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LA CONDIVISIONE DEI TEMPI DI VITA E DI LAVORO E GLI STRUMENTI DI CONCILIAZIONE

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PISA

CORSO DI LAUREA IN INFORMATICA

Tesi di laurea triennale

Attivazione di un sistema prototipale di gestione

del Catasto Strade per l'Isola d'Elba

Candidato:

Carlo Gherarducci

Tutor Accademico:

prof. Gualtiero Leoni

Tutor Aziendale:

Luciana Marzi Ciurli

U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni

TESI DI LAUREA

LA CONDIVISIONE DEI TEMPI DI VITA E DI

LAVORO E GLI STRUMENTI DI CONCILIAZIONE

RELATRICE

Prof.ssa Elettra STRADELLA

Candidata

Sandra SCARSELLI

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Indice

CAP.  1   LE  DONNE  TRA  LAVORO  E  FAMIGLIA   2  

1.1 Introduzione   2  

1.2 Il ruolo della donna lavoratrice nella Costituzione Italiana   5  

1.3 Il rapporto fra maternità e diritto del lavoro   8  

1.4 Diversità non disparità   16  

1.5 L’uguaglianza di genere in ambito europeo   23  

CAP.  2  LA  CONCILIAZIONE  DEI  TEMPI  IN  AMBITO  EUROPEO  E  NAZIONALE   29  

2.1 La conciliazione in ambito europeo   30  

2.1.1 La normativa comunitaria   32  

2.1.2 La giurisprudenza comunitaria   39  

2.2 La conciliazione in ambito nazionale   45  

2.2.1 La normativa nazionale   50  

2.2.2 La giurisprudenza costituzionale, di merito e di legittimità   64  

CAP.  3  STRUMENTI  DI  CONCILIAZIONE   71  

3.1 Servizi per l’infanzia   72  

3.2 Forme di lavoro flessibile   75  

3.2.1 Il part-time   75  

3.2.2 Dal telelavoro allo smart-working   78  

3.3 I congedi   87  

3.3.1 I congedi parentali   88  

3.3.2 Il congedo di paternità   92  

CONCLUSIONI   97  

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Cap. 1 LE DONNE TRA LAVORO E FAMIGLIA

1.1 Introduzione

Il principio di uguaglianza in connessione con il principio di parità di trattamento e di non discriminazione è uno dei valori comuni sui quali si fonda l’Unione Europea ed è un concetto che si ritrova declinato in tutte le Costituzioni degli Stati membri. Collegato allo scopo originario della Comunità Europea, la creazione di un mercato comune, il principio di uguaglianza, non a caso, si afferma nell’ordinamento comunitario nell’ambito dell’occupazione, al fine di garantire una leale concorrenza tra i produttori e i consumatori.

La parità di trattamento retributivo tra uomini e donne, sancita dall’art. 119 del Trattato di Roma, rappresenta il punto di partenza dell’ordinamento comunitario per l’affermazione del principio di non discriminazione, che oltre all’elemento “sesso”, nel tempo si evolverà comprendendo anche altri fattori quali la nazionalità, la razza, le religioni, le convinzioni personali, le disabilità e l’orientamento sessuale.

Tuttavia la disuguaglianza tra uomini e donne ha conseguenze importanti sul piano sociale, politico ed economico e, nonostante le tante pronunce giurisprudenziali e le tante norme, nonostante ad intervalli regolari venga inserita come questione di fondamentale importanza nell’agenda politica, il suo superamento è ancora lontano da realizzarsi.

Ridurre o addirittura riuscire ad eliminare le disuguaglianze di genere però è un obiettivo talmente importante che la questione si è imposta ad ogni tappa del processo di integrazione europea.

Il tema della condivisione tra i tempi di vita e di lavoro, oggetto di questa tesi, è strettamente legato alla questione della parità di genere, oltreché ovviamente al principio di uguaglianza e di parità di trattamento e di non discriminazione.

Il termine “conciliazione”, che etimologicamente significa mettere insieme parti diverse, entra nel dibattito sociale e politico, nazionale ed europeo, a cavallo fra gli

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anni Sessanta e Settanta, per rispondere all’esigenza di un bilanciamento tra la vita familiare e quella lavorativa.

Nasce in quel periodo l’idea di un diverso modello di società e di vita. Un modello nel quale, i tempi dedicati al lavoro di cura dovevano e potevano combinarsi con i tempi dedicati al lavoro retribuito.

Se il significato di lavoro retribuito è di facile intuizione, il concetto di lavoro di cura è sicuramente più articolato e denso di significato. L’espressione viene utilizzata per dare risalto, con un’esplicita connotazione di genere, all’attività svolta dalla donna nella famiglia, dopo il consueto lavoro fuori dalle mura domestiche. Il termine conciliazione chiarisce il difficile equilibrio tra il ruolo di donna come mamma e moglie e quello di donna lavoratrice.

In questi anni non viene messo in discussione l’assioma donna – casa – famiglia, semplicemente nasce l’esigenza di consentire alle donne che lavorano di potersi dedicare anche gli impegni domestici. Per fare questo vennero approvate norme atte a tutelare le donne ed altre atte ad evitare che fossero soggette a discriminazioni professionali.

A partire dagli anni ’90, anche a livello europeo si trovano i primi documenti ufficiali nei quali compare il termine “conciliazione”. Per lo più sono direttive, informative e raccomandazioni agli Stati membri affinché gli stessi, nell’ambito delle politiche sociali e per lo sviluppo dell’occupazione, portino avanti misure finalizzate sia all’integrazione delle donne nel mercato del lavoro che alla eliminazione di asimmetrie e disuguaglianze di genere, ma anche misure rivolte alla tutela del diritto del lavoro e al contempo alla tutela della famiglia.

Grazie alla Risoluzione del 2000 del Consiglio europeo dei ministri del Lavoro e Affari Sociali, in tema di “partecipazione equilibrata delle donne e degli uomini all’attività professionale e alla vita familiare e di contratto sociale di genere”, le politiche per la conciliazione vengono inquadrate nell’ambito di un’azione collettiva volta a realizzare condizioni paritarie tra donne e uomini.1

                                                                                                                         

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Ecco che la conciliazione dei ruoli di madre e di lavoratrice diviene condivisione delle responsabilità familiari, perdendo quella connotazione prettamente femminile. Entra in questo scenario una nuova figura: l’uomo.

Ciò che emerge dai documenti comunitari è che la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro è un tema strettamente collegato alla discussione che si svolge attorno all’eguaglianza per donne e uomini e che maternità e paternità devono essere viste e valutate come parte integrante dei diritti di cittadinanza sociale delle persone2.

Ecco perché un ragionamento sulla conciliazione/condivisione, oltre che da una riflessione sulla parità di genere, non può prescindere da una riflessione sul ruolo della donna lavoratrice e sul rapporto tra maternità e diritto al lavoro.

In questa sede ci si prefigge, senza pretese di esaustività, l’obiettivo, non meno ambizioso di fornire un inquadramento generale e complessivo sulla questione, anche attraverso l’analisi normativa e giurisprudenziale connessa al tema della conciliazione e degli strumenti che consentono un bilanciamento tra i tempi di vita e di lavoro.

La trattazione si articola, schematicamente, in tre distinti capitoli.

Il primo capitolo si sofferma sul ruolo della donna lavoratrice e sul difficile bilanciamento tra i tempi di lavoro e quelli della famiglia, soprattutto in relazione al tema della maternità e del diritto al lavoro.

Il secondo capitolo esamina la normativa europea e nazionale e i contributi della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, oltre che di quella di legittimità e di merito e della Corte Costituzionale sul tema della ripartizione dei doveri familiari e della genitorialità.

Il terzo e ultimo capitolo si concentra sugli strumenti individuati dal legislatore che consentono alla lavoratrice madre e al lavoratore padre di conciliare i tempi di vita e di lavoro fra i quali lo smart working e il congedo di paternità, recentemente introdotti e considerati più innovativi e in grado di rappresentare una prospettiva nuova per un vero cambiamento culturale.

                                                                                                                         

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1.2 Il ruolo della donna lavoratrice nella Costituzione Italiana

L’articolo 37 comma 1 della Costituzione Italiana espressamente recita “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”

Inserito nella parte prima della Costituzione, tale articolo, pur fotografando statisticamente il modello patriarcale della divisione dei ruoli sessuali, persegue due obiettivi importanti e ancora oggi di grande attualità.

Il primo obiettivo è porre termine alle discriminazioni fondate sul pregiudizio dell’inferiorità delle prestazioni delle donne, e per i commi successivi anche dei bambini, imponendo parità di retribuzione a parità di lavoro.

Il riconoscimento della parità tra uomo e donna in ambito lavorativo è espressione del principio fondamentale di uguaglianza tra i sessi e attuazione del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3 comma 2 della Costituzione medesima, secondo il quale devono essere rimosse quelle differenze che costituiscono ostacolo alla libertà e all’uguaglianza degli individui, impedendo il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione.

Ciò che si richiede di rimuovere, in questo caso, non è la differenza tra i sessi, bensì la discriminazione di genere, cioè la costruzione sociale, che a partire dalla differenza tra i sessi, costruisce limite concreto alla libertà e all’uguaglianza diventando ostacolo al pieno sviluppo della persona e alla partecipazione.3

Il secondo obiettivo riguarda invece la protezione della maternità già accordata dall’art. 31, secondo comma Cost. e, associate le funzioni familiari al genere femminile, riconosce la necessità che le condizioni di lavoro consentano l’essenziale funzione familiare predisponendo quindi garanzie speciali e una protezione adeguata per consentire lo svolgimento di entrambi i ruoli, sia quello di lavoratrice che quello di madre, senza necessariamente dover scegliere tra i due.

                                                                                                                         

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Il richiamo all’essenziale funzione familiare, frutto di un compromesso tra i costituenti4, sembra circoscrivere l’attività della donna nell’ambito della famiglia. In realtà la Costituzione, quale documento di carattere storico, rispecchia il pensiero di quel tempo e l’idea che vi fossero due sfere giuridiche separate, quella pubblica, incentrata sulla società civile, sul mercato e sull’apparato statale e quella privata, fondata su un modello di famiglia, dove al marito era demandato il compito di garantirne il sostegno economico e alla moglie affidato il ruolo riproduttivo e di cura della famiglia5.

Al tempo il Costituente, pienamente consapevole delle effettive condizioni del genere femminile, volle introdurre una tutela forte in favore della donna, da sempre considerata il “sesso debole”, la “mezza forza” della società contemporanea, simbolo dell’idea di soggetto svantaggiato6.

Tali obiettivi erano decisamente innovativi e ambiziosi per la realtà storica in cui si calavano, caratterizzata dalla spesso tacita presupposizione che il naturale compito femminile nella società fosse quello di madre.

Si usciva infatti da un periodo, quello fascista, in cui la donna viveva relegata entro le mura domestiche. Per inneggiare alla figura della donna madre e moglie, le donne prolifiche venivano insignite di apposite medaglie mentre i salari femminili erano fissati per legge alla metà di quelli corrispondenti degli uomini7.

I posti di vertice nelle scuole e nelle università venivano riservati agli uomini mentre le tasse scolastiche venivano fissate in misura più alta per le donne.

Nel pubblico impiego il Rdl n. 1554 del 1933 aveva stabilito la possibilità di inserire nei bandi di concorso limitazioni al lavoro femminile.8

                                                                                                                         

4 Seduta 10 maggio 1947, atti Assemblea Costituente, p. 3816 ss.

5 Rubio-Marin R., “The (dis)establishment of gender: Care and gender roles in the family as

a constitutional matter” in I CON 13-4, 2015, p. 787

6 Niccolai S., “I rapporti di genere nella costruzione costituzionale europea. Spunti a partire

dal Metodo aperto di Coordinamento”, in Politica del diritto, 2006 p. 588,

7 Archetti M., “Le scelte difficili delle donne”, Lulu edizioni, 2013, p. 13

8 Grecchi A., “Globalizzazione e pari opportunità. Una conciliazione possibile”, Franco

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La struttura sociale della famiglia era fortemente connotata dalla subalternità della donna: in famiglia il marito decideva su tutto, compresa la residenza, e sebbene potesse formalmente possedere beni in proprietà, la moglie rimaneva sottoposta alla custodia giuridica del marito al quale doveva chiedere l’autorizzazione per stipulare contratti o compiere transazioni di carattere finanziario.

Anche il Codice Penale confermava la posizione di svantaggio della donna prevedendo pene diverse, e più aspre rispetto a quelle dell’uomo, per alcuni reati nel caso in cui l’autore fosse una donna. Il dettato originario dell’art. 587 del codice penale consentiva una pena ridotta per chi al fine di salvaguardare l’onore suo o della famiglia avesse commesso un “delitto d’onore”. Le vittime designate erano esclusivamente di sesso femminile.

La chiesa, dal canto suo, riconosceva alla donna il solo ruolo di madre e di moglie9. Ebbene se questo era il contesto sociale in cui si trovò a legiferare l’Assemblea Costituente, è evidente quanto avveniristici fossero gli obiettivi contenuti nell’articolo 37.

La disposizione ha ricevuto attuazione normativa, a partire dagli anni Cinquanta fino ai giorni nostri, attraverso un’articolata serie di provvedimenti.

Inizialmente la finalità era di tutela, come il divieto di licenziamento durante la gravidanza e il primo anno di vita del bambino o l’obbligo di astenersi dal lavoro nei cinque mesi prossimi al parto, in seguito sono stati emanati provvedimenti la cui finalità era riconducibile al principio di parità di trattamento come la L. 903/1977 sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, o come la L. 125/1991 “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”,

                                                                                                                         

9 Soltanto con il Concilio Vaticano II (1962-1965) la Chiesa ha iniziato a riconoscere

l’importanza della presenza femminile nella società, sostenendo che “è venuta l’ora in cui la vocazione della donna si completa in pienezza, l’ora in cui la donna acquista nella società un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto” Messaggio di Paolo VI alle alle donne dell’8 dicembre 1965, anche se rimangono coloro che hanno “in dote la custodia del focolare”. Solo molto più avanti la Chiesa ha considerato positivi i passi compiuti dalla donna nella vita culturale, sociale, economica e politica “Le donne hanno pieno diritto di inserirsi attivamente in tutti gli ambiti pubblici e il loro diritto va affermato e protetto anche attraverso strumenti legali laddove si rivelino necessari” (Giovanni Paolo II “Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1995”)

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a sua volta modificata dal D.Lgs. n. 145/2005 e confluita poi nel D.Lgs. n. 198/2006 noto come codice delle pari opportunità, che aveva previsto l’adozione di misure specificatamente dirette a favorire il lavoro delle donne.

Fondamentale è stata anche la giurisprudenza costituzionale10 che a partire dalla fine degli anni Ottanta ha ritenuto che, per il raggiungimento del fine primario della garanzia ad un’adeguata assistenza al minore, fosse necessario l’accudimento e la cura di entrambe le figure genitoriali, estendendo anche ai padri lavoratori una serie di tutele che avevano visto fino ad allora destinatarie solo le donne.

Attuati dal legislatore e interpretati dalla giurisprudenza in un’ottica di espansione e adattamento ai mutati contesti socio-economici, i principi affermati dalla Costituzione repubblicana hanno rappresentato una novità nel percorso della storia costituzionale italiana11, attraverso la disciplina delle relazioni sociali tra i sessi in un’ottica di uguaglianza, di cui l’art. 37 è espressione.

Esso rappresenta una delle disposizioni con le quali si sono gettate le basi per una società più civile e più equa.

1.3 Il rapporto fra maternità e diritto del lavoro

Nella moderna società industrializzata, i motivi per i quali la donna, cosiddetto “sesso debole”, ha avuto bisogno di vedersi riconoscere a livello normativo forme di tutela rispetto all’uomo sono molteplici.

Ha pesantemente inciso la cultura, la tipologia di società, ed in parte anche la religione, ma sono stati soprattutto i motivi biologici, derivanti dalla naturale costituzione maschile e femminile e dalla funzione procreativa della donna, ad essere presi a giustificazione per questa “penalizzazione”.

Nel vocabolario comune la “maternità” è definita come la condizione dell’essere madre. La donna, da che mondo è mondo, nell’immaginario collettivo, è prima di

                                                                                                                         

10 Sentenze Corte Costituzionale nn. 1/1987, 341/1991, 179/1993, 385/2005.

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tutto o soprattutto “madre”, ma nel corso degli anni la funzione materna è stata spesso interpretata come unica forma di espressione femminile.

Certo esiste una innegabile specificità biologica, che differenzia la donna dall’uomo, la donna porta in grembo i figli, partorisce, allatta. A queste naturali differenze anatomiche è stata però implicitamente associata una condizione di subalternità della donna rispetto all’uomo.

L’ “essenziale funzione familiare” riconosciuta dall’articolo 37 della Costituzione ha finito per spiegare e giustificare la differenziazione degli obblighi e dei diritti fra i due generi, sulla base del presupposto che la donna sia essenzialmente madre, prima che lavoratrice, e introducendo un’inaccettabile gerarchia che subordina, per la sola donna, il ruolo lavorativo al ruolo familiare.12

In diverse culture ed epoche storiche la naturale funzione procreativa delle donne, associata alla diversa forza fisica fra i due sessi, ha fornito la giustificazione degli ostacoli giuridici e sociali al ruolo femminile.

La differenza di genere ha finito infatti per portare ad una divisione di ruoli, che ha determinato disuguaglianze, stereotipi e pregiudizi sulle caratteristiche intrinseche dei due generi, limitando il raggio d’azione della donna alla sfera domestica.

Nell’epoca rurale e artigianale, non vi era una netta separazione tra famiglia e lavoro, la casa era al contempo luogo di affetti, bottega, negozio e magazzino.

Con la prima industrializzazione quando le due dimensioni entrano in conflitto e creano stili di vita e culturali distanti tra loro, si inizia a lavorare nelle grandi fabbriche dove il lavoro è ripetitivo ma spesso anche pesante. Serve la forza fisica, servono gli uomini.

E se il mercato del lavoro si rivolge agli uomini, la donna, come naturale conseguenza, deve restare a casa, perché a casa ci sono i figli e ci sono sempre più vecchi.

                                                                                                                         

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Il modello dominante nella società borghese occidentale infatti assegna alla donna il lavoro casalingo non retribuito e la cura dei figli e all’uomo il lavoro extradomestico retribuito.

Le attività con una spiccata connotazione di genere come servire, nutrire, curare e mettere al mondo sono da sempre associate prevalentemente o esclusivamente alle donne13, mentre al modello maschile viene associato un ruolo attivo nella società. La dimensione del lavoro attribuita all’uomo legata ad un ruolo pubblico si contrappone a quella della famiglia attribuita alla donna e legata ad un ruolo privato. Il mondo del mercato, abitato in gran parte da uomini, associato al denaro, alla scelta, alla negoziazione, in netto contrasto con la famiglia, ha come contropartita la casa identificata con donne e bambini14.

Tutto questo entra in crisi, fondamentalmente per due concause: la prima legata ad un fattore culturale cioè l’affermazione di nuove e diverse sensibilità rispetto alle esigenze familiari, l’altra legata ad un fattore economico cioè la non sufficienza di un unico stipendio per una sopravvivenza dignitosa.

Da qui la necessità sempre più diffusa di un doppio reddito familiare e quindi di un lavoro retribuito anche da parte della donna.

La graduale inclusione delle donne nell’ambito lavorativo è stata favorita anche da una legislazione sempre più orientata al principio di uguaglianza e di non discriminazione, che ha messo in discussione la presunzione per cui le donne fossero naturalmente relegate alla sfera domestica e quindi subordinate all’uomo.

Oggi difficilmente esistono donne dedite solo al focolare, ma il rapporto tra maternità e lavoro continua tutt’oggi a configurarsi come uno degli aspetti più critici. In una società profondamente nuova riaffiorano problemi troppo vecchi.

La presenza femminile nel mercato del lavoro negli ultimi trent’anni è cresciuta in modo inarrestabile in tutte le società industrializzate per diversi motivi, compresa la

                                                                                                                         

13 Bellavitis A., “Il lavoro delle donne nelle città dell’Europa moderna”, Viella, Roma, 2016

p. 49

14 Rubio-Marin R., “The (dis)establishment of gender: Care and gender roles in the family as

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capacità delle donne di controllare la propria fertilità, l’espansione delle opportunità per le donne nell’istruzione e nell’occupazione e l’aumento della domanda di lavoro nel settore dei servizi15, tuttavia le opportunità di lavoro per le donne restano inferiori e meno vantaggiose da un punto di vista retributivo rispetto a quelle degli uomini. L’offerta di lavoro risulta spesso condizionata da persistenti differenze di fatto, conseguenti ad una ripartizione dei ruoli sociali molto rigida e ormai anacronistica.16 Il matrimonio e i figli accrescono per gli uomini le probabilità di trovare e mantenere un’occupazione, viceversa per le donne i medesimi eventi biologici riducono la loro disponibilità ad un lavoro extradomestico e ancora di più le opportunità di impiego e di carriera anche per quelle donne che non hanno figli ma che, per il semplice fatto di essere donne, sono potenzialmente in grado di averne.

Tuttavia promuovere un modello familiare che sostituisca alla rigida specializzazione dei ruoli di genere l’assunto che sia gli uomini che le donne siano “cittadini lavoratori”, implica che si trovino risposte al problema della crisi nelle forme di cura, come divario tra la domanda di cura che cresce, essenzialmente per il cambiamento demografico, e l’offerta di cura che si riduce e trasforma per i mutamenti della famiglia e delle modalità di partecipazione delle donne al mercato del lavoro17. Nonostante la pluralità di contesti e la diversità delle forme assunte dal lavoro femminile renda difficile una generalizzazione del fenomeno, i recenti dati Istat18 evidenziano che sul fronte dell’occupazione femminile, l’Italia resta agli ultimi posti. La quota delle donne occupate italiane risulta pari al 48,90% contro una media europea del 62,40% (fig.1.1). L’Italia è penultima fra i paesi europei precedendo solo la Grecia e a distanze abissali dai paesi scandinavi che oltrepassano il 70%.

                                                                                                                         

15 Haas L “Parental Leave and Gender Equality: Lessons from the European Union” in

Review of Policy Research, 1/2003, p. 89 ss.

16 Savino F. “Differenze di trattamento e giustificazioni legittime nella giurisprudenza della

Corte di Giustizia” in lavoro e diritti Fascicolo 3-4/2004, p. 580

17 Confalonieri M.A., Canale L. “Le politiche di conciliazione famiglia-lavoro” in “Tra

l’incudine e il martello – Regioni e nuovi rischi sociali in tempo di crisi”, Fargion V. e

Gualmini E. (a cura di), il Mulino, Bologna, 2012, ed digit. pag. 104

18 Pubblicazione digitale rilasciata da Eurostat “La vita delle donne e degli uomini in Europa

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Il dato italiano è sicuramente inferiore all’obiettivo che aveva auspicato il Consiglio Europeo a Lisbona nel 200019 di una percentuale di oltre il 60% di donne occupate entro il 2010, ma in questa situazione difficilmente potremo raggiungere un complessivo tasso di occupazione del 75% fissato dalla strategia Europa 2020.

Figura 1.1 Tasso di occupazione maschile e femminile 2017

 

 

Fonte:  Eurostat  

Eppure dalle rilevazioni statistiche il grado d’istruzione delle donne risulta più alto di quello degli uomini per qualsiasi tipologia di titolo di studio.

Estrapolando i dati relativi ai titoli di studio universitari (Fig. 1.2) vediamo che in quasi tutti i paesi appartenenti all’Unione Europea le donne sono mediamente più istruite degli uomini, registrando risultati significativamente migliori e con una tendenza nel tempo ad un incremento della loro performance relativa.

Nonostante il tasso di occupazione dei possessori di un diploma di istruzione terziaria sia di molto superiore al tasso di occupazione di coloro che hanno

                                                                                                                         

19 Risoluzione del Consiglio e dei Ministri incaricati dell’occupazione e della politica sociale,

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conseguito un livello di istruzione più basso, per le donne è comunque più complesso trovare una collocazione sul mercato adeguata al percorso di istruzione seguito. Se è vero infatti che l’aumento del livello di istruzione nel tempo contribuisce a spiegare una maggiore occupazione femminile, è necessario che le competenze acquisite siano opportunamente allocate sul mercato, altrimenti gli investimenti in istruzione non daranno i risultati sperati20.

Figura 1.2 Titoli di Studio 2017

Se poi analizziamo i dati relativi alla carriera, si vede come la posizione degli uomini sia generalmente più elevata di quella delle donne, con un forte divario relativamente alla figura dei manager (Fig. 1.3).

                                                                                                                         

20 Casarico A., Profeta P., “L’occupazione femminile tra cambiamenti recenti e sfide future”

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Figura 1.3. Occupati nella professione di manager             Fonte:  Eurostat  

Anche i differenziali salariali di genere sono evidenti, rilevando guadagni molto più alti per gli uomini.

Nella Fig. 1.4 vengono evidenziate le differenze retributive per le varie professioni in Italia.

Figura 1.4. Differenze retributive

   

 

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I dati Eurostat evidenziano come il divario di genere sia significativo in tutti gli Stati membri nonostante l’Unione Europea già dal 1997 avesse sottolineato la necessità di promuovere l’occupazione e la parità di opportunità tra donne e uomini richiamando l’esigenza di adottare misure volte ad incrementare l’intensità occupazionale della crescita, in particolare mediante un’organizzazione più flessibile del lavoro, che rispondesse sia ai desideri dei lavoratori che alle esigenze della competitività.21

Il rapporto tra curriculum di studi, di lavoro e identità di genere induce ad una riflessione anche senza appellarsi a disquisizioni puramente femministe.

Se guardiamo in particolar modo le percentuali relative all’Italia, ci accorgiamo come i dati siano alquanto scoraggianti.

In un contesto caratterizzato dal modello di divisione del lavoro “male breadwinner”, dove l’uomo è l’unico o il principale procacciatore di reddito, è lecito attendersi una diversa distribuzione di uomini e donne all’interno del mercato del lavoro in termini di stratificazione orizzontale e verticale22.

Se infatti la dimensione orizzontale della segregazione occupazionale viene definita come quel fenomeno che vede una sotto-rappresentazione delle donne in determinate occupazioni o settori professionali spesso legati a stereotipi sociali e ricalcati sui ruoli tradizionali del lavoro domestico e di cura, per cui le occupazioni a prevalenza femminile sono caratterizzate da profili professionali non elevati e con basse retribuzioni, la dimensione verticale si riferisce al fatto che gli uomini generalmente occupano posizioni più elevate con possibilità di aumentare remunerazione e prestigio, rispetto alle donne che risultano confinate in ruoli inferiori e svantaggiate nel percorso di carriera.

                                                                                                                         

21 La Direttiva 97/81/CE del Consiglio del 15 dicembre 1997 è stata pubblicata in GU L 14

del 20.1.1998

22 Piccitto G, “Soddisfazione lavorativa ed equilibrio casa-lavoro: un’analisi di genere” in

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La presenza di segregazione verticale evidenzia l’esistenza di un “soffitto di cristallo23”. Tale metafora è utile a rappresentare l’ostacolo insormontabile, una specie di barriera, anche se in apparenza invisibile che le donne incontrano nei luoghi di lavoro quando provano a fare carriera, e raggiungere quei ruoli di vertice caratterizzati da responsabilità e potere, riservati da sempre agli uomini non perché di maggior talento ma semplicemente per la loro appartenenza al genere maschile. Eppure una maggiore inclusione delle donne nel mercato del lavoro potrebbe potenzialmente far crescere il PIL europeo di circa il 27% e quello italiano del 32%24.

Ci possiamo chiedere cosa si nasconde dietro queste rilevazioni, questi dati così apparentemente contraddittori o quale sia la chiave di lettura di questi fenomeni. Probabilmente la quadratura del cerchio è ancora una volta il nostro dizionario comune, la maternità, la condizione dell’essere madre e il modo in cui viene culturalmente percepita dal mondo del lavoro.

1.4 Diversità non disparità

Il “gap di genere” è un termine di uso comune e si riferisce al divario esistente tra due generi in diversi settori.

Se il sesso restituisce il dato biologico della esistenza di uomini e donne, il genere identifica il dato culturale e sociale e quanto vi sia di socialmente determinato nella differenziazione tra uomini e donne.25

                                                                                                                         

23 Il soffitto di cristallo (glass ceiling) è un’espressione usata per la prima volta nel 1986 da

due reporter del “Wall Street Journal” per descrivere la barriera invisibile che impedisce alle donne di accedere a posti di maggiore responsabilità. (Carol Hymowitz, Timoty D. Schellhardt, “The Glass Ceiling: Why Women Can’t Seem to Break The Invisible Barrier

That Blocks Them From the Top Jobs” in “The Wall Street Journal”, 24 marzo 1986. In

Italia il termine usato per indicare questo fenomeno è comparso nel 1993 nel rapporto CNEL, intitolato “Evoluzione delle organizzazioni del lavoro e percorsi emergenti per le

donne”.

24 Bove E, Micci A.L. “Scovare i talenti nelle organizzazioni: le donne!” in Economia &

Lavoro fasc. 1/2016 pag. 171

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La necessità che il genere sia al “centro della corrente” cioè l’espressione “gender mainstreaming” si afferma a livello internazionale con la Conferenza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sui diritti della donna tenutasi a Pechino nel 1995.

Già da tempo l’ONU aveva portato all’ordine del giorno della comunità internazionale il tema della parità di genere, ma solo a Pechino con la Dichiarazione e il Programma di azione adottati dalla Quarta Conferenza dell’ONU si affermò la necessità di riconoscere e valorizzare la differenza del genere maschile e femminile, valorizzando l’esperienza, la cultura, i valori di cui le donne sono portatrici.

La Piattaforma d’azione individua dodici aree critiche per la promozione dei diritti della donna, ciascuna delle quali contiene un’analisi del problema ed una lista degli obiettivi rivolta ai Governi e agli attori economici e sociali.

La Conferenza di Pechino ruota intorno ai concetti chiave di “empowerment”, inteso non solo come potere e responsabilità alle donne nei centri decisionali ma anche come accrescimento della propria consapevolezza e delle proprie capacità, e di approccio di “gender mainstreaming” ovvero il riconoscimento della dimensione di genere e del punto di vista delle donne in ogni scelta politica, in ogni programmazione e in ogni azione di governo.

Ogni anno i rappresentanti dei Paesi membri delle Nazioni Unite si riuniscono a New York per valutare i progressi, identificare le sfide, definire gli standard e formulare concrete politiche per promuovere l’eguaglianza di genere e l’emancipazione femminile.

Ma evidentemente l’invito di coloro che avevano partecipato alla Quarta Conferenza a Pechino di “guardare il mondo con gli occhi di donna” non è stato sufficientemente raccolto: molte questioni di quelle appartenenti alle aree critiche rimangono tutt’oggi irrisolte.

Nonostante la parità tra i sessi non possa limitarsi ad una indicazione del numero di uomini e donne in determinati ambiti, essendo necessario, per poter effettivamente parlare di uguaglianza, di una compresenza nei luoghi di lavoro, di vita, di potere, di

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responsabilità e di decisioni, l’analisi dei dati statistici relativi alle percentuali di occupazione maschile e femminile, così come quelli relativi alla carriera piuttosto che quelli retributivi, fanno apparire la questione di chiara evidenza.

Fra i richiami alla parità e alle pari opportunità ed il quadro nei numeri vi è stata per anni una distanza abissale, resa ancora più stridente dalla distanza fra i numeri delle eccellenze e delle potenzialità femminili e quelli della realtà della presenza di donne in posizioni apicali.26

Il Global Gender Gap, promosso dalla World Economic Forum, è un rapporto che viene rinnovato annualmente dal 2006 con lo scopo di evidenziare l’ampiezza e la portata del divario di genere in tutto il mondo.

Il report infatti monitora il percorso verso il superamento del gender gap in 144 Paesi attraverso quattro indicatori: le opportunità economiche, l’istruzione, la salute e l’accesso alla politica.

L’Italia si trova al 70° posto nella classifica generale del 2018, facendo qualche progresso rispetto al 2017, ma rimanendo il fanalino di coda tra i maggiori paesi avanzati, e ad una distanza abissale dai paesi scandinavi.

Rispetto all’Islanda, paese particolarmente virtuoso sul tema della parità di genere che si colloca al primo posto della classifica generale, a portarci in basso sono soprattutto la partecipazione attiva alla politica, che rappresenta evidentemente il nucleo duro di autonomia e autodeterminazione statale anche nel contesto dell’ordinamento europeo, e l’indicatore economico27, in particolare il divario nello stipendio percepito a parità di tipologia di lavoro.

Il grafico a radar (Fig. 1.5) permette di confrontare il valore dello score per Italia e Islanda.

                                                                                                                         

26 D’Amico M. “La lunga strada della parità fra fatti, norme e principi giuridici” in Rivista

AIC 3/2013, p. 3

27 Stradella E. “L’eguaglianza sessuale tra hard law e soft law nel processo di

ravvicinamento tra legislazioni in Europa: pari opportunità e parità di trattamento nel lavoro” in Costituzionalismo.it Fasc. 2/2012 p. 8

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Figura 1.5 Gender Gap index: confronto Italia - Islanda

Nonostante la pressione esercitata dal movimento delle donne, dalla società civile e dalla legislazione europea, in molti settori l’Italia continua ad essere lontana dal raggiungimento di risultati soddisfacenti.

Tra l’altro lo scenario non pare destinato a migliorare nel breve periodo: benché nei primi anni caratterizzati dalla crisi economica, l’occupazione femminile abbia mostrato una maggiore tenuta rispetto a quella maschile, gli effetti della recessione si stanno ripercuotendo in maniera più significativa proprio sull’occupazione femminile a causa delle crescenti difficoltà del commercio e dei tagli del bilancio operanti nelle pubbliche amministrazioni al fine di ridurre il deficit pubblico, settori con un’ampia partecipazione femminile.28

Tuttavia progressi enormi sono stati fatti dalla seconda metà del novecento, momento storico importante caratterizzato da una serie di leggi e iniziative volte ad abbattere molti stereotipi sul genere femminile e ad eliminare quegli ostacoli che impedivano alle donne di raggiungere l’uguaglianza sostanziale prevista dalla Costituzione.

                                                                                                                         

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Il voto alle donne del 1946 e la loro, anche se esigua, presenza fra coloro incaricati dell’elaborazione del testo costituzionale ha consentito un apporto non indifferente nell’individuazione dei principi fondamentali, garantendo quel concetto di uguaglianza e parità tra uomo e donna che la nostra Costituzione sancisce fin dai primi articoli.

Ventuno donne furono elette all’Assemblea Costituente e solo cinque di loro29 esponenti di vari partiti entrarono a far parte della “Commissione dei 75” incaricata di redigere concretamente la Carta costituzionale. Come rappresentanti politiche elette, dettero voce e volto ai problemi femminili attraverso una collaborazione trasversale e moderna, indipendente dal loro schieramento politico, per l’affermazione nella Carta dei principi basilari di parità, cercando di realizzare un testo ispirato all’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini senza distinzione di sesso30. Il pieno ingresso delle donne nella sfera politica e nei luoghi della rappresentanza e il riconoscimento dei loro diritti politici come diritti inviolabili, oltre all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana il 1° gennaio 1948, ha permesso un cambiamento radicale delle condizioni di vita delle donne e degli uomini.

I risultati di tale cambiamento, possono sembrarci ovvi, ma se pensiamo che solo nel 1963 alle donne è stato consentito l’accesso alla carriera di magistrato fino ad allora vietata31, o solo nel 1981 è stato abolito il “delitto d’onore”, possiamo renderci conto di quanto tali conquiste facciano parte di un passato molto recente.

La conquista di diritti prima riconosciuti solo agli uomini trasformò le donne in cittadini politici ma non mutò il paradigma della donna dedicata principalmente alla famiglia.

Dobbiamo sottolineare che, a rendere non del tutto agevole il cammino verso una effettiva parità, sono intervenuti alcuni orientamenti delle Corti e le argomentazioni utilizzate dalle stesse per giustificare o meno le diversità presenti.

                                                                                                                         

29 Angela Gotelli, Maria Federici, Nilde Iotti, Angela Merlin, Teresa Noce.

30 Tedeschi E. Caloisi I., “Cultura di Genere: scenari e percorso” Edizioni TIA, 2013, p. 17

31 È con la legge 9 febbraio 1963, n. 66 che in Italia fu consentito l’accesso delle donne a tutte

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In un discorso conclusivo del Procuratore Generale della Corte di Cassazione relativamente alla volontà che avevano dimostrato le donne relativamente all’accesso alla carriera di magistrato, lo stesso Procuratore sostiene che le norme costituzionali non davano un utile sostegno a tale rivendicazione e che comunque la missione più desiderabile per una donna è all’interno della famiglia e nella maternità32.

In una sentenza del 195833 relativa alla composizione dei collegi giudicanti delle Corti d’Assise, la stessa Corte Costituzionale per giustificare la quota riservata al genere maschile di almeno il 50% dei giudici popolari ha ritenuto che l’evoluzione verso la parità di genere avrebbe dovuto essere graduale, potendosi di conseguenza riconoscere al legislatore di definirne progressivamente i confini.

Nel 1961 venne sollevata una questione di legittimità sull’adulterio femminile in base proprio agli articoli 3 e 29 della Costituzione. La Corte Costituzionale chiamata a sentenziare dichiarò infondata la questione facendo appello all’ambiente sociale e agli usi e costumi che vedevano nell’adulterio femminile un reato più grave.

E’ un’interpretazione molto simile a quelle dei primi del Novecento quando le leggi elettorali venivano interpretate a partire dall’inferiorità della donna, inferiorità socialmente e storicamente determinata, ma presentata come naturale34.

La Corte, in una sentenza del 196735, afferma che “la diversità della distribuzione  

degli oneri fra i due coniugi … si concreta nell'attribuire al marito (oltre che l'esclusività dell'esercizio della "patria potestà" sui figli) la titolarità di una "potestà maritale", alla quale connette una ampia serie di particolari poteri, tali da porlo in posizione di preminenza sulla moglie”.

Esempio ancora più manifesto della fatica e del ritardo con cui la stessa Corte Costituzionale assume la prospettiva anti-discriminatoria nei confronti delle donne36 è la sentenza 422 del 1995 allorquando la Corte colpisce della dichiarazione di

                                                                                                                         

32 Catelani E, Stradella E., “Equal opportunities and legal education: a mainstream

perspective” in European Journal of Legal Studies 2014 Vol 7 No 2 pag. 202

33 Sentenza C.C n. 56/1958

34 Pezzini B., “La costruzione del genere, norme e regole”, op. cit., p. 408

35 Sentenza C.C. n. 144/1967

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illegittimità costituzionale diverse disposizioni e in particolare l’art. 5.2 della legge 81 del 199337 che prevedeva che nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi potesse essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi.

Tale disposizione viene censurata in quanto incompatibile con il principio di eguaglianza formale attraverso l’introduzione di una misura volutamente diseguale che dà luogo a discriminazioni alla rovescia a danno del genere maschile38.

La Corte ritiene che spetti “invece al legislatore individuare interventi di altro tipo, certamente possibili sotto il profilo dello sviluppo della persona umana, per favorire l'effettivo riequilibrio fra i sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal momento che molte misure …possono essere in grado di agire sulle differenze di condizioni culturali, economiche e sociali.”39

La questione evidenzia come l’orientamento della interpretazione giudiziaria sia frutto dell’influenza del contesto sociale.

E’ pur vero che non tutti gli ordinamenti che vedono attribuite alle donne percentuali rilevanti di rappresentanza politica, hanno introdotto quote di genere a livello legislativo, costituzionale o su base volontaria partitica40.

In alcuni casi infatti il modello socio-culturale di effettiva uguaglianza rende superflue le quote, ma in paesi come il nostro dove la composizione di genere della classe politica è fortemente squilibrata, risulta fondamentale nonché necessaria una previsione normativa che elimini lo svantaggio iniziale e storicamente costruito del genere femminile, nella convinzione che una società democratica non possa dirsi tale se non garantisca una partecipazione paritaria di donne e uomini a tutti i livelli della società e della politica.

                                                                                                                         

37 L. n. 81/1993 Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio

comunale e del consiglio provinciale

38 Lorello L. “Quote rosa e parità tra i sessi: la storia di un lungo cammino” in osservatorio

costituzionale Fasc. 2/2017, pag. 7

39 Sentenza n. 422/1995, considerato in diritto n. 7

40 Imparato E.A, “La rappresentanza di genere tra sistemi elettorali, giurisprudenza

costituzionale e modelli socio-culturali di effettiva uguaglianza” in Rivista AIC n. 2/2018,

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Bisogna tuttavia ricordare gli sviluppi successivi collocabili in un quadro completamente nuovo, caratterizzato dalla necessità di superare la tradizionale distinzione dei ruoli, più sensibile all’esigenza di un effettivo cambiamento nella rappresentanza politica fortemente sbilanciata tra i sessi.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 49 del 2003, anche grazie alla modifica dell’art. 51 Cost., che dopo la revisione del 2003 ha espressamente impegnato la Repubblica ad adottare strumenti atti a realizzare le pari opportunità di genere nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, e la successiva sentenza della Corte Costituzionale n. 4 del 2010, hanno considerato legittime anche nel campo elettorale misure disuguali perché volte a garantire eguali condizioni di partenza41. Quindi quelle misure speciali introdotte in reazione ad una constatata oggettiva condizione di svantaggio, determinata dall’appartenenza al genere femminile in ambiti in cui risulta macroscopicamente sotto-rappresentato e che comportano differenziazioni, non vengono considerate discriminazioni vietate, bensì trattamenti adeguati a specifiche differenze di fatto, e quindi consentiti dalla prescrizione dell’uguaglianza sostanziale.42

1.5 L’uguaglianza di genere in ambito europeo

L’uguaglianza di genere è un diritto fondamentale ed un valore fondante dell’Unione Europea, ma la disciplina antidiscriminatoria vigente oggi nell’Unione Europea non ha avuto lo stesso rilievo fin dall’origine.

Nel 1957 la Comunità Economica Europea era nata per favorire l’instaurazione di un mercato comune e il graduale riavvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri.

All’inizio del percorso di formazione di quella che poi diverrà Unione Europea l’attenzione per il principio di uguaglianza da parte del diritto comunitario si collegava allo scopo originario della Comunità Europea.

                                                                                                                         

41 Lorello L. “Quote rosa e parità tra i sessi: la storia di un lungo cammino” op. cit., p. 13

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Il mercato comune presupponeva una condizione di parità, dovendosi escludere qualsiasi discriminazione fra produttori e consumatori della Comunità43.

Lo scopo principale dell’allora Comunità era prettamente di tipo economico, e i principi contenuti nei trattati originari erano inseriti in quanto necessari e funzionali alla realizzazione del mercato comune.

Assolveva a questo compito anche il principio della parità di retribuzione fra i lavoratori, adibiti a stesse mansioni, ma di sesso diverso.

Non è un caso che la prima disposizione specifica in materia di parità si collochi proprio nell’ambito dell’occupazione, ambito che, pur evidentemente intersecando la dimensione economica con quella sociale, rappresenta uno dei settori fondamentali per la crescita dell’Unione e degli Stati membri, nonché uno dei settori nei quali può e deve realizzarsi l’obiettivo fondamentale della concorrenza.44

Il principio della pari retribuzione infatti venne inserito nel 1957 nel Trattato di Roma all’art. 119 del Trattato istitutivo della CEE45 proprio per evitare il fenomeno distorsivo della concorrenza infracomunitaria, che avrebbe danneggiato alcuni Stati, in particolar modo la Francia la cui legislazione sociale prevedeva la parità salariale dei lavoratori. Per garantire una effettiva concorrenza tra le imprese, gli ordinamenti dovevano prevedere legislazioni sociali che imponessero oneri e regole uguali nei confronti dei lavoratori.

Il principio della parità di retribuzione rappresenta la genesi del principio di non discriminazione come diritto fondamentale nell’Unione Europea e il punto di partenza di un percorso strumentale al miglioramento della condizione delle donne che vedrà negli anni successivi un progressivo incremento.

Dal 1957 ad oggi, infatti le Istituzioni Europee hanno prodotto una serie di atti legislativi sulla parità di genere estendendo la portata del divieto di non discriminazione sulla base del sesso all’accesso all’occupazione, alle condizioni di

                                                                                                                         

43 Art. 34 del trattato istitutivo della Comunità Europea

44 Stradella E., “L’eguaglianza sessuale tra hard law e soft law nel processo di

ravvicinamento tra legislazioni in Europa: pari opportunità e parità di trattamento nel lavoro” op. cit., p. 3

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lavoro, ai regimi legali e professionali di sicurezza sociale, fino a comprendere tutte le politiche comunitarie.

La Comunità Economica Europea, oggi Unione Europea infatti, ha saputo ricorrere a strumenti di natura sia legalmente vincolante, hard law, che di coordinamento, soft law, per promuovere una definizione delle questione di genere che andasse oltre il paradigma economico e considerasse la disuguaglianza femminile come un fenomeno multidimensionale46.

Fra le disposizioni più importanti per l’evoluzione di tale principio introdotte dai trattati vanno sicuramente ricordati nel 1997 con il Trattato di Amsterdam gli articoli 2 e 3 TCE che hanno riconosciuto alla Comunità il compito di promuovere la parità tra uomini e donne eliminando le inuguaglianze, non solo nel campo del diritto del lavoro, ma in tutti i campi di intervento comunitario.

Con il Capo III della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Uomo approvata a Nizza nel 2000 e il Trattato di Lisbona del 2009, grazie al quale la Carta di Nizza ha acquistato valore vincolante, il principio di uguaglianza dei cittadini che si lega espressamente al principio di parità di trattamento e di non discriminazione, si erge a principio fondamentale dell’ordinamento dell’Unione Europea.

In particolare la formulazione dell’art. 23 amplia e legittima la previsione di azioni positive. Secondo tale articolo “la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”.

Da ricordare anche la Risoluzione del Consiglio e dei ministri incaricati dell’occupazione e della politica sociale del giugno 2000 concernente la partecipazione equilibrata delle donne e degli uomini all’attività professionale e alla vita familiare. Il secondo considerando afferma che “il principio dell'uguaglianza tra uomini e donne implica la necessità di compensare lo svantaggio delle donne per

                                                                                                                         

46 Donà A., “Donne e lavoro: quali i risultati delle politiche di conciliazione in Italia?” in

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quanto riguarda le condizioni di accesso e di partecipazione al mercato del lavoro e lo svantaggio degli uomini per quanto riguarda le condizione di partecipazione alla vita familiare, derivanti da pratiche sociali che ancora presuppongono il lavoro non retribuito derivante dalla cura della famiglia come responsabilità principale delle donne e il lavoro retribuito derivante da un'attività economica come responsabilità principale degli uomini”47.

Oltre ai trattati vale la pena osservare come nel campo della parità di genere il riconoscimento a livello formale-documentale nel diritto europeo primario di esigenze di tutela della persona sia stato favorito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia48 .

Si registrano infatti nel tempo molteplici pronunce della Corte con le quali è stato affermato il principio di parità di trattamento fra uomo e donna in una dimensione sociale e non esclusivamente economica.

La Corte di Giustizia ha da sempre riconosciuto il principio di uguaglianza quale fulcro dell’ordinamento comunitario e quale diritto umano fondamentale49.

Da ricordare anche che nel 2010 è entrato in funzione l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere EIGE, un’agenzia dell’Unione Europea istituita per sostenere e rafforzare la promozione dell’uguaglianza di genere, compresa l’integrazione di genere in tutte le politiche dell’Unione Europea.

La strategia “Europa 2020” poggia sull’idea di una crescita intelligente, sostenibile e socialmente inclusiva, basata su alti tassi occupazionali e sostenuta da coesione sociale e territoriale 50.

Rilevante è l’obiettivo di un tasso di occupazione del 75% raggiungibile però solo anche grazie all’aumento della partecipazione al mercato del lavoro da parte della componente femminile.

                                                                                                                         

47 Risoluzione del Consiglio e dei Ministri incaricati dell’occupazione e della politica sociale,

riuniti in sede di consiglio (2000/C 218/02)

48 Ciancio A., “Parità di genere e partecipazione politica nell’Unione Europea. Profili

Generali” in Riv. AIC 1/2016, p. 2

49 Pezzini B., “La costruzione del genere, norme e regole”, op. cit., p. 111

50 Commissione Europea Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva

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E’ evidente quindi l’impegno dell’Unione Europea nella realizzazione della parità di genere come uno dei diritti umani e come elemento chiave della propria politica di sviluppo.

L’uguaglianza fra generi assurge a una “questione di giustizia sociale”.

Solo l’assenza di discriminazioni, l’affermazione dei diritti umani e l’empowerment politico ed economico delle donne possono gradatamente contribuire alla riduzione della povertà, ad uno sviluppo sostenibile e alla gestione delle principali problematiche legate alla salute.

Tuttavia, intervenire sul rapporto tra donne e lavoro, nonché sul rapporto fra donne e politica, per modificare le relazioni sociali a favore della pari rappresentazione di uomini e donne nei diversi ambiti professionali e pubblici è un obiettivo ambizioso perseguibile solo mediante politiche di pari opportunità, di gender mainstreaming, di rimozione agli ostacoli della domanda di lavoro femminile51.

Tanto è vero che nonostante gli sforzi e l’impegno dell’Unione Europea nell’elaborazione di programmi per le pari opportunità, la pubblicazione digitale rilasciata da Eurostat “La vita delle donne e degli uomini in Europa – un ritratto statistico” evidenzia come le disparità di genere persistano a tutti i livelli, evidenziando un divario strutturale nei tassi di occupazione, di retribuzione, di accesso a posti di responsabilità.

In particolare l’esclusione delle donne dal mercato del lavoro, contribuisce a mantenere complessivamente basso il numero degli occupati.

In Europa il tasso medio di occupazione è nettamente inferiore a quello degli Stati Uniti. Per aumentare l’occupazione e raggiungere ad esempio l’obiettivo del tasso medio di occupazione al 75% fissato dalla Strategia Europa 2020, è necessario che le donne abbiano più opportunità di accedere al mondo del lavoro.

L’innalzamento del tasso di occupazione femminile potrebbe tradursi in un aumento della competitività del mercato europeo del lavoro nell’economia mondiale, ma

                                                                                                                         

51 Itzcovich G., “Fra protezione e promozione. Il diritto della conciliazione nella prospettiva

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soprattutto consentirebbe un reddito più stabile per molte famiglie con un aumento dei consumi e della domanda di servizi.

Già nel 2008 l’OCSE52 associava il mancato sfruttamento del potenziale produttivo femminile a un sostanziale fallimento del mercato, poiché la disuguaglianza di genere si traduce inevitabilmente in un inaccettabile spreco di risorse.53

E’ convinzione sempre più diffusa che tale obiettivo possa essere raggiunto solo attraverso l’impegno degli Stati membri per programmare e attuare politiche di conciliazione della vita lavorativa con la vita familiare.

Secondo la Commissione europea le misure di conciliazione dovrebbero contribuire ad alleviare l’onere gravante prevalentemente sulle donne di assicurare assistenza ai figli minori e agli altri familiari bisognosi, in tal modo precludendo loro la possibilità di accedere al mercato del lavoro ovvero ad occupazioni meglio retribuite.54

                                                                                                                         

52 OCSE 2008, Growing unequal? Income distribution and poverty in OECD countries

53 Bove E, Micci A.L. “Scovare i talenti nelle organizzazioni: le donne!” op. cit., pag. 170

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Cap. 2 La conciliazione dei tempi in ambito europeo e nazionale

Nel primo capitolo è stato osservato come la conciliazione dei tempi di lavoro e familiari sia un tema fortemente legato alle trasformazioni che coinvolgono le relazioni di uguaglianza tra donne e uomini nel mercato del lavoro e nell’ambito della famiglia.

I primi interventi normativi in questo campo sono norme denominate “a tutela della maternità” perché volte alla tutela contro i rischi connessi alla salute sia del bambino che della mamma durante la gravidanza e il periodo successivo alla nascita, ma anche contro eventuali discriminazioni dovute a tale evento, quali ad esempio il rischio di licenziamento.

Si è trattato di interventi normativi completamente al femminile.

In un primo momento infatti le normative hanno un unico destinatario: la donna con il bambino che porta in grembo.

Quando si prende coscienza che più che di maternità è necessario parlare di genitorialità, si cerca di ridefinire la concettualizzazione del valore della riproduzione umana con quello della cura delle persone.

Questa nuova tendenza rappresenta il tentativo di superare il modello della conciliazione come un problema strettamente femminile.

Cambiano le prospettive.

Non si tratta più di trovare un giusto equilibrio tra le esigenze lavorative e la tutela della maternità ma di promuovere una ripartizione delle responsabilità di cura tra uomini e donne attraverso il coinvolgimento della figura del padre in veste di attore principale.

I fattori che hanno rotto il tradizionale isolamento delle donne, come l’aumento della scolarizzazione, la crescente presenza nella vita sociale e nel mercato del lavoro, il movimento femminista, avrebbero dovuto portare ad un maggior coinvolgimento degli uomini nella sfera del privato. Come la madre, non più relegata nel privato, può

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legittimamente esercitare l’autorità morale sui figli, così conseguentemente anche il padre, non più relegato nel pubblico, può esercitare l’affettività e la cura55.

Nell’esperienza concreta però questi cambiamenti non sono del tutto avvenuti.

2.1 La conciliazione in ambito europeo

L’obiettivo principale su cui era basata la Comunità Economica Europea ed ancora prima la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio era di tipo meramente economico consistente nella creazione di un mercato comune. Le dichiarazioni di carattere sociale presenti nei trattati, come l’incremento dell’occupazione e l’elevazione del livello di vita, sono semplici dichiarazioni di principio non avendo la Comunità nessuna competenza di tipo sociale ad eccezione di una collaborazione sotto forma di consultazione tra Commissione e Stati Membri.

E’ solo con l’Atto Unico Europeo del 1986, e poi soprattutto con il Trattato di Maastricht entrato in vigore nel 1993 quando sparisce l’aggettivo “economica”, che nasce la consapevolezza della necessità di introdurre anche diritti sociali.

E’ così che, anche se non direttamente all’interno del Trattato a causa di un disaccordo fra gli Stati Membri e il Regno Unito, le prime norme sociali fanno la loro comparsa, nell’allegato “Accordo sulla politica sociale”.

La dimensione sociale dell’azione comunitaria si amplia con tale Accordo, integrato nel TCE solo con il Trattato di Amsterdam del 1997, all’interno del quale si ritrova la disciplina del diritto alla parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici, l’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro e la previsione di azioni positive al fine di eliminare le discriminazioni.

Attualmente l’Unione Europea è particolarmente attiva nell’elaborazione di programmi per le pari opportunità, nell’attivazione di piani di conciliazione dei tempi

                                                                                                                         

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familiari e lavorativi e nell’elaborazione di strategie di inclusione delle donne nel mondo del lavoro56.

In conseguenza della crescente partecipazione femminile al mercato del lavoro, infatti, tali materie hanno assunto, una rilevanza nell’agenda politica dell’Unione Europea, come questioni sociali meritevoli di soluzioni sul piano giuridico.

L’esigenza di assicurare la competitività del mercato europeo nell’economia mondiale, infatti, ha spinto le Istituzioni Europee ad interessarsi sempre di più del tema della conciliazione dei ruoli professionali e familiari tra gli uomini e le donne. Alla base della crescente attenzione per la questione a livello europeo v’è, assieme alla preoccupazione per gli andamenti demografici, la volontà politica di perseguire un obiettivo di natura economica, solidale tuttavia con alcune importanti istanze di eguaglianza di genere nel mondo del lavoro.

A fronte della crescente pressione demografica causata dall’invecchiamento della popolazione, risultato congiunto dell’interazione fra aumento della speranza di vita e riduzione della fertilità, la piena attività di tutti viene elevata a rapida soluzione per dare una spinta propulsiva all’economia europea57.

La riduzione del divario occupazionale di genere gioca un ruolo fondamentale in termini di crescita economica, contribuendo alla sostenibilità del sistema pensionistico, all’aumento del reddito delle famiglie, alla creazione di nuovi posti di lavoro e al conseguente incremento dei consumi58.

Le politiche della conciliazione sono quindi misure che favoriscono l’occupazione femminile, ma nel contempo contribuiscono a superare visioni stereotipate dei

                                                                                                                         

56 Gardella Tedeschi. B “Femminismi giuridici e questioni di genere negli Stati Uniti” in

L.Morra, B. Pasa (a cura di), 2015 “Questioni di genere nel diritto: impliciti e crittotipi”, Giappichelli Torino, p. 104

57 Cannito M. “Quando il congedo è maschile? Vincoli e opportunità nell’uso dei congedi

parentali da parte di padri in Italia” in Autonomie e servizi sociali 2015 p. 326

58 Fanlo Cortés I. (2015) “Congedi genitoriali, politiche del diritto e diseguaglianze di

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