• Non ci sono risultati.

Il conflitto interiore fra solitudine e comunità, il passeggiatore solitario e Julie

III. Dissolvere il mito della trasparenza nella società

3. Il conflitto interiore fra solitudine e comunità, il passeggiatore solitario e Julie

La solitudine come scelta di vita non implica necessariamente che si possa fare a meno degli altri, né disinteressarsi completamente di loro: Rousseau non smette infatti di comunicare con i propri simili nemmeno durante il suo ritiro dalla comunità. La scelta riguarda allora un certo tipo di comunicazione piuttosto che un altro, il filosofo ginevrino preferisce la solitudine alla compagnia degli altri uomini, ma non per questo può essere accusato di essere meno sociale rispetto a chi vive in società. Pur restando solo, egli continua a interrogarsi e a scrivere rivolgendosi a quella moltitudine di persone da cui sta fuggendo. «Soltanto il malvagio sta solo» è l’accusa indiretta che gli

rivolge Diderot88, espressa tramite uno dei suoi personaggi, che lo farà molto soffrire e indignare. Non si può dedurre dalla sua scelta per la contemplazione e la fantasticheria solitaria una specie di misantropia: anche in isolamento completo si può essere in profonda comunione con gli altri, o, viceversa, sentirsi completamente soli in mezzo a una folla di persone. Questa unione col resto del mondo dipende da una disposizione interiore e non da una situazione esterna in cui ci si ritrova a vivere, tant’è che l’accesso ad essa è più facile per il passeggiatore solitario che per l’amante della folla.

Qualunque tipo di solitudine è preceduta da un periodo di formazione dell’io in cui proprio il rapporto con l’altro ha orientato inclinazioni e scelte, ed è poi questo stesso io, risultato di una serie di rapporti, che sceglierà il modo di vivere che più gli è affine, che gli procura maggior felicità. Si può affermare che non esiste un io costituitosi in precedenza, che si decide di affidare agli altri o di mantenere isolato, ma che esso esiste soltanto nelle relazioni instaurate con l’altro. Per esistere abbiamo bisogno dell’apporto dell’altro, l’essere umano vive di questa incompletezza costitutiva che non gli permette di accedere autonomamente a una coscienza completa di sé. Rousseau stesso sa che la vita in società definisce la vocazione del genere umano:

«La forma più bella d’esistenza è per noi quella fatta di relazioni e in comune, e il nostro vero io non sta tutto in noi soli. Giacché l’uomo è fatto in tal modo che in questa vita non si arriva mai a godere pienamente di se stessi senza il concorso degli altri.»89

A questo punto è possibile interpretare in modo corretto la critica che Rousseau rivolge alla società, svolta al fine di migliorarla per renderla più adatta allo sviluppo interiore di ogni individuo e non perché ad essa si preferisce a priori la solitudine. Quest’ultima

88 D. Diderot, Il figlio naturale, in Teatro e scritti sul teatro, La Nuova Italia, Firenze 1980, p. 69. 89 J.-J. Rousseau, Dialoghi, in Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, p. 1213.

diventa necessaria solo quando la società è corrotta e l’unica via per salvarsi risiede nell’isolamento. L’esistenza umana non è minacciata dalla vita in comune, ma da alcune forme di comunicazione opache che impoveriscono e alienano l’io, il quale andrà allora a rifugiarsi dietro a rappresentazioni individualistiche che gli faranno vivere come una condanna il bisogno costitutivo degli altri.

«Ma la dipendenza non è alienante, la socialità non opprime, libera: bisogna sbarazzarsi delle illusioni individualistiche. Non vi è pienezza al di fuori del rapporto con gli altri; il conforto, il riconoscimento, la cooperazione, l’imitazione, la competizione, la comunione con l’altro possono essere vissute con gioia.»90

L’interpretazione di Todorov arricchisce la spiegazione della scelta della vita in solitu- dine con la presa di coscienza dell’intrinseca socialità dell’uomo, la cui interiorità è formata interamente da istanze intersoggettive, prodotte dall’interazione con l’altro. Nessuna di queste istanze proviene da una recondita profondità dell’essere individuale, ma sono tutte sfaccettature sociali. Allora intensificare lo scambio significa intensificare l’io; per Todorov si può definitivamente abbandonare il paradosso della difesa dell’autonomia del singolo all’interno della constatazione della sua estrema dipendenza sociale. Non esiste questo tipo di contraddizione, si devono tener separate la descrizione delle scelte morali e quella dell’apparato psichico: il bisogno di riconoscimento e la sol- lecitazione dello sguardo altrui non possono essere condannati perché esulano dalla sfe- ra morale, non sono frutto di una scelta. Trarre il senso della propria esistenza dal rico- noscimento non è meno virtuoso del ritrovarlo nella realizzazione personale, nell’immediata presenza a sé priva di paragoni. Superando la contraddizione, che ab-

biamo visto evocata da Kant, fra uomo naturale e uomo morale91, Todorov afferma che la morale non si pone in contrasto con l’essenza dell’essere umano, bensì la asseconda:

«Tra il realismo rassegnato e l’idealismo repressivo resta aperta la strada delle virtù quotidiane, non troppo lontane dalle nostre possibilità, poiché consisto- no, essenzialmente, nel preoccuparsi per l’altro e per gli altri, di cui abbiamo co- munque un estremo bisogno; la morale non ci obbliga a combattere la nostra natura, contrariamente a quanto insegnano sia il cristianesimo sia Kant. Preoccuparsi per gli altri non significa assolutamente privarsi di qualche cosa, anzi; rendersi conto chiaramente di questo fatto può favorire sia il bene comune che la felicità dell’individuo.»92

Todorov si riavvicina poi a Rousseau nel segnalare anche le minacce presenti nella vita comune: il filosofo ginevrino è stato infatti, secondo lui, il primo in Occidente a identi- ficare la socialità costitutiva della nostra specie e contemporaneamente anche la sua condanna che vuole la felicità del singolo inesorabilmente congiunta agli altri. Quando nell’Émile Rousseau ricorda che solo chi ama può essere felice, dal momento che solo chi ha bisogno di qualcosa è in grado di amare, sta dicendo che la nostra felicità è nell’amare e amiamo proprio perché senza l’altro saremmo incompleti. Ecco dove l’uomo si rende fragile e allo stesso tempo felice: instaurare legami con gli altri rafforza il suo senso di esistenza e allo stesso tempo lo rende dipendente da questi. Todorov scorge in questo un’altra contraddizione, non quella fra essenza naturale e morale, ma quella fra la coscienza, che si muove nell’infinito, e l’esistenza, che invece si muove nel presente con un’estensione limitata.

91

Cfr, l’interpretazione di Kant del testo rousseauviano in Congetture sull’origine della storia, op. cit., pp. 202-203.

«Anche la società vive nel tempo e tutti i suoi equilibri sono necessaria- mente precari; non bisogna sperare che i conflitti scompaiano, ma soltanto che si risolvano senza violenze. Quanto agli individui non possono dare ordini ai loro de- sideri e tanto meno a quelli degli altri, ma i desideri cambiano e gli uomini sognano l’assoluto. […] L’equilibrio instabile del riconoscimento basato sullo scambio di ruoli si spezza non appena viene intravisto; la realizzazione di sé richiede che si ri- cominci a conquistarla non appena l’abbiamo raggiunta. Un sentiero molto stretto, circondato da abissi vertiginosi, ci porta alla felicità, e non si può mai aver la cer- tezza di averlo veramente imboccato.»93

All’uomo non resta che accettare la propria condizione, come ci suggerisce Rousseau, privo della consolazione di sopravvivere nell’al di là o nel futuro grazie al ricordo della comunità o al lascito delle proprie opere. Una parte della tanto desiderata felicità Jean- Jacques la troverà nella soddisfazione interiore, nel sentire la sua innocenza quale gioia della ricompensa terrena per chi è giusto, ed infatti la serenità di quest’ultimo è descritta proprio come un sentimento interiore: egli non trae forza dalle persone che lo circonda- no, ma soltanto da se stesso94.

La felicità richiede stabilità, mentre tutto intorno a noi cambia continuamente, noi stessi compresi, non abbiamo la certezza che quello che ci procura piacere oggi ce lo procurerà anche domani, dunque si deve godere della gioia che ci capita di incontrare senza pretendere di fare progetti per legarla a noi95. Per conoscere la felicità bisogne- rebbe leggere nel cuore di chi la prova, poiché essa non si lascia intuire da segni esterio- ri. Rousseau afferma di essersi imbattuto in pochissimi uomini felici, forse addirittura nessuno, ma, in compenso, ha conosciuto molti cuori contenti e tale visione ha trasmes-

93

Ivi, pp. 179-180.

94

«La serenità del giusto invece è una serenità interiore; il suo riso non è affatto di malignità, ma di gioia, egli ne porta in se stessa la fonte: è allegro da solo come in mezzo a una cerchia di amici, non trae la sua contentezza da chi gli si avvicina, ma la comunica.» (J.-J. Rousseau, Émile o Dell’Educazione, op. cit., p. 366).

95Vedi inizio della Nona Passeggiata in J.-J. Rousseau, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, op.

so lo stesso sentimento anche a lui. Tale gioia riesce a penetrare fin al suo cuore, e, seb- bene provenga dai sensi96, ha comunque una causa morale: non tutti i visi che esprimo- no gioia suscitano in lui la stessa sensazione. Ne è prova il fatto che sente soltanto indi- gnazione e dolore alla vista del piacere dei malvagi che testimonia l’appagamento della loro malignità, unicamente le espressioni della gioia innocente gli lusingano il cuore. Rousseau, nel corso della Nona Passeggiata, confessa quanto il suo animo sia sensibile di fronte alle persone, soprattutto se testimoniano segni di piacere o di dolore: in questo caso si lascia trascinare irreversibilmente da essi, alterando il suo stato interiore. Il dolo- re e la pena arrecano ancora più impressione su di lui: la sua immaginazione, rafforzan- do la sensazione, lo porta ad indentificarsi con chi soffre e spesso gli procura un’angoscia maggiore rispetto a quella provata dal diretto interessato. Ecco perché sol- tanto nella solitudine Rousseau sentirà di appartenere a se stesso, privo del turbamento che gli provocano gli altri:

«Mi affretto a raggiungere la campagna: non appena vedo il verde comin- cio a respirare. C’è da meravigliarsi se amo la solitudine? Sul viso degli uomini scorgo soltanto animosità, mentre la natura mi sorride sempre. Tuttavia sento anco- ra – lo confesso – la gioia di vivere in mezzo agli uomini finché rimango scono- sciuto; ma è una gioia che non mi vien concessa.»97

Al riparo dagli affanni della vita in comune, Rousseau farà affidamento solo sulle pro- prie forze, rinunciando a ricercare stima e amore presso gli altri, nonostante senta di es- serne degno. Si desidera essere stimati da chi stimiamo e nel periodo in cui Jean- Jacques giudicava gli uomini, o perlomeno alcuni di loro, in modo positivo, non poteva

96 «[…] ho concluso che, più del bene altrui, mi piaceva vedere visi contenti. Questo ha per me un fascino

che, sebbene penetri fin nel cuore, proviene però dai sensi. Se non vedo il godimento di cui sono causa, anche essendone certo, me ne rallegro soltanto a metà; eppure, si tratta di un piacere disinteressato, per me, e che non dipende affatto dalla misura in cui ne possa partecipare.» (Ivi, p. 321).

fare a meno di essere influenzato dai giudizi che essi esprimevano su di lui. Una volta scoperto che tali giudizi vengono espressi solo sulla base di opinioni dettate dalle pas- sioni, Rousseau taglia il filo che lo lega agli altri e al bisogno del loro riconoscimento: non trova nessuno che non si sia fatto un’idea sbagliata sul suo conto, risultato della persecuzione di cui immagina di essere vittima. «Così il loro animo cessò di avere un significato per me; vi scorsi soltanto delle masse indifferentemente agitate, e sprovviste – nei miei riguardi – di ogni moralità.»98

.

Per raggiungere la felicità il cammino non è ancora terminato: eliminato il male che proviene dai giudizi errati degli altri e dall’affanno in cui lo trascina il bisogno di riconoscimento, rimane ancora la radice della sua sofferenza ed essa si trova proprio in lui stesso. Rousseau vuole abbandonarsi al suo destino, comprende che ogni sforzo è vano nel contrastarlo, tuttavia sente che qualcosa lo agita ancora: si tratta dell’amor- proprio che, dopo essersi indignato contro gli uomini, continua a ribellarsi alla ragione. Non è stato facile comprendere che un conflitto sussisteva ancora e si celava proprio nel suo animo, l’amor-proprio infatti è abile nel mascherarsi da stima di sé e far passare «l’orgoglio del proprio piccolo io» per «un puro amore della giustizia». Jean-Jacques nel corso di questa riflessione, durante l’Ottava Passeggiata99

, confessa di non aver mai

avuto una grande tendenza all’amor-proprio, tale passione si era però animata in lui nel corso della sua carriera di scrittore e, ricevendo anche molti rifiuti, era stata costretta dapprima a rivoltarsi contro le ingiustizie e, in seguito, a ripiegarsi nell’interiorità reci- dendo ogni tipo di relazione, rinunciando a paragoni e preferenze. L’amor-proprio ha subito allora una trasformazione in Rousseau: è ritornato amor di sé, rientrando nell’ordine della natura e liberandolo dal giogo dell’opinione. Non facendo più riferi- mento all’immagine di sé che ognuno si crea, assegnandosi un posto ben preciso nel mondo, condizionato anche dalle opinioni degli uomini, diventa facile sopportare perfi-

98 Ivi, p. 303. 99 Ivi, pp. 304-310.

no i colpi più dolorosi. Le disposizioni degli altri influiscono lo stesso sullo stato reale di Rousseau, nonostante il suo ritiro e la sua presa di posizione interiore:

«la barriera che hanno posto fra me e loro mi toglie ogni risorsa di sussi- stenza e di assistenza nella vecchiaia e nel bisogno; […] non esiste più relazione, né soccorso reciproco, né corrispondenza fra loro e me: solo, in mezzo agli uomini, non ho altra risorsa che me solo, risorsa – a dire il vero – molto debole all’età mia e nello stato in cui mi trovo.»100

Jean-Jacques non ha più scelta, la grossolana lente d’ingrandimento dell’amor-proprio gli fa scorgere soltanto animosità e odio fra gli uomini, gli fa sentire la pena di essere preso in giro e, nonostante intuisca l’insensatezza di tale dolore, non può fare a meno di sentirlo. La felicità a cui ha accesso è soltanto quella che avverte in solitudine, quando nessun ostacolo si interpone fra lui ed essa: è necessario rinunciare alle passioni sociali per non portarsi dietro «i vapori dell’amor-proprio e il tumulto del mondo» che offusca- no le visioni più dolci della natura e turbano il ritiro. Già nella Quinta Passeggiata101 la vera e piena felicità era descritta come possibile solo una volta abbandonata la vita so- ciale e rifugiandosi nell’immediatezza del contatto con la natura, come nel mormorio delle onde che allontana ogni agitazione e dona un senso piacevole dell’esistenza.

Il conflitto dunque non si limita ad essere fra individuo e collettività, ma si radi- ca nell’interiorità del soggetto richiedendo così un lavoro di recupero di sé, che non ri- cerchi più soltanto all’esterno la conferma della propria esistenza, ma ritrovi un senso anche nell’intimità dei desideri e delle passioni, così come accade in Julie, protagonista del romanzo epistolare La Nuova Eloisa. Julie assomiglia molto al passeggiatore solita- rio nel suo bisogno di avere attorno a sé persone felici per essere a sua volta felice. Per

100 Ivi, pp. 305-306. 101 Ivi, pp. 254-267.

lei è infatti impossibile pensarsi separatamente da un ordine etico e sociale che la vede immersa nel mondo anche quando lontana fisicamente dagli uomini. La ricchezza del continuo scambio intersoggettivo, reso nel romanzo grazie alla presenza di più punti di vista, mostra come la fisionomia di ognuno possa cambiare in seguito allo scambio co- municativo con l’altro. Julie, come il passeggiatore delle Fantasticherie, insegue, fin dall’inizio, l’ideale della felicità: esso, pur essendo meta naturale dell’uomo, spesso conduce di fronte ad ostacoli che sollecitano coraggio e capacità di lottare, così come avviene nella conquista della virtù.

La Nuova Eloisa appare come un sogno di riconquista della trasparenza, che nel-

la società sembra sempre più impossibile: la comunità di Clarens, influenzata dallo spi- rito magnetico di Julie, è formata da relazioni sincere e mai opache, come quella fra Ju- lie e la sua amica Claire, o quella dei figli di Julie con la propria madre: educati come Émile, essi sanno seguire liberamente le inclinazioni del loro cuore senza mascherarlo, conservando così i tratti originari del loro carattere e mostrando senza sforzo tutta la lo- ro anima. E l’apertura dei cuori aumenta man mano che il romanzo procede, permetten- do ai personaggi di conoscersi meglio e di fidarsi l’uno dell’altro in modo da ricreare un’unità perfetta dove sembra che nessuna volontà particolare possa isolarsi da quella generale. Tutti si rendono perfettamente visibili e nonostante questo conduca a un’alienazione totale, come nella società del Contratto Sociale, ognuno conquista la propria esistenza come persona indipendente e libera; non esisterà più la solitudine au- spicata dal passeggiatore perché qui ogni individuo è riconosciuto dall’altro in un clima di benevolenza generale. La solitudine è amata dal passeggiatore Jean-Jacques in quanto sinonimo di autonomia e libertà individuale, ma in una società fondata su giusti principi essa non si rende più necessaria per accedere a questa dimensione di indipendenza: sarà anzi proprio la vita sociale della comunità a permettere all’uomo di diventare un essere morale e libero.