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Partnership e vantaggio competitivo nei settori innovativi. Il caso Netflix

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di economia e

management

Corso di Laurea Magistrale in

Marketing e ricerche di mercato

Anno Accademico 2016/2017

Tesi di Laurea

Partnership e vantaggio competitivo nei

settori innovativi. Il caso Netflix

Relatore

Antonella Angelini

Candidato

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Sommario

Introduzione ... 2

Capitolo1 – Il valore della relazione ... 6

Paragrafo 1 – Marketing Relazionale, fedeltà e satisfaction. ... 6

Paragrafo 1.2 - Il valore delle relazioni, Customer equity... 16

Paragrafo 2 – Il valore per il cliente... 19

Paragrafo2.1 – La catena mezzi fini ... 25

Paragrafo2.2 – La misurazione del valore per il cliente ... 30

Paragrafo 3 - Network e vantaggio competitivo ... 31

Paragrafo 3.1 – La partnership ... 35

Paragrafo 4 – Content Marketing. ... 38

Paragrafo 5: Il mondo digitale ... 43

Capitolo 2: Netflix ... 49

Paragrafo 1: L’arrivo di Netflix ... 50

Paragrafo 2 – Il passaggio all’over the top ... 58

Paragrafo 3 – La produzione originale ... 65

Paragrafo 4 – Social CRM e Partnership ... 71

Paragrafo 5 – SWOT analysis ... 75

Capitolo 3: Ricerca sui consumatori Netflix ... 85

Paragrafo 1 – Introduzione alla ricerca ... 85

Paragrafo 2 – I risultati della ricerca. ... 86

Paragrafo 3 – Qualità del sito WEB e della piattaforma. ... 98

Paragrafo 4 – Qualità dei contenuti ... 99

Paragrafo 5 – Qualità della relazione ... 102

Paragrafo 6 – Limiti ... 104

Paragrafo 7 – Conclusioni sulla ricerca ... 105

Considerazioni finali ... 108

Bibliografia ... 110

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Introduzione

Al giorno d’oggi viviamo in un mondo in cui si parla sempre più di processo di digitalizzazione, dove la maggior parte dei servizi offerti dalle aziende sono rinvenibili anche on line. Questo fenomeno ha dato a molte aziende la possibilità di spostarsi sul piano digitale nonché di utilizzare i social media come mezzo attraverso il quale erogare i servizi e vendere prodotti, risparmiando però sui costi connessi.

L’allargamento degli ambiti di mercato continua a generare un forte incremento dell’intensità competitiva, sia perché aumenta il numero complessivo di competitors, sia perché i ritmi incalzanti della competizione impegnano le imprese in uno sforzo di previsione, adattamento e innovazione continui che si traducono in una costante crescita e/o variabilità delle risorse necessarie al sostegno del processo competitivo. Le nuove “regole del gioco”, imposte alla competizione dalla “virtualizzazione” del mercato, spingono le organizzazioni alla ricerca di livelli sempre più alti di efficacia e di efficienza (Giulivi, 2001).

Questa evoluzione consente di svolgere tradizionali e innovative manovre di marketing: tradizionali, in quanto ci troviamo davanti a nuovi consumatori che, comunque, subiscono un processo di segmentazione,

targeting e posizionamento; innovative, in ragione della circostanza che,

pur essendo un nuovo contesto, è possibile fare leva su nuovi concetti di marketing, tra i quali, il content marketing e il relationship marketing. In realtà, quest’ultimo è un concetto già diffuso da tempo risalendo le prime definizioni di marketing relazionale alla fine anni’80. Esiste una confusione tra il termine “relationship marketing” e il fenomeno reale in quanto un termine è semplicemente un’etichetta del fenomeno, ma non il

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fenomeno in quanto tale (Gummesson, 2002). In altre parole, Relationship

Marketing e Costumer Relationship Management (CRM) sono parole

nuove che definiscono però un fenomeno antico.

Per quanto concerne il content marketing, ovvero marketing dei contenuti, questo rappresenta un concetto più recente, che, in breve, prevede la creazione e condivisione di media e contenuti editoriali al fine di acquisire clienti e monetizzare un sito web.

Nella cornice descritta finora, le aziende, per affrontare la competizione, hanno costruito delle alleanze e delle partnership, fino a creare network di organizzazioni con il fine di raggiungere un vantaggio competitivo nel lungo termine. Oltre alle partnership, l’elemento da considerare allo scopo di raggiungere il vantaggio competitivo è l’analisi del valore. In quest’ottica, il valore è analizzato sia attraverso il punto di vista del cliente, ovvero il valore percepito, sia in riferimento alle relazioni che l’azienda costruisce con il cliente medesimo (valore della relazione). Inoltre, anche le relazioni tra le organizzazioni presenti nel network, non possono ritenersi trascurabili al fine di comprendere quelle che sono le dinamiche che determinano suddetto vantaggio.

Nell’esaminare il citato valore bisogna prendere in considerazione il concetto di qualità percepita dal cliente e di come questo si relaziona con la percezione di valore.

Se da un lato c’è stato un processo di trasferimento dal piano “analogico” a quello digitale, dall’altro lato si sono delineate nuove opportunità e nuovi tipi di servizi. Tra questi, lo streaming.

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Aziende come Netflix hanno puntato sull’innovazione per raggiungere quei livelli di efficacia e di efficienza sopra descritti ed è, pertanto, l’esempio perfetto di come l’innovazione abbia rivoluzionato questo settore.

La società in esame presenta tutte le caratteristiche finora descritte.

Se da un lato è caratterizzata da elementi innovativi e dall’altro è presente sul piano digitale in quanto fornisce i propri servizi online, tutto questo è stato reso possibile grazie alle numerose partnership/collaborazioni che l’azienda ha messo in atto.

La ricerca effettuata si concentra sulla percezione della qualità della piattaforma Netflix, dei contenuti offerti - distinguendo contenuti acquisiti da quelli prodotti dalla compagnia stessa – e, inoltre, si è cercato di comprendere in che modo la società utilizza, soprattutto attraverso i social media, leve relazionali con i clienti.

La percezione di qualità si compone di tre aspetti: la qualità del sito web/piattaforma, la qualità dei contenuti e la qualità della relazione tra l’azienda e utenti.

Da qui, analizzando il valore e la qualità percepita dal consumatore Netflix, in base alla interpretazione dei dati, è stato possibile esaminare i livelli di

satisfaction e di loyalty.

Una porzione della ricerca, inoltre, si è soffermata sulla comprensione dei motivi che portano un consumatore a non sottoscrivere l’abbonamento, andando così ad analizzare le ragioni che spingono i clienti verso

competitors della società in esame. Per il cui approfondimento si rimanda

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Capitolo1 – Il valore della relazione

Paragrafo 1 – Marketing Relazionale, fedeltà e satisfaction.

Il marketing relazionale è un concetto che si è diffuso alla fine degli anni’80. È basato sull’interazione in un network di relazioni (Gummesson). Da qui, si possono individuare quelli che sono i concetti principali in questo ambito: le relazioni, i network e le interazioni.

Le relazioni possono essere di vario tipo (gli studi di Gummesson analizzano 30 relazioni), ma quella di base è rappresentata dal binomio fornitore-cliente.

Il network è un insieme di relazioni che può crescere fino a costituire un modello complesso.

Nel network, ma anche nelle relazioni semplici, le parti entrano in contatto l’una con l’altra, definendo così l’interazione.

È chiaro che il marketing relazionale sia uno strumento utilizzato spesso nell’ambito b2b, ma ha applicazioni soprattutto nei servizi e da alcuni anni a questa parte anche nel b2c, affermandosi come un approccio generale al marketing. Esistono molte definizioni di marketing relazionale1, ma tutte

possono essere accomunate dall’uso di termini come “creazione e mantenimento delle relazioni” (Gummesson, 2002). Inoltre, un altro aspetto che emerge è quello “win-win”, ovvero quello dove entrambe le parti (acquirente e venditore) ricevono benefici dalla relazione.

Ecco alcune definizioni di Marketing relazionale:

1Si fa riferimento al testo “Marketing relazionale” di E. Gummesson, dove vengono presentate varie

definizioni di marketing relazionale operate da Berry, Gronroos, Porter, Ballantyne, Jackson, Morgan e Hunt, e dallo stesso Gummeson.

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1)Gummesson, (2002): Il marketing relazionale è basato sull’interazione in network di relazioni.

2)Berry (1983): Il marketing relazionale consiste nell’attrarre, mantenere ed estendere le relazioni con i clienti

3)Jackson (1985): Il marketing relazionale è il marketing per ottenere, costruire e mantenere forti e durature relazioni con i clienti industriali. 4)Gronroos (2000): Lo scopo del marketing è di identificare, stabilire, mantenere, accrescere e, se necessario, interrompere le relazioni con i clienti in modo da raggiungere gli obiettivi, economici e non, di tutte le parti coinvolte […]

5)Morgan e Hunt (1994): Il marketing relazionale si riferisce a tutte le attività di marketing dirette a stabilire, sviluppare e mantenere scambi relazionali di successo.

6)Porter (1993): Il marketing relazionale è il processo per cui entrambe le parti -l’acquirente e il fornitore- stabiliscono una relazione efficace, efficiente, piacevole, entusiastica ed etica: una relazione che risulti gratificante sia sotto il profilo personale e professionale, sia sotto quello della redditività.

Il passaggio dal marketing tradizionale al marketing relazionale è stato graduale. Si è passato gradualmente, infatti, da un marketing incentrato sulla produzione, poi sulle vendite e infine sulla relazione.

Confrontando i due tipi di marketing, quello tradizionale e quello relazionale notiamo una differenza già a partire dall’obiettivo che ci si pone. Mentre il marketing tradizionale è focalizzato sulla transazione,

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quello relazionale lo è sulla relazione. Se il primo è caratterizzato da un approccio basato sull’azione, il marketing relazione è caratterizzato da un approccio basato sulla interazione.

Il marketing relazione, a differenza di quello transazionale/tradizionale, è proiettato sul lungo termine, con la strategia di fidelizzare il cliente e non di acquisirne di nuovi. Il focus è incentrato sulle attività post-vendita (attraverso anche il CRM) anziché sulle attività pre-vendita. Infine il marketing relazionale punta sulla qualità della interazione, invece che sulla qualità dell’output in sé.

In conclusione il marketing relazionale, opposto a quello di transazione, enfatizza la fedeltà del cliente, mentre un approccio di marketing transazionale, non ha alcuna ambizione a “salire la scala della fedeltà”. Invece per quanto riguarda la definizione di CRM, essa deriva proprio da quella di Marketing relazionale. CRM è l’acronimo per Customer

relationship management e si intende quella strategia, o insieme di

strategie, volta/e alla gestione di tutte le interazioni con i clienti, potenziali ed esistenti. Citando alcuni degli stessi autori ripresi per le definizioni di Marketing relazionale abbiamo:

1)Gummesson (2002): Il CRM si basa sui valori del marketing relazionale –con un’enfasi sulle relazioni con il cliente- e consiste nella loro traduzione in strategie e in applicazioni pratiche.

2)Pricewaterhouse Coopers (1999): Il CRM è una strategia commerciale – un atteggiamento verso i dipendenti e clienti- che è supportata da determinati processi e sistemi. L’obiettivo è costruire relazioni a lungo

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termine attraverso la comprensione delle esigenze e delle preferenze individuali, e aggiungere in questo modo valore all’impresa.

3)Eggert e Fassot (2001): L’e-CRM comprende l’analisi, la pianificazione e la gestione delle relazioni con i clienti con l’aiuto dei mezzi di comunicazione elettronici, specialmente internet, al fine di mettere in primo piano clienti selezionati.

Un elemento fondamentale all’interno dell’ambito delle relazioni è la fedeltà. Sono da considerare imprescindibili gli studi sul brand loyalty e quelli sul customer loyalty.

I primi studiosi si sono concentrati sull’analisi “strutturale” del fenomeno, cioè come esso si manifesta e come identificarlo. In questo modo si sono definite diversi tipi di fedeltà: “quella esclusiva, quella che si direziona

verso più marche contemporaneamente, quella instabile (fedeltà a più marche alternata), e l’infedeltà (Costabile, 2002). Nel corso del tempo e

degli studi, diversi autori hanno evidenziato una precisa distinzione tra

fedeltà comportamentale e fedeltà mentale, in questo modo si esclude il

comportamento di riacquisto come elemento del brand loyalty. Assael, in particolare, ha definito la fedeltà come un atteggiamento favorevole verso una marca che si configura in conseguenti acquisti ripetuti, e considera la fedeltà come il risultato dell’apprendimento del consumatore circa la capacità della marca di soddisfare le sue aspettative.

Gli studi sulla fedeltà si sono concentrati su due argomenti:

1) i comportamenti di fedeltà a una o più marche, caratterizzata da livelli variabili di sostituibilità/complementarità (Wind,1997; Jacoby e

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Chestnut,1978; Vicari,1978; Wernerfelt,1991; Keaveney,1995), e quindi l’esame dei problemi connessi alla misurazione della fedeltà e dell’infedeltà.

2) la fedeltà “mentale” e quindi le percezioni, gli atteggiamenti e le convinzioni che possono determinare le diverse forme di fedeltà, sopra descritte.

Quindi il primo argomento fa riferimento al comportamento di riacquisto, con la conseguente produzione di diversi modelli per la loro misurazione. Ad esempio, la percentuale degli acquisti, la loro sequenza e la probabilità di acquisto, utili a misurare analiticamente il fenomeno. I modelli più utilizzati sono il Customer retention rate e il Churn Rate. Per analizzare invece la fedeltà esclusiva, sono stati sviluppati indici e misurazioni “relative alla penetrazione, ossia il numero di clienti che hanno acquistato la marca in un dato periodo “t”, rapportato al numero di clienti che hanno acquistato una qualsiasi marca nel medesimo intervallo; altre la frequenza, ossia il numero di acquisti per cliente della marca aziendale in “t” rapportato al numero di acquisti per cliente di qualsiasi marca sempre in “t”; altre l’esclusività, ossia il numero di clienti che in un dato periodo “t” hanno acquistato solo la marca aziendale rispetto al numero di clienti che nel medesimo periodo “t” hanno acquistato qualsiasi marca” (Costabile, 2002).

Altri autori si sono dedicati alla misurazione della infedeltà, e si focalizzano sull’analisi dei rapporti di sostituibilità tra le marche, utili a definire il grado di fedeltà dei clienti.

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Relativamente all’ambito relazionale, tutti gli studi sulla fedeltà comportamentale ci dicono poco sullo stato effettivo delle relazioni con il cliente2.

Riguardo al secondo argomento (fedeltà mentale), invece, sono stati elaborati tipi di modelli che esaminano entrambe le dimensioni, quella comportamentale e quella mentale/cognitiva. Grazie ai contributi di Wind, abbiamo un modello composito che classifica la dimensione cognitiva grazie ai livelli di customer satisfation verso una determinata marca, e quella comportamentale misurata dal tasso di riacquisto della medesima marca.

In effetti la matrice di Wind identifica 5 tipologie di clienti: i fedeli, gli abituali, gli occasionali, gli infedeli accessibili e gli infedeli, ma inaccessibili.

2 Nel testo “Il capitale relazionale” di M. Costabile, viene spiegato come diverse ricerche dimostrino che

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Figura 1 - Matrice di Wind

Dick e Basu (1994) hanno proposto di misurare la dimensione cognitiva della fedeltà attraverso una valutazione che il cliente esprime con riferimento alla superiorità/inferiorità della marca acquistata con maggiore frequenza rispetto alle alternative considerate.

Se la matrice di Wind identifica cinque tipologie di clienti, questo nuovo modello identifica quattro diverse forme di fedeltà. Agli estremi della matrice, atteggiamento relativo positivo e ripetizione d’acquisto elevata, e atteggiamento relativo negativo e ripetizione bassa. Nei quadranti 2 e 4 della matrice indicata in figura 2, si trovano le fonti di “vera fedeltà”3 e

infedeltà. Nei quadranti 1 e 3, invece si rilevano: forme di fedeltà latente, intesa come una combinazione di elevata fedeltà mentale a cui non corrisponde una fedeltà comportamentale di uguale misura nei confronti di

3 Nel testo “Il capitale Relazionale” di M. Costabile, l’autore attribuisce tale definizione a Jacoby e

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una determinata marca; oppure forme di fedeltà “spuria”, che rappresentano forme di fedeltà non sostenute da chiari nessi causali, quali ad esempio soddisfazione, fiducia o coinvolgimento.

Figura 2 - Matrice di Dick e Basu

Gli studi relativi alla fedeltà come una condizione di forte coinvolgimento al riacquisto, o al riutilizzo, di un prodotto o di una marca, sono stati effettuati da Oliver, che ha definito il concetto di customer loyalty. Essa considera un coinvolgimento che va oltre le eventuali influenze situazionali e concorrenziali che potrebbero causare comportamenti di infedeltà. L’autore ha proposto un ulteriore distinzione tra le varie forme di fedeltà. Egli ha distinto la fedeltà situazionale, “che consiste nella scelta ponderata di una certa marca solo in determinate situazioni” (Costabile, 2002), dalla fedeltà proattiva che caratterizza scelte costanti verso una marca. Quest’ ultimo tipo di fedeltà definisce secondo Oliver la customer loyalty. Per raggiungere questo tipo di fedeltà ci sono quattro step da rispettare. Al primo stadio il cliente è fedele cognitivamente, cioè dimostra solo una

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conoscenza superficiale della marca. Solo in seguito a ripetuti acquisti che, secondo Oliver, si sviluppa la seconda forma di fedeltà, ovvero quella affettiva. In questo caso vi è un atteggiamento favorevole che il cliente matura verso la marca, in seguito alle ripetute conferme di aspettative. Con il trascorrere dei riacquisti e del tempo, si raggiungono livelli più intensi di fedeltà. In questi livelli la fedeltà diventa prima conativa, cioè caratterizzata da un forte coinvolgimento e poi proattiva, ovvero quel tipo di fedeltà sostenuta da forti motivazioni e da quel desiderio di superare qualsiasi tipo di ostacolo presente sulla strada della decisione ad acquistare la marca alla quale si è fedeli.

La customer loyalty rappresenta un elemento a cui le relazioni di mercato dovrebbero puntare. Se il cliente è fedele e leale, egli condurrà atteggiamenti e comportamenti corretti e cooperativi, secondo il principio di reciprocità. La customer loyalty si può intendere come una fase del ciclo di vita della relazione. Secondo la logica del marketing relazionale, il valore delle relazioni con i clienti conduce allo sviluppo di flussi di cassa e di patrimonio intangibile. Solo con la lealtà cioè può accadere. L’insieme di atteggiamenti cooperativi e collaborativi, di fedeltà e di ripetizione di acquisto determina il capitale relazionale (Costabile, 2002).

Nel descrivere la customer loyalty, finora, non si è parlato di come ottenerla. Lo strumento a cui ci si riferisce è la customer satisfaction. Numerose sperimentazioni hanno rilevato che la principale determinante della fiducia è proprio la soddisfazione cumulata nel tempo.

La ricerca degli studiosi, che si sono occupati di questa materia, è stata motivata dal fatto che manca un approfondimento analitico dei fenomeni che caratterizzano il comportamento della domanda, una volta esercitata la

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preferenza di una marca. Gli studi di psicologia della personalità condotti da Hopper e da Lewine, “hanno posto le basi concettuali e metodologiche per lo sviluppo del paradigma della conferma/disconferma delle aspettative, divenuti poi riferimento teorico per l’analisi della customer satisfaction” (Costabile, 2002). Infatti, tale paradigma, applicato ai processi valutativi post-acquisto, fa dipendere la percezione di soddisfazione/insoddisfazione dal confronto tra aspettative e percezioni, ovvero valore atteso versus valore percepito (Costabile, 2002). Emerge quindi la natura relativa di tale costrutto e una stretta connessione all’autostima. La fiducia sarebbe, infatti, un pregiudizio generato da una sequenza di conferme o disconferma delle attese di comportamento (performance) che, al suo estremo razionale, si concretizza in una probabilità assegnata al verificarsi di un dato comportamento di una definita controparte.

Le sperimentazioni sulla customer satisfaction hanno condotto all’elaborazione di modelli definiti Gap model, proprio a sottolineare la natura sottrattiva della soddisfazione. Quindi tali studi hanno dimostrato che dalla relazione tra fra aspettative e percezioni di performance ha origine la soddisfazione relativa ad uno specifico atto di acquisto o di consumo. E che queste esperienze di soddisfazione, ripetute nel tempo, generano una percezione d’affidabilità dell’impresa, che si ricollega al concetto di qualità percepita. In questo modo vengono influenzate le decisioni di riacquisto e la fedeltà.

Alcuni autori (2016) hanno evidenziato la presenza di una significativa relazione tra coinvolgimento del consumatore e il brand equity (la letteratura è concorde nel ritenere che il valore del brand nella prospettiva del consumatore – customer-based brand equity - possa essere determinato

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e misurato in base agli effetti di marketing attribuibili unicamente al brand stesso; più nel dettaglio, esso corrisponde al capitale accumulato dalla marca attraverso tutte le passate operazioni e investimenti di marketing; nella nota definizione di brand equity proposta da Aaker (1991), il valore della marca esprime “l’insieme delle risorse - o dei costi - legate al nome e al simbolo della marca che si aggiungono al - o devono essere sottratti dal - valore che un bene o servizio fornisce ai clienti di un’impresa e alla stessa impresa”) e la customer loyalty.

L’obiettivo di questo studio è stato quello di ricercare il collegamento tra il coinvolgimento per la relazione attraverso il brand equity e il brand loyalty. I partecipanti di questo studio sono stati selezionati tra i consumatori che hanno acquistato smartphone in Taiwan, e sono state condotte indagini individuali.

I risultati di questa ricerca mostrano che il coinvolgimento dei consumatori e il brand equity hanno un significativo legame con la customer loyalty. Il coinvolgimento media anche la relazione tra brand equity e customer

loyalty. Ciò significa che entrambe, brand equity e customer involvment

ricoprono un ruolo rilevante nel determinare la percezione dei clienti della fedeltà.

Paragrafo 1.2 - Il valore delle relazioni, Customer equity

Per valutare quanto valore i clienti portano all’azienda/impresa, si può far ricorso alle numerose matrici relative all’analisi del portafoglio-clienti. Questi strumenti permettono di effettuare una classificazione dei clienti, di avere una panoramica sulla loro posizione di mercato e i potenziali di

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crescita. In termini di margini e in termini di fatturato, vi possono essere quattro diverse alternative di posizionamento cliente.

Figura 3 - Customer equity riferita al valore attuale

Data la figura 3, il “quadrante 1” identifica i clienti che hanno il valore più alto e sono definibili come clienti STELLE, in maniera analoga alla definizione della matrice BCG.

Il “quadrante 2”, individua i clienti CHILDREN, proprio per indicarne la piccola dimensione. Quest’ultima comunque non pregiudica il contributo positivo che essi portano all’azienda/impresa in termini economici.

Il “quadrante 3”, identifica i clienti MARGINALI, che ricoprono una posizione modesta in termini di fatturato e redditività per l’azienda impresa.

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Nel “quadrante 4” abbiamo i clienti AGGRESSIVI, poiché, assicurando il raggiungimento del Break Even Point, possono assumere il suddetto atteggiamento aggressivo in termini di prezzo e servizi richiesti.

Le analisi economico-finanziarie sul portafoglio clienti possono essere ulteriormente approfondite in base ai ricavi e ai costi che questi generano per l’impresa. A tal proposito, ogni cliente potrebbe godere di particolari politiche promozionali e quindi generare specifici costi che rendono difficile inquadrare il tipo di cliente dal punto di vista economico.

Dal punto di vista analitico, è possibile calcolare il valore attuale del cliente “come risultato dell’attualizzazione dei flussi di cassa prospettici, più il calcolo dei margini e dei flussi di cassa, le stime dell’orizzonte temporale lungo il quale è probabile che tali grandezze economiche finanziarie abbiano manifestazione” (Costabile, 2002).

In base ai contributi di Wayland e Cole, sotto il profilo della Customer

Equity è possibile definire il valore del cliente pari a:

𝐶𝐸 = ∑(𝑄𝑡𝑀𝑡)𝑑𝑡 𝑛 𝑡=1 − ∑(𝑆𝑡 + 𝐹𝑡)𝑑𝑡 − 𝐴 1 𝑛 𝑡=1

Dove “Q” rappresenta il valore degli acquisti al tempo “t”, “M” quello dei margini, “d” il tasso di attualizzazione, “S” i costi di sviluppo della relazione, “F” quelli di fidelizzazione ed “A” i costi di acquisizione che in teoria sono sostenuti solo al periodo “1”.

Riguardo ad “S” ed “F”, i due autori non ne chiariscono la differenza. In linea di massa, “F” rappresenta l’insieme dei costi da sostenere per

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mantenere elevati livelli di customer satisfaction e gestire la relazione nell’ottica della customer loyalty.

Mentre “S” sono i costi da sostenere per sviluppare la share of customer, ricorrendo ad attività di cross selling, trading up e di estensione della relazione in altri ambiti di business.

Paragrafo 2 – Il valore per il cliente

Tra le varie definizioni di valore, quella proposta da Zeithaml (1988) è quella più citata. Secondo tale definizione, il cliente basa le proprie percezioni di valore relative a un prodotto sul confronto tra ciò che riceve e ciò che dà. Abbiamo quindi due componenti: una componente “get” e una componente “give”. La prima si riferisce in senso lato ai vantaggi di natura funzionale, psicologica, sociale, esperienziale che una data alternativa di offerta fornisce al cliente. La seconda componente, invece, comprende gli oneri monetari e non monetari che il cliente deve sostenere per ottenere tali benefici.

Gli oneri descritti riguardano i costi:

- Informativi e valutativi, legati alla raccolta e alla elaborazione dei dati che influenzano il processo di scelta;

- Di reperimento, legati al raggiungimento del punto di vendita dove reperire il prodotto selezionato;

- Di acquisto, relativi al prezzo pagato;

- Di apprendimento, relativo alle conoscenze da acquisire per trarre il massimo valore d’uso dal prodotto/servizio acquistato;

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- Di esercizio e di manutenzione, attinenti al funzionamento e alla conservazione del prodotto;

- Di obsolescenza, collegati al decadimento del valore economico, tecnico e simbolico del prodotto.

- Di dismissione, rappresentati dalle spese di riciclaggio, di gestione dei rifiuti.

Il valore per il cliente si traduce quindi, come già detto, in due componenti: la prima componente è relativa ai benefici ricercati nel prodotto, mentre la seconda ai costi di acquisizione dei benefici.

Analizzando la definizione fornita del valore per il cliente, emergono alcune caratteristiche di seguito specificate:

- Soggettività: le percezioni e le preferenze relative a tali attributi dipendono da variabili individuali.

- Relatività: il valore di una data offerta per il cliente è sempre oggetto di una comparazione con sostituti diretti e indiretti, comunque in grado di soddisfare i medesimi bisogni.

- Dinamicità: “le determinanti del valore per il cliente sono soggette a una continua trasformazione, imputabile non soltando al progresso tecnologico, alla capacità innovativa delle imprese, all’evoluzione dell’individuo o all’insorgere di nuove esigenze funzionali, ma anche al dinamismo delle unità culturali e alla sempre maggiore complessità sociale, che agisce con effetti moltiplicativi sulla varietà e sulla variabilità delle motivazioni di acquisto” (Bruno Busacca, 2009).

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Un’altra caratteristica è la multidimensionalità. Nel senso che l’impresa, per potere agire efficacemente sui vari tipi di benefici e costi, deve potenziare l’offerta facendo riferimento a numerosi attributi, siano essi tangibili o intangibili.

Le caratteristiche del valore per il cliente hanno delle implicazioni manageriali.

La multidimensionalità del valore porta le aziende a compiere indagini e ricerche in grado di rappresentare al meglio la varietà delle dimensioni del valore.

La soggettività rappresenta il punto di riferimento fondamentale per la segmentazione della domanda.

La relatività porta l’azienda a estendere l’analisi del valore per il cliente verso tutti i benchmark competitivi all’interno del contesto esaminato. La dinamicità, porta l’azienda ad una misurazione sistematica che serve a reperire le informazioni necessarie che portano a ricostruire ed anticipare la dinamica evolutiva delle esigenze dei clienti.

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Figura 4 - Il valore per il cliente: caratteristiche distintive e implicazioni manageriali

Il valore per il cliente rappresenta un importante elemento per la definizione della soddisfazione del cliente. La differenza tra valore desiderato e valore percepito definisce il cosiddetto gap di valore, il quale può essere considerato un indicatore di sintesi della soddisfazione dei clienti. Più è grande questo gap, meno sarà la soddisfazione.

Le aziende devono quindi lavorare nell’ottica di eliminare il gap di valore. Le principali modalità di annullamento del gap di valore sono rappresentate da:

- Riduzione delle aspettative del cliente;

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- Modifica dei criteri di scelta e delle preferenze del cliente;

- Rafforzamento del sistema di offerta.

La prima modalità risulta spesso difficilmente applicabile, in quanto implica il riconoscimento dell’incapacità dell’impresa di accrescere la propria value proposition per mantenere le promesse che ne hanno determinato la scelta.

Invece, risultano più praticabili le azioni da parte dell’impresa nell’ambito del rafforzamento del sistema di offerta e della modifica della configurazione del valore desiderato dal cliente. Ad esempio, il rafforzamento del sistema di offerta può essere perseguito attraverso l’incremento dei benefici offerti o nella riduzione dei costi che il cliente è chiamato a sostenere per acquisire tali benefici.

Il secondo punto, invece, è possibile manipolarlo attraverso leve legate alle mappe delle percezioni, attraverso l’elaborazione dei giudizi espressi dai soggetti su un insieme di scale di attributi. Viene effettuato una sorta di incrocio tra mappa delle percezioni e mappa delle preferenze. In questo modo si può verificare la corretta percezione degli attributi di prodotto, l’esistenza di vuoti di offerta, gli ambiti concorrenziali rilevanti e la loro dinamica evolutiva (Bruno Busacca, 2009).

Per quanto riguarda, invece, il cambiamento delle convinzioni del cliente, si fa riferimento al gap di percezione. Esso viene identificato quando vi è una divergenza tra valore realmente ottenibile dagli attributi dei prodotti offerti e il valore percepito dal cliente.

Tale gap è il frutto di una inadeguata comprensione del sistema percettivo dei clienti che sfocia in una errata politica di comunicazione.

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Figura 5 - Il gap di percezione

Risulta consequenziale come il concetto di valore sia correlato al concetto di qualità. La qualità è la capacità di un bene di ottemperare ai requisiti (del cliente) prestabiliti, ovvero l’insieme delle caratteristiche di una entità (prodotto tangibile o intangibile, servizi) che ne determinano la capacità di soddisfare esigenze espresse ed implicite. La natura soggettiva della qualità esprime la stretta connessione con il concetto di soddisfazione del cliente e il legame tra essa e il valore per il cliente.

Per essere utile, al pari di ogni grandezza, la qualità relativa ad un prodotto, processo, servizio, persona, deve poter essere misurata.

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La misura della qualità consiste nel valutare quanto un prodotto è lontano da quello ideale: per farlo occorre quindi considerare le caratteristiche richieste dal cliente e costruire un metodo che permetta di misurarle.

Spesso un determinato prodotto, o un servizio, presenta peculiarità tali da rendere altamente improbabile l'individuazione di parametri assoluti e quindi oggettivi che lo qualificano.

Nei casi in cui la qualità non è valutabile direttamente, potrà essere stabilita a priori una metrica ripetibile di riferimento, talvolta basata su misure soggettive. In altri casi, la valutazione della qualità è semplice ed è basata su metodi ben definiti (tra i mezzi utili per la misura della qualità di un processo produttivo, ci sono i metodi statistici).

Paragrafo2.1 – La catena mezzi fini

L’impresa puà accrescere il valore percepito dai clienti, ma deve identificare quali modalità mettere in alto per questo accrescimento.

Uno studio del sistema motivazionale può fornire un quadro più chiaro sulle variabili relative ai valori individuali, ai benefici offerti e agli attributi del prodotto/servizio.

Il ruolo svolto dagli attributi del prodotto nella formazione delle preferenze dipende dalla loro connessione con uno o più benefici, ma l’importanza attirbuita a tali vantaggi è a sua volta riconducibile ai valori condivisi dall’individuo.

Il valore, in quest’ottica, non è più da considerarsi come una mera differenza tra ciò che si riceve e ciò che si da, ma come obiettivi di ordine più elevato.

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La catena mezzi-fini si sviluppa attraverso un processo di risalita attraverso tre livelli. Tali livelli sono rappresentati:

- Dagli attributi del prodotto;

- Dai benefici che il cliente può trarre da tali attributi;

- Dai valori individuali che riflettono gli obiettivi perseguiti dal cliente sul piano sia dei comportammenti e della considerazione sociale sia dell’autostima e delle condizioni di esistenza.

Gli attributi del prodotto possono essere distinti in (Olson e Reynolds, 1983):

- Attributi concreti, prevalentemente unidimensionali, oggettivamente misurabili e direttamente connessi alle caratteristiche intrinseche del prodotto.

- Attributi astratti, prevalentemente multidimensionali (definiti cioè da più attributi concreti), non oggettivamente misurabili e non necessariamente connessi alle caratteristiche fisiche del prodotto (Bruno Busacca, 2009).

Per quanto concerne i benefici che si ricercano nel prodotto, essi possono essere classificati in base a due dimensioni, relativi ai vantaggi ricercati e alla capacità del cliente di specificare la natura di tali vantaggi.

Secondo la figura 6 possiamo identificare due dimensioni: una verticale e una orizzontale.

Nella dimensione verticale dello schema possiamo differenziare i beni di natura funzionale a quelli con natura psico-sociale. In questo modo vediamo come la ricerca di benefici di natura funzionale porta la scelta di un prodotto con attributi che possono influenzare il rapporto qualità

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prezzo del sistema di offerta. Nel caso opposto, si accresce la centralità degli attributi astratti e intangibili.

Figura 6 - Schema per la classificazione dei benefici ricercati dal cliente

La dimensione orizzontale dello schema rappresentato viene posta invece la distinzione tra benefici impliciti ed espliciti.

I benefici esplici sono collegabili a motivazioni consce, le quali sono facilmente individuabili dalle imprese e sono, difficilmente, opportunità traducibili in vantaggi concorrenziali di lungo periodo (Bruno Busacca, 2009).

I benefici impliciti sono collegati invece a motivazioni delle quali il cliente non possiede piena consapevolezza e a esigenze percepite ma non mostrate ( per esempio a causa di ragioni psicologiche). Questa dicotomia influenza i metodi di analisi del sistema cognitivo del consumatore e il potenziale competitivo dell’impresa nel fornire un’adeguata risposta alle aspettative di domanda (Bruno Busacca, 2009).

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Infine, al livello più alto della catena mezzi fini sono collocate le associazioni relative ai valori individuali. Questi sono definiti come “rappresentazioni mentali di importanti obiettivi che il cliente vuole raggiungere nella vita” (Olson, 1990). Essi si possono dividere in due tipologie:

- Valori strumentali-esterni, legati alle condotte apprezzate dal gruppo sociale di riferimento;

- Valori terminali-interni, legati all’autostima e alle condizioni di esistenza.

Sul piano pratico, per definire la catena mezzi-fini bisogna ricorrere a tecniche di indagine qualitative volte a consentire la massima libertà di espressione al soggeto intervistato. Un approccio di questo genere consiste nell’intervista in profondità, definita anche laddering interview. Le affermazioni dell’intervistato vengono elaborate ed interpretate ai fini dell’indagine.

Di seguito due figure che esplicano la connessione tra la laddering

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Figura 7 - Un esempio di catena mezzi-fini

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Paragrafo2.2 – La misurazione del valore per il cliente

Alla luce dei benefici ricercati, dei costi a questi connessi, delle informazioni provenienti da varie fonti e delle esperienze maturate, il cliente sviluppa un insieme di convinzioni in merito agli attributi che caratterizzano le alternative di offerta considerate, organizzandole in strutture cognitive più o meno articolate. Basandosi su ciò, il cliente definisce aspettative di valore, le quali vengono organizzate in una gerarchia di preferenze e in definiti orientamenti comportamentali (intenzioni di acquisto).

Ai fini della customer-based view, si richiede che le aspettative e le percezioni di valore maturate dal cliente, siano quantificate e misurabili.

Gli approcci di misurazione per la quantificazione del valore per il cliente, si distinguono in misurazioni desk e field4. Le prime considerano i benefici

(maggior vantaggio o minor costo) oggettivamente osservabili. Le seconde, invece, implicano l’utilizzo di specifiche ricerche di mercato sia qualitative sia quantitative. Tali ricerche, ad esempio, vengono utilizzate per la costruzione di catene mezzi-fini.

La differenza tra misurazioni desk e field è rappresentata dall’impiego di risorse, sia sul piano economico che organizzativo, e dai tempi di attuazione. Quindi, nella scelta dell’approccio bisogna dunque porre attenzione a questo trade-off, alla luce di risorse disponibili e della rilevanza strategica delle decisioni che verranno assunte sulla base dei risultati della misurazione (Bruno Busacca, 2009).

4 Per approfondimenti sulle metodologie si rimanda al testo “Customer Value” di B. Busacca e G. Bertoli,

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Questi approcci forniscono la stima di valori monetari. Tali valori non corrispondono a prezzi effettivamente praticabili dall’impresa, ma identificano l’estremo superiore dell’intervallo dei prezzi possibili. In effetti, i prezzi identificati rappresentano il cosiddetto consumer surplus, ovvero, il differenziale di valore che motiverebbe la scelta della marca o del prodotto nella cui prospettiva è stata condotta la misurazione.

Paragrafo 3 - Network e vantaggio competitivo

Nel parlare di relazioni, non si può non trattare l’argomento network. Da una visione tradizionale, dove ogni singola organizzazione cerca di affermare la propria posizione e la propria indipendenza, si passa ad una visione di insieme più armoniosa. Le aziende accettano l’interdipendenza e la collaborazione con altre organizzazione, al fine di accrescere il valore di tutte le parti coinvolte.

Le aziende possono raggiungere livelli di innovazione e di performance più elevati quando passano da una mentalità competitiva ad una collaborativa. Il nuovo orientamento volto alla partnership è caratterizzato da una alta dipendenza tra le parti, alti livelli di fiducia, equità, lealtà, coinvolgimento e supporto.

Porter (1993) parla di interrelazioni; la realizzazione pratica di queste interrelazioni non è semplice per molte imprese. Le ragioni sono da ritrovare in vari fattori: i costi di condivisione fanno sì che alcune interrelazioni non incrementano il vantaggio competitivo e che, quindi, non dovrebbero essere realizzate, ma, laddove vi è un incremento del vantaggio competitivo, tali interrelazioni devono essere perseguite e realizzate.

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Per ogni organizzazione posizionarsi sul mercato e ricavarsi un bacino d’utenza nel proprio settore comporta un grado più o meno elevato di competizione, dato che non esiste caso in cui nessun altro avrà interesse a colpire lo stesso target di riferimento.

Riuscire a partecipare a questa “gara” puntando ad eccellere e a mantenere nel tempo i risultati raggiunti implica necessariamente la predisposizione e l’implementazione di una serie di strumenti e strategie per differenziarsi dai competitors e resistere ai loro “attacchi”.

Il vantaggio competitivo è la sintesi di tali strumenti e strategie: ogni azienda deve definire, creare e, successivamente, mantenere il proprio vantaggio competitivo, garantire performance “migliori” di quelle dei concorrenti e rendere il più complesso possibile replicarne le caratteristiche, se vuole eccellere nel proprio settore.

Vi sono varie definizioni di network:

Granovetter (1973) definisce il network come business groups uniti fra loro in modo formale ed informale da un livello intermedio di legami.

Borgatti (2003) li definisce come una forma organizzativa caratterizzata da scambi ripetuti tra organizzazioni semi-autonome che interagiscono fra loro sulla base di relazioni sociali tese alla protezione delle transazioni e la riduzione dei costi.

Alter e Hage (1993) definiscono i network come gruppi di organizzazioni, collettivi privi di gerarchia legalmente indipendenti ad orizzonte temporaneo medio/lungo.

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Da queste definizioni emerge la natura orizzontale delle relazioni che collegano le organizzazioni presenti all’interno del network.

Le organizzazioni orizzontali di aziende aiutano a comprendere che unendo gli sforzi di più individualità si possono raggiungere risultati importanti. L’organizzazione gerarchico funzionale o piramidale ha rappresentato per lungo tempo il modello prevalentemente usato. All’interno di tale struttura il “decision- marketing” è demandato al top management. Tutte le altre attività e operazioni sono raggruppate nei livelli sottostanti sulla base di una comunanza di elementi e aspetti relativi alle specifiche mansioni svolte. Ciò significa che i lavoratori sono divisi in differenti dipartimenti funzionali con poca collaborazione e comunicazione fra loro. Quanto più è maggiore la dimensione aziendale, più sono distanti i vertici della struttura cui è demandata la gestione, il controllo, il coordinamento delle operazioni, e il resto dei lavoratori, collocati sui piani gerarchici inferiori. Questi tipi di struttura sono caratterizzati da stabilità e prevedibilità.

Con le nuove esigenze di mercato, si è sviluppata il network che ha attribuito alle organizzazioni caratteristiche di flessibilità e complessità, ponendo l’accento sulla collaborazione e sulla condivisione totale delle informazioni, delle conoscenze e delle competenze.

Eliminata la gerarchia verticale, la struttura organizzativa a rete è disegnata attraverso flussi e processi di lavoro orizzontali. I lavoratori sono organizzati in squadre autonome ed i membri provengono da diverse aree funzionali. I principi cardine di questo nuovo modello sono una formazione continua, apertura e uguaglianza. Ogni individuo all’interno dell’organizzazione è “engaged”, e all’interno dell’organizzazione stessa è

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possibile costruire una rete di relazioni che porta l’individuo a esprimere il proprio potenziale.

Come ogni cosa, anche questo modello presenta pregi e difetti. Per quanto riguarda i pregi, questo permette all’imprese di ottenere vantaggi competitivi, di tipo economico (vedi economie di scala), e di costo. Attraverso la rete anche la piccola impresa può ottenere capitali finanziari, informazioni e materie prime a condizioni vantaggiose. Inoltre anche le piccole organizzazioni possono competere con i grandi colossi nel mercato di riferimento.

Per quanto riguarda i difetti, sono da considerare alcuni rischi di carattere generale legati alla perdita di controllo e coordinamento, dal dominio del know-how e dalla eccessiva dipendenza dei partner.

Negli ultimi anni, le vicende di alcune aziende hanno evidenziato altri possibili limiti del modello reticolare. Nel caso di Amazon e Apple5, per

esempio, se da un lato le risorse umane dovrebbero essere il cuore di tale modello organizzativo, basato sulla collaborazione tra i dipendenti e sulla forte attenzione che essi pongono ai bisogni del cliente, dall’altro lato, paradossalmente, sembra che l’attenzione al cliente venga realizzata a scapito del benessere dei dipendenti cadendo così nel vecchio modello industriale ottocentesco (tayloristico) dello sfruttamento dei lavoratori. Infatti, una recente inchiesta del New York Times ha

denunciato Amazon per lo sfruttamento dei dipendenti i quali sono monitorati e stimolati a lavorare un numero di ore sempre maggiore sino a

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80 ore settimanali in virtù della prima regola dell’azienda: l’ossessione del cliente.

Anche Apple è stata denunciata da Shanghai Evening Post, BBC e

Panorama per lo sfruttamento dei lavoratori asiatici. In particolare, il

complesso Pegatron Shanghai, partnership di Apple, è stato denunciato per la violazione dei diritti dei lavoratori quali: il mancato pagamento dei salari, la discriminazione delle modalità di assunzione in base al sesso e all’etnia, le eccessive ore lavorative, il ritardo nel pagamento dei salari, la detenzione dei documenti di identità da parte delle agenzie di reclutamento per impedire di lasciare la fabbrica.

In altri casi, come Google e Valve, sebbene l’azienda abbia veramente a cuore il benessere dei dipendenti, allo stesso tempo presenta alcuni limiti nelle fasi di assunzione e valutazione delle risorse umane. In particolare, esse demandano tali fasi principalmente a dipendenti in base alla filosofia secondo la quale se collaborazione ed “engagment” sono gli elementi cardini di tale struttura, allora saranno gli stessi dipendenti a valutare queste qualità nei nuovi assunti e nei colleghi.

Paragrafo 3.1 – La partnership

Il concetto di partnership implica un nuovo approccio nei rapporti fornitori-clienti, il quale è basato su relazioni stabili e trasparenti.

Il rapporto di partnership si basa su una mutua dipendenza a medio-lungo termine allo scopo di raggiungere un costo obiettivo, garantendo qualità, puntualità, affidabilità ed innovazione in funzione del soddisfacimento del cliente finale (Roveda, 2006).

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La partnership non è più una mera alleanza con interesse economico, ma un qualcosa legato all’innovazione. Questo fattore è essenziale in un mercato sempre più dinamico e globalizzato. La tecnologia moderna si evolve velocemente e comporta la necessità di espandere le proprie conoscenze e gli investimenti. Molte aziende stanno ricorrendo sempre più all’outsourcing, beneficiando delle competenze dei propri fornitori, specialmente se con essi hanno instaurato un rapporto stabile di partnership. La maggior parte delle grandi imprese produttive prevede all’interno del proprio organico un reparto di progettazione e sviluppo con lo scopo di scoprire idee e soluzioni innovative da tradurre nei prodotti e nei servizi. Le altre, nello specifico quelle medio-piccole, non hannno grandi risorse interne dedicate al processo innovativo. Una strada percorribile per questo ultimo tipo di imprese è proprio quella di stringere accordi e entrare nella mentalità “partnership”.

Il rapporto fornitore-cliente si è evoluto e si sta evolvendo notevolmente a causa delle nuove esigenze del mercato. È diventato imperativo, quindi, ricercare quei vantaggi competitivi che portano l’azienda in una posizione preminente rispetto ai concorrenti e di fornire prodotti/servizi sempre più innovativi.

La partnership porta le parti coinvolte a condividere i rischi, le perdite e i profitti. Ciò porta i partner ad avere un differente atteggiamento che si traduce in:

- Una visione proiettata al medio-lungo termine;

- Un rapporto fornitore-cliente più trasparente e condiviso da tutti i livelli aziendali;

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- Un approccio preventivo ai problemi e seria disponibilità a soluzioni concordate;

- Un comportamento flessibile, durante il corso della fornitura, a trattare modifiche tecniche, di processo e tempi di consegna;

- Una condivisione delle perdite e dei profitti per abbassare i margini di rischio;

- Un’auspicabile compartecipazione agli investimenti e all’innovazione.

L’azienda cliente deve seguire alcune linee guida per avviare un rapporto di partnership. Innanzitutto deve definire i propri obiettivi strategici con chiarezza e verificare le motivazioni del futuro partner affinchè siano in linea con i propri obiettivi. In seguito, bisogna fissare le regole di rapporto e contrattuali, impostare relazioni personali forti e trasparenti, assumere atteggiamenti flessibili nell’adattarsi alle aspettative del partner e stabilire gli indicatori per misurare la soddisfazione del rapporto.

I vantaggi che scaturiscono da un rapporto di partnership con un fornitore porta benefici a sé stessi e al partner in relazione al livello di integrazione. I vantaggi del cliente sono legati all’ambito logistico (rispetto dei tempi di consegna, flessibilità, approvigionamenti più veloci), alla qualità (sicurezza, miglioramento qualità), ai costi (riduzione prezzo di acquisto, minori costi di industrializzazione) e agli indotti ( utilizzo know-how fornitore, disponibilità informazioni).

Analogamente anche il fornitore trae vantaggi legati alla ottimizzazione della pianificazione e ad una maggiore efficienza nella produzione, al

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controllo del processo produttivo e al miglioramento del sistema qualità, alla riduzione degli oneri da scorte e costi qualità, all’efficienza delle risorse e degli impianti utilizzati, con relativo potenziamento del know-how e della flessibilità gestionale.

Paragrafo 4 – Content Marketing.

Il marketing tradizionale sta diventando sempre meno efficace, ed è così che se ne delineano nuovi tipi.

“Il content marketing è un approccio di marketing strategico focalizzato sulla creazione e distribuzione di contenuti di valore, rilevanti e consistenti, al fine di attrarre e mantenere un chiaro e definito pubblico”6.

Invece di lanciare nuovi prodotti o servizi, l’azienda/impresa fornisce contenuti utili ai clienti. Talvolta, i contenuti sono anche volti a risolvere alcuni problemi dei clienti stessi. In questa ottica i contenuti rappresentano il core del marketing.

Numerose organizzazioni nel mondo fanno uso del content marketing, dalle più grandi, come P&G, Microsoft, Cisco Systems, and John Deere, alle più piccole imprese. Infatti, specificamente, ci sono tre ragioni chiave – e benefici – per le aziende/imprese che utilizzano il content marketing:

- Aumento delle vendite - Cost saving

- Migliori clienti che sono più fedeli.

L’ambito di applicazione del content marketing è davvero vasto e bisogna considerarlo come parte di un intero processo e non come parte a sé stante.

6 “Content marketing is a strategic marketing approach focused on creating and distributing valuable,

relevant, and consistent content to attract and retain a clearly defined audience” – “http://contentmarketinginstitute.com/what-is-content-marketing/”

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Ad esempio, prima delle fasi di social media strategy, o durante i processi di ottimizzazione dei motori di ricerca (SEO – Search Engine Optimization), i quali premiano le aziende/imprese con contenuti di qualità e consistenti.

“Content Marketing is king”7 è il nuovo slogan che si sta diffondendo: i

digital marketer e le aziende hanno scoperto l’importanza di utilizzare il

contenuto di qualità, (in grado di educare, spiegare, divertire, informare, intrattenere) per attrarre visitatori, aumentare contatti qualificati e contratti, generare fatturato, fidelizzare i clienti e trasformarli in promotori spontanei del proprio brand.

Sebbene questo fenomeno sia molto più presente all’estero, anche il mercato italiano sta iniziandosi ad approcciare a tale materia. Le nostre PMI e i professionisti, si sono accorti che il web è una risorsa importantissima. Considerando che nel mercato nazionale italiano, il commercio elettronico si aggirava nel 2014 attorno al 5% del fatturato globale, ed oggi le previsioni di crescita per il 2017 sono intorno al 20%8, possiamo comprovare l’importanza di internet nell’ambito aziendale.

Le motivazioni per cui si ricorre a questo tipo di marketing sono molteplici: - I mercati sono tornati conversazioni ed il potenziale cliente non cerca pubblicità martellanti, non cerca spot ammiccanti, non cerca cartelloni o volantini, ma vuole qualcosa di più in grado di legarlo alla azienda 7 http://www.argoserv.it/content-marketing-definizione/#Il_significato_del_content_marketing_il_contenuto_da_solo_e_sufficiente 8 http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2017-02-24/accelera-mercato-dell-e-commerce-italia-131003.shtml?uuid=AECGfmc&refresh_ce=1

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- Il cliente va attratto. Si passa dalle tecniche pubblicitarie di tipo interruttivo a strategie meno invasive.

- La dimensione dell’azienda è relativa. Il budget non è più una discriminante anche se creare un contenuto non è a costo zero (basti pensare alle sponsorizzazioni sui social network a pagamento).

- C’è dialogo e co/creazione con i clienti. Si parla di partecipazioni dei clienti che diventano “consum-attori”, che partecipano alla attività della azienda e diventano essi stessi produttori di contenuti (UGC -

User generated content -).

Secondo Alberto Maestri (2015), è possibile utilizzare la regola giornalistica delle 5W per mettere in atto un corretto progetto di marketing dei contenuti.

Who: quali aziende possono impegnarsi in progetti di contenuto?

Why: perché il content marketing fa bene al business d’impresa?

What: quali sono le tipologie di contenuto digitale più interessanti?

Where: dove distribuire i digital contents?

When: quali sono le migliori strategie di timing in fatto di Digital Content Marketing?

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Potenzialmente tutte le aziende possono cimentarsi in progetti di contenuto. Se è vero che le attività di comunicazione e marketing aziendale partono da una storia, è altrettanto vero che le stesse imprese sono il risultato di un processo storico ricco di significati e valori, i quali non richiedono altro che essere trasformati in contenuti digitali per poter raggiungere il network di stakeholder di riferimento.

WHY: perché il content marketing fa bene al business d’impresa? Nella sua accezione più immediata, il content marketing consiste nell’attività di progettazione, produzione e ottimizzazione di contenuti digitali che riescono a offrire un valore aggiunto all’utente che li fruisce. Essi dovranno per esempio comunicare informazioni nuove e/o coinvolgere i lettori, a seconda della declinazione del concetto di ‘valore’ per il brand o l’organizzazione in esame.

Continuando a progettare e ottimizzare contenuti digitali legati a uno o più specifici temi, le aziende riescono anche nel difficile compito di posizionarsi nella mente degli utenti come influencer, grandi esperte di tali argomenti. Con ottime conseguenze anche in termini di SEO.

L’obiettivo ultimo del marketing è la vendita. L’anima del marketing è commerciale, e il digital marketing non deve sottrarsi a questo obiettivo. L’impostazione di una corretta Content Strategy richiede tempo (dunque denaro), e deve perciò portare a specifici risultati definiti ex-ante.

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Una volta creato il contenuto è necessario creare un punto di contatto tra questi e la base di utenti potenziali. Per tale ragione, la scelta dei giusti

digital channels diventa fondamentale.

I primi canali che oggi vengono in mente per la loro diffusione globale e massiva sono sicuramente i social network: Facebook, Twitter, LinkedIn diventano luoghi virtuali ‘abitati’ da miliardi di persone che, se ben segmentate attraverso i giusti strumenti di monitoring e analytics, possono diventare efficaci leve di content distribution.

Ma oltre ai social network occorre ricordare anche i blog, che a dispetto delle tante dicerie si confermano sempre più utilizzati e in buona forma. Più potenti della maggior parte dei social network, direttamente controllabili dall’azienda e altamente personalizzabili, il loro ruolo all’interno della

Content Strategy è fondamentale.

WHEN: Quali sono le migliori strategie di timing in fatto di content marketing?

“I contenuti vanno diffusi nei momenti che riescono a intercettare il pubblico di potenziali fruitori online. Esistono tante ricerche in rete relative alla “Scienza del Timing”, che cercano di spiegare i giusti orari di pubblicazione.

Contenuti diversi richiedono tempi e sforzi differenti per essere prodotti e presentano caratteristiche eterogenee.

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Così, per esempio, mentre i blog post necessitano generalmente di poche ore per essere creati e pubblicati, le info-grafiche richiedono uno sforzo maggiore. Per esse va pensata una pubblicazione più rarefatta”9

What: definire il contenuto.

La scelta di cosa offrire dipende dalle esigenze del mercato: bisogna valutare quali sono gli argomenti che il segmento cerca e che possono aiutare l’attività di impresa.

Paragrafo 5: Il mondo digitale

Nel parlare di mondo digitale è impossibile non trattare l’argomento “tecnologia”.

Nuovi modelli di business, già dagli inizi degli anni 2000, si sono collocati nel mondo digitale, presentando modelli di business totalmente rivoluzionati.

In questi nuovi modelli, l’ubicazione è irrilevante, la decisione d’acquisto può essere presa in qualunque momento e in qualunque luogo e cosa principale, l’interazione con il cliente avviene su internet. Risulta ovvio che, se da un lato ci sono vantaggi relativi alla disponibilità di nuove strade da percorrere, dall’altro, instaurare un rapporto con il cliente e costruire la fiducia su questo rapporto diventa non semplice. Ed è per questo che il marketing relazionale ha avuto modo di diffondersi e di trovare spazio grazie proprio alla tecnologia e in particolar modo, grazie ai social media (SM).

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È possibile individuare quattro aree attraverso cui i social media si sviluppano:

- Social community, area che considera i canali media focalizzati sulle relazioni e sulle attività comuni, a cui le persone partecipano insieme ad altre che condividono lo stesso interesse (Social network, forum, wiki, etc.)

- Social publishing, area che considera i canali media che favoriscono la diffusione di contenuti verso il pubblico (Youtube).

- Social entertainment, ovvero l’insieme di canali e veicoli media che offrono opportunità di divertimento, tra cui giochi social, che supportano funzioni social (Alternate reality games, mondi virtuali). - Social commerce, area che utilizza i social media per favorire la

vendita e l’acquisto on line di prodotti e servizi (Yelp, TripAdvisor). Il passaggio al mondo digitale ha definito nuovi tipi di consumatori (cyber consumatori). In relazione ai social media possiamo parlare di consumatori social. Tutte le attività che svolgiamo on line e le informazioni che condividiamo, documentano la nostra identità digitale, ovvero il modo in cui rappresentiamo noi stessi sul web.

Ogni azione che compiamo in rete viene definita “foot print”, ovvero impronta. Possiamo lasciare l’impronta in tutte le quattro aree dei social media oppure anche in una sola.

Così come il consumatore “normale”, anche quello social è soggetto alla segmentazione:

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- Segmentazione geografica; una suddivisione per regione, paese, densità di popolazione e così via. La tecnologia aiuta questo tipo di segmentazione attraverso il GPS (Global Positioning System).

- Segmentazione demografica; la suddivisione avviene in base all’età, al genere, al reddito e ad altri fattori demografici.

- Segmentazione psicografica; in questo caso la suddivisione avviene in base alla personalità, alla motivazione, allo stile di vita e agli atteggiamenti, andando a considerare un quadro più particolareggiato.

- Segmentazione dei benefici; dalla definizione si intuisce che la suddivisione viene effettuata in base ai benefici che il consumatore cerca sul mercato.

- Segmentazione comportamentale; questo tipo di segmentazione suddivide i consumatori in base al comportamento che essi hanno nei riguardi di una specifica marca o una specifica categoria di prodotto. Anche qui la tecnologia web agevola la segmentazione grazie ai “cookies” e alle informazioni che essi raccolgono.

In conclusione, aprendo una piccola parentesi di stampo sociologico, possiamo constatare come i consumatori digitali siano stati identificati in nativi digitali e immigrati digitali (Digital Natives e Digital Immigrants).

Il primo a coniare queste due espressioni è Marc Prensky, scrittore statunitense, consulente e innovatore nel campo dell’educazione e dell’apprendimento, nato a New York il 15 marzo 1946.

Egli ci spiega come il profilo dei nativi digitali nasca parallelamente alla diffusione di massa dei PC a interfaccia grafica nel 1985 e dei sistemi

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operativi a finestre nel 1996. Il nativo digitale cresce in una società multischermo, e considera le tecnologie come un elemento naturale, non provando nessun disagio nel manipolarle e interagire con esse. Quindi, i nativi digitali sono per M. Prensky i soggetti che parlano la lingua della rete come lingua-madre, ovvero le giovani generazioni nate dopo il 1980 con le dovute differenze dovute all’ambiente di provenienza (contesto geografico).

Per contro, l’espressione “immigrato digitale” si applica ad una persona che è cresciuta prima delle tecnologie multimediali e le ha adottate in un secondo tempo.

Gli Immigranti digitali (o per meglio dire “nativi analogici”) manifestano un senso di inadeguatezza nell’uso delle nuove tecnologie. Però, spiega Prensky, che con un’assidua frequentazione potrebbero sviluppare comportamenti da nativi (digitali).

La distinzione è di tipo generazionale: i nativi sono immersi nel digitale sin dalla nascita (per loro è la norma), mentre gli immigrati hanno dovuto adottare le tecnologie e adattarsi pian piano, in età avanzata. In altre parole, hanno imparato col tempo ad abitare la rete.

Per capirci meglio i nativi digitali a differenza degli Immigrati digitali si espongono sui Blog o su “Youtube”, per esempio, vivendo sullo schermo, per esprimersi, per apparire, per comunicare e per stabilire relazioni sociali ed affettive. Il modo in cui vedono e costruiscono il mondo è differente.

Il consumatore social è al centro dell’analisi e delle ricerche, considerando l’importanza che essi stanno assumendo nel nuovo mondo digitale descritto

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finora. Forrester Research introdusse il concetto di social technographics, in base alle ricerche condotte sulle vite social e digitali dei consumatori. In questo studio, venivano individuati sei tipi di persone (tra quelle on line) in base al loro modo di interagire con i social media. Il risultato è una scala sulla quale vengono posizionate categorie di consumatori social.

Le categorie sono le seguenti:

- I creatori, i quali aggiungono valore al social web creando contenuti che possono essere condivisi con altri utenti.

- I conversatori, colore che parlano attraverso i social media di frequente.

- I critici, coloro che reagiscono ai contenuti invece che crearli.

- I collezionisti, la cui attività si basa sulla organizzazione, segnalazione e condivisione di contenuti online. Uno strumento che utilizzano sono i feed RSS.

- I socievoli, sono persone che hanno un profilo su uno o più social network e visitano questi siti con regolarita.

- Gli spettatori, i quali consumano i contenuti di altri, tenendo in un certo senso la propria identità nascosta.

- Gli inattivi, sono coloro che sono online ma non partecipano alle attività social. Passano tempo su internet ma evitano le comunità social.

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