superiore agli altri animali e inizia a ingannarli, tendendo loro trappole e divenendo il padrone di quelli che gli possono servire e la rovina di quelli che possono nuocergli. La forza della bestia feroce può ben poco di fronte all’astuzia e all’intelligenza, qualità che contribuiscono ad accrescere ulteriormente la distanza fra le specie.
Ecco venire meno la pietà, l’uomo non si identifica più con la fragilità e la soffe-renza degli altri esseri viventi, ma si pone al di sopra di essi: la consapevolezza di essere loro superiore lo gratifica e gli fa sentire la sua differenza specifica come un privilegio. «Così il primo sguardo che rivolse a se stesso produsse in lui il primo impulso di orgo-glio; e così, mentre a mala pena sapeva distinguere i ranghi e si vedeva nel primo di essi come specie, si preparava fin d’allora a pretendere di starci come individuo.»34
. Quest’orgoglio di specie sovverte la gerarchia in cui l’uomo dovrebbe includersi e lo fa innalzare al di sopra di essa; da qui a considerarsi quale individuo per cui tutto il resto del genere umano è stato creato il passo è breve. La vanità si compiace nell’immagine della propria superiorità che si traduce facilmente in disuguaglianza sociale, chi infatti vuole imporre il proprio dominio in modo arbitrario sugli altri animali, ribellandosi al posto che la natura gli ha assegnato, non tarderà a scontrarsi anche con i suoi simili. Ve-diamo così sorgere un nuovo ordine, del tutto artificiale, che sarà il primo di una lunga serie di false gerarchie.