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Ruolo del Doppler Transcranico in Area Critica: Stima Non Invasiva vs Misurazione Diretta della Pressione Intracranica in Pazienti con Danno Cerebrale

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Academic year: 2021

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(1)

Ai miei Genitori, a cui devo tutto,

ai miei Nonni, i miei silenziosi complici,

a mio Fratello

e a tutta la mia rumorosa Famiglia.

(2)

INDICE

1. INTRODUZIONE ... 1

1.1. ANATOMIA, FISIOLOGIA E AUTOREGOLAZIONE CEREBROVASCOLARE ... 1

1.1.1. PRINCÌPI GENERALI E ANATOMIA CEREBROVASCOLARE ... 1

1.1.2. PRINCÌPI DI FISIOLOGIA CEREBROVASCOLARE. LA PRESSIONE INTRACRANICA E LA PRESSIONE DI PERFUSIONE CEREBRALE ... 4

1.1.3. L’AUTOREGOLAZIONE CEREBROVASCOLARE ... 6

1.2. L’IPERTENSIONE INTRACRANICA ... 9

1.2.1. INTRODUZIONE ... 9

1.2.2. FISIOPATOLOGIA ... 10

1.2.3. FLUSSO EMATICO CEREBRALE E PRESSIONE DI PERFUSIONE CEREBRALE ... 11

1.2.4. SEGNI E SINTOMI DI IPERTENSIONE INTRACRANICA ... 13

1.2.5. MONITORAGGIO ICP ... 14

1.2.6. DISPOSITIVI PER IL MONITORAGGIO INVASIVO DELL’ICP [12] ... 14

1.2.8. MONITORAGGIO NON INVASIVO DELL’ICP ... 16

1.2.9. TRATTAMENTO ... 17

1.3. LA VALUTAZIONE DELLA PRESSIONE INTRACRANICA ... 24

1.3.1. MONITORAGGIO INVASIVO ... 24

1.3.2. METODI NON INVASIVI PER IL MONITORAGGIO ICP ... 29

2. IL DOPPLER TRANSCRANICO (TCD) ... 34

2.1. LO STRUMENTO ... 34

2.2. STORIA... 35

2.3. PRINCÌPI [66] ... 36

2.3.1. VOLUME CAMPIONE ... 38

2.3.2. PROFILI DI VELOCITA’ E SPETTRO DOPPLER ... 40

2.4. ANATOMIA E TECNICHE DI MISURAZIONE [66] ... 42

2.4.1. LE FINESTRE CRANICHE NATURALI ... 42

2.4.2. IDENTIFICAZIONE DEI VASI ... 43

2.5. CONSIDERAZIONI SUL TCD ... 45

3. IPERTENSIONE INTRACRANICA E UTILIZZO DEL TCD NELLE PATOLOGIE ENCEFALICHE

ACUTE ... 46

(3)

3.1.1. EPIDEMIOLOGIA ... 46

3.1.2. FISIOPATOLOGIA ... 47

3.1.3. INDICAZIONI AL MONITORAGGIO DELL’ICP... 50

3.1.4. TCD E TRAUMA CRANICO ... 51

3.1.5. TCD NEL TRAUMA CRANICO LIEVE E MODERATO ... 55

3.2. EMORRAGIA SUBARACNOIDEA ANEURISMATICA ... 57

3.2.1. DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA ... 57

3.2.2. EZIOLOGIA ... 58

3.2.3. CLASSIFICAZIONE RADIOLOGICA ... 61

3.2.4. FISIOPATOLOGIA ... 62

3.2.5. RUOLO DEL DOPPLER TRANCRANICO ... 66

3.3. EMORRAGIE INTRAPARENCHIMALI ... 69

3.3.1. EPIDEMIOLOGIA ... 69

3.3.2. EZIOLOGIA ... 70

3.3.3. FISIOPATOLOGIA ... 71

3.3.4. ICH E ICP ... 72

3.3.5. PRESSIONE ARTERIOSA SISTEMICA E AUTOREGOLAZIONE ... 73

3.4. INFARTO MALIGNO DELL’ARTERIA CEREBRALE MEDIA ... 75

3.4.1. INTRODUZIONE ... 75

3.4.2. EZIOPATOGENESI E PRESENTAZIONE ... 75

3.4.3. MONITORAGGIO, FATTORI PREDITTIVI E OPZIONI TERAPEUTICHE ... 75

4. PROTOCOLLO SPERIMENTALE ... 78

4.1. RAZIONALE E SCOPO DELLO STUDIO ... 78

4.1.1. MONITORAGGIO ... 78

4.1.2. DOPPLER TRANSCRANICO ... 79

4.2. OBIETTIVI DELLO STUDIO... 82

4.3. PAZIENTI E METODI ... 83

4.3.1. SELEZIONE DEI PAZIENTI ... 83

4.3.2. DISEGNO DELLO STUDIO ... 83

4.3.3. DISPOSITIVI DI MONITORAGGIO INVASIVI ... 85

4.4. ANALISI STATISTICA DEI DATI ... 91

5. RISULTATI ... 92

5.1. PAZIENTI... 92

(4)

5.3. ANALISI DI CORRELAZIONE ... 94

5.4. ANALISI DI BLAND-ALTMAN ... 100

5.5. CURVA ROC ... 103

6. DISCUSSIONE ...105

6.1. VERIFICA DELL’IPOTESI ... 105

6.2. PROSPETTIVE FUTURE: IL TCD COME GUIDA NELLA VALUTAZIONE DELL’IPERTENSIONE INTRACRANICA NELLE PRIME FASI DI ACCETTAZIONE DEL PAZIENTE RIANIMATORIO ... 107

6.3. LIMITI DELLO STUDIO ... 109

7. CONCLUSIONI ...110

8. INDICE DELLE FIGURE, DELLE TABELLE E DEI GRAFICI...111

9. BIBLIOGRAFIA ...114

(5)

1. INTRODUZIONE

1.1. ANATOMIA, FISIOLOGIA E AUTOREGOLAZIONE CEREBROVASCOLARE

1.1.1. PRINCÌPI GENERALI E ANATOMIA CEREBROVASCOLARE

La principale funzione della circolazione cerebrale è quella di mantenere un apporto costante di ossigeno all’encefalo. Il circolo cerebrale deve inoltre essere in grado di modulare il flusso locoregionale per adeguarlo alle esigenze funzionali delle diverse aree cerebrali [1].

Il tessuto cerebrale costituisce  2% della massa corporea e assorbe  14% della gittata cardiaca, che corrisponde a  750 ml/min. Il flusso cerebrale medio può quindi essere stimato in  52 ml/min/100 g di tessuto. Il consumo di ossigeno della sostanza grigia, peraltro più vascolarizzata di quella bianca (100 ml/min/100 g di tessuto), è di circa 7 ml/min/100 g di tessuto, che rappresenta il 20% del consumo totale a riposo, con un coefficiente di estrazione del 35% [2].

La perfusione cerebrale è garantita da due coppie di arterie, le arterie carotidi interne e le arterie vertebrali, che, entrando nel cranio e anastomizzandosi fra loro, formano un anello vascolare, il poligono di Willis. Esso è composto dalle due arterie cerebrali anteriori, unite dall’arteria comunicante anteriore, e dalle due arterie comunicanti posteriori, che collegano le arterie carotidi interne alle arterie cerebrali posteriori.

Il poligono di Willis, grazie alla sua peculiare conformazione, permette la comunicazione e la possibilità di una supplenza tra i due emisferi cerebrali e tra il sistema carotideo e quello vertebro‐ basilare (fig. 1.1). Peraltro, questo importante sistema anastomotico della circolazione cerebrale è frequentemente sede di varianti anatomiche che ne riducono l’efficienza: comunicante anteriore sottile, origine delle due arterie cerebrali anteriori da una sola carotide, arteria comunicante posteriore filiforme, origine di una o entrambe le arterie cerebrali posteriori dal sistema carotideo.

Il sangue refluo viene invece accolto nei seni venosi presenti nello spessore della dura madre; in particolare: le convessità cerebrali scaricano soprattutto in alto verso il seno sagittale superiore, la faccia interemisferica verso i due seni sagittali (superiore e inferiore), e la faccia inferiore nei seni cavernosi, petrosi e trasversi. Il sangue venoso dei corpi striati, della capsula interna, delle pareti ventricolari e di una parte del centro semiovale, oltre a quello dei plessi corioidei, è raccolto da un grande tronco venoso impari e mediano, la grande vena di Galeno. Essa si unisce al seno longitudinale inferiore per formare il seno retto, che si butta nel torculare di Erofilo (confluente

(6)

dei seni: sagittale superiore, retto, trasversi e occipitale). Il sangue venoso della base dell’encefalo è raccolto dalle vene basilari che si gettano nella grande vena di Galeno. Infine tutto il sangue venoso intracranico è convogliato dai due seni trasversi, che danno origine alle vene giugulari interne destra e sinistra [3].

Figura 1.1. Il poligono di Willis [Netter].

Il liquor cefalorachidiano, o liquido cerebrospinale (CSF), è una soluzione acquosa in equilibrio con il liquido interstiziale del Sistema Nervoso Centrale (SNC). Esso è contenuto nei ventricoli cerebrali (30 ml), negli spazi subaracnoidei cranici (80 ml) e spinali (30 ml) [4]. Il CSF, isoosmotico con il plasma, ma di composizione diversa in virtù della selettività osmotica della barriera ematoencefalica e per la presenza di trasportatori specifici, costituisce l’ambiente metabolico privilegiato entro cui i neuroni e la glia realizzano le funzioni del SNC. Oltre alla funzione metabolica, è di primaria importanza quella di protezione meccanica dell’encefalo, soprattutto di riduzione del suo peso, diminuito da 1.400 g a 50 g grazie al principio di Archimede. Il CSF svolge inoltre funzioni simili a quelle del sistema linfatico e funzioni di regolazione, sia della ventilazione polmonare sia del flusso ematico cerebrale, che vengono modificati in funzione del pH.

I plessi corioidei sono responsabili della produzione del CSF. Il CSF deriva dal plasma sanguigno che ha attraversato l’endotelio fenestrato dei capillari corioidei, le cellule piali e l’epitelio

(7)

corioideo. Le cellule di questo epitelio sono secernenti e possono intervenire attivamente nella produzione del CSF che viene riversato all’interno delle cavità ventricolari (ventricoli laterali, terzo ventricolo e quarto ventricolo); inoltre, le cellule presentano numerosi microvilli apicali i quali, insieme alle macroscopiche estroflessioni dei plessi, hanno il significato di aumentare la superficie totale di secrezione. Una volta prodotto e raccolto all’interno dei ventricoli, il CSF passa attraverso i forami di Lushka (laterali) e il forame di Magendie (mediano) del quarto ventricolo per distribuirsi nello spazio subaracnoideo che avvolge le superfici esterne dell’encefalo, del midollo spinale e della cauda equina. In corrispondenza della volta cranica, in prossimità del seno sagittale superiore, le granulazioni aracnoidee di Pacchioni provvedono a riassorbire il CSF mantenendone così costante la quantità e la pressione (fig. 1.2).

I plessi corioidei producono CSF al ritmo di 0,35 ml/min, ovvero di 500 ml/die, per cui esso viene completamente rinnovato ogni 8 h.

(8)

1.1.2. PRINCÌPI DI FISIOLOGIA CEREBROVASCOLARE. LA PRESSIONE INTRACRANICA E LA PRESSIONE DI PERFUSIONE CEREBRALE

Per poter illustrare e studiare il comportamento del sistema cerebrovascolare può essere utile descriverlo con un modello matematico che tenga conto dei vari componenti che contribuiscono al suo funzionamento. I modelli matematici classici derivati dall’opera di Marmarou [147] descrivono la pressione intracranica (ICP) in funzione del flusso del CSF e della relazione non lineare tra pressione e volume del compartimento intracranico (fig. 1.3). Il flusso ematico cerebrale (CBF) passa inizialmente attraverso le resistenze dei grossi vasi (Ra). Il sangue arterioso è contenuto nei vasi in volume proporzionale alla compliance (Ca). Il CBF passa poi attraverso le arteriole, la cui resistenza (CVR) è influenzata dall’autoregolazione cerebrale. Da queste il sangue passa nel distretto a compliance capillare e venulare (Cv). Infine, il sangue esce dal seno sagittale attraverso le vene a ponte dotate di una resistenza Rb.

Il flusso del CSF dipende dalla pressione all’interno del seno sagittale superiore (Pss), ma anche dalla sua formazione (If), dal suo immagazzinamento nelle strutture distensibili dei ventricoli e delle cisterne della base (con una compliance Ci), e dal suo riassorbimento attraverso i granuli aracnoidei di Pacchioni del seno sagittale superiore.

Figura 1.3. Modello fisiologico del sistema cerebrovascolare e del circolo liquorale [147].

In base alle considerazioni appena fatte, la pressione intracranica (ICP), ovvero la pressione misurabile all’interno di quel compartimento rigido e inestensibile qual è la scatola cranica (di volume pari a  1,5 l), dipenderà dalla circolazione ematica cerebrale, dal CSF e dai volumi e le compliance tissutali rappresentati dalla seguente equazione:

(9)

La componente vascolare è difficile da esprimere quantitativamente e deriva probabilmente dalla pulsatilità del volume di sangue cerebrale; più in generale molte variabili come la pressione arteriosa media (MAP), l’autoregolazione e il flusso venoso in uscita contribuiscono a determinarne il valore.

La componente cerebrospinale può essere espressa usando l’equazione di Davson: 𝐼𝐶𝑃𝐶𝑆𝐹 = 𝑅𝑏 × 𝐼𝑓+ 𝑃𝑠𝑠

Infine la componente tissutale dipende essenzialmente dal volume del parenchima cerebrale.

Per coprire le richieste metaboliche cerebrali è necessario garantire un adeguato apporto ematico nel distretto intracranico. Essendo la scatola cranica un compartimento rigido, un aumento della sua pressione interna (ICP) può diminuire la pressione di perfusione cerebrale (CPP) con conseguente alterazione del CBF e danno ischemico. Le modificazioni di volume che si stabiliscono fra le tre componenti sovracitate e i cambiamenti pressori che ne conseguono vengono correlati attraverso un grafico Pressione-Volume che mostra una relazione non lineare, la quale viene esplicitata attraverso la dottrina di Monro-Kellie (che in realtà nella prima versione non prendeva in considerazione il CSF). Presupponendo che la pressione intracranica sia sensibile alla legge di Pascal, il continuo divenire dei fluidi intracranici permette l’equilibrio di tutto il sistema: l’adeguato allontanamento del sangue venoso e del CSF permette di ricreare virtualmente lo spazio per una nuova “ondata” di sangue arterioso e la creazione di nuovo CSF. In altre parole: è necessario che il volume del compartimento intracranico rimanga costante per mantenere l’ICP costante.

Figura 1.4. Grafico Pressione-Volume (Monro-Kellie): ipertensione intracranica sperimentata tramite test di

infusione [82].

Vol

(10)

Osservando la figura 1.4, la curva P-V può essere suddivisa in 3 porzioni delimitate dalle linee verticali A e B:

 Prima porzione (valori di volume < A). La curva è piatta a causa della presenza di una buona riserva compensatoria all’iniziale aumento di volume, a carico soprattutto dei distretti venoso e liquorale, in quanto dotati della maggiore compliance.

 Seconda porzione (valori di volume compresi fra A e B). All’esaurirsi della riserva compensatoria, si assiste a un incremento pressorio esponenziale anche per minimi volumi.

 Terza porzione (valori di volume > B). L’appiattimento finale della curva indica il raggiungimento di un’ICP simile alla pressione arteriosa media, con una CPP minima: a questo punto, se il riflesso di Cushing non è in grado di mantenere la CPP superiore alla Pressione Critica di Chiusura, che si stima intorno ai 20 mmHg, si assiste al collasso del letto cerebrovascolare arterioso.

Nella maggior parte degli organi del corpo umano la pressione di perfusione è bassa o accoppiata alla pressione atmosferica. Questo principio non si applica al distretto intracranico. La pressione di riferimento per la perfusione cerebrale è l’ICP, che in molte condizioni patologiche può risultare elevata. L’ICP dipende dalla circolazione del sangue e del CSF. In posizione orizzontale, può raggiungere qualsiasi valore compreso fra la pressione vigente in atrio destro e la pressione arteriosa. In posizione verticale, di solito decresce a causa della “distanza idrostatica” fra il cuore e la scatola cranica. Una “ICP normale” in posizione orizzontale rientra nel range di 5-15 mmHg, mentre consideriamo una “ICP patologica” quando supera valori di 20-25 mmHg.

1.1.3. L’AUTOREGOLAZIONE CEREBROVASCOLARE

La relazione fra il flusso ematico cerebrale (CBF) e la CPP è determinata dalla legge di Ohm dell’emodinamica:

𝐶𝐵𝐹 =𝐶𝑃𝑃 𝐶𝑉𝑅

dove CVR rappresenta la sommatoria delle resistenze vascolari, ove quelle arteriose Ra sono trascurabili.

Il CBF può essere definito anche come:

𝐶𝐵𝐹 =𝑀𝐴𝑃 − 𝐼𝐶𝑃 𝐶𝑉𝑅

(11)

Considerando quanto detto in precedenza, quando l’ICP rientra nel range dei valori normali, è molto bassa, per cui può essere trascurata. L’equazione che otteniamo è quindi:

𝐶𝐵𝐹 =𝑀𝐴𝑃 𝐶𝑉𝑅

L’autoregolazione cerebrale (CA) è la capacità del sistema cerebrovascolare di mantenere il CBF costante durante i cambiamenti di pressione arteriosa media (MAP) e quindi di pressione di perfusione cerebrale (CPP). La CA agisce provocando cambiamenti nelle CVR proporzionali ai cambiamenti di MAP per mantenere un CBF costante. Quando si ha un calo della MAP, e dunque una diminuzione consensuale della CPP, la CA agisce inducendo una diminuzione delle CVR, mantenendo dunque un CBF costante. Le CVR aumenteranno, invece, quando la MAP, e conseguentemente anche la CPP, si alzeranno. Questo aggiustamento alle variazioni di MAP richiede alcuni secondi per completarsi e la sua latenza può essere studiata solo tramite test di risposta dinamica.

I limiti pressori fisiologici in cui la CA agisce sono compresi tra 50 mmHg e 150 mmHg (fig. 1.5) e sono spostati verso l’alto nel corso di ipertensione arteriosa cronica. Al di fuori di questi limiti e quando la CA è danneggiata, il CBF sembra invece seguire passivamente le variazioni di CPP. E’ tuttavia da sottolineare che la CA rappresenta un fenomeno continuo, con caratteristiche variabili sia per ampiezza che per comportamento nel dominio temporale, e può risultare dunque a volte fuorviante riferirsi ad essa nei termini di CA “conservata” o “abolita” [5].

Figura 1.5. Graphic representation of the relationship between CBF and MAP in the normal brain. This may

be partially or completely absent following TBI leading to a situation where CBF becomes dependent on blood pressure [5].

(12)

I meccanismi di CA si basano su risposte metaboliche, nervose e miogene. I vasi cerebrali sono, ad esempio, molto sensibili all’ipercapnia, a cui reagiscono con una vasodilatazione. Questo effetto sembra dovuto non tanto a un’azione diretta della CO2 sui vasi cerebrali, ma alle modificazioni di

acido carbonico, e quindi di ioni idrogeno, nel liquido interstiziale. Altre sostanze acide sembrano invece non avere effetto sul flusso, in quanto non in grado di passare la barriera ematoencefalica. Anche la pressione parziale d’ossigeno induce variazioni del flusso cerebrale (all’ipossia corrisponde una vasodilatazione), anche se di entità minore (l’ipossia è uno stimolo potente alla vasodilatazione cerebrale ma soltanto per valori critici, < 50 mmHg). L’adenosina, inoltre, sostanza rilasciata dalle cellule cerebrali in condizioni di squilibrio tra richieste e apporto d’ossigeno, ha una forte azione vasodilatatrice.

La regolazione nervosa delle CVR è trascurabile, e mediata principalmente dal neuropeptide Y. Un altro dei meccanismi chiave responsabile dell’autoregolazione del flusso cerebrale è la reattività cerebrovascolare. Essa può essere definita come la capacità della muscolatura liscia vascolare di cambiare il tono basale in risposta alle variazioni della pressione transmurale. Lo stiramento della muscolatura liscia vascolare, infatti, causa un aumento di permeabilità dei canali del calcio e una conseguente contrazione attiva. Il concetto di reattività cerebrovascolare spiega inoltre come le variazioni della MAP, e dunque anche della CPP, abbiamo importanti effetti sull’ICP. In un modello esplicativo, Rosner illustra come l’aumento della CPP nel range pressorio in cui agisce la CA causi in circa 5‐15 s una vasocostrizione compensatoria, un calo del compartimento ematico intracerebrale e dunque una diminuzione dell’ICP. Quando la CPP diminuisce, invece, l’ICP aumenterà per la vasodilatazione che si verrà a creare a livello del letto arteriolare. Questa capacità vasodilatatoria raggiunge il suo massimo a pressioni arteriose sotto il limite inferiore in cui agisce la CA. Autoregolazione cerebrovascolare e reattività vascolare, dunque, non possono essere considerati dei sinonimi.

La CA può risultare danneggiata in molte condizioni patologiche, ad esempio nei traumi cranici, nelle emorragie intracraniche o nelle emorragie subaracnoidee. I meccanismi che la possono inficiare sono ancora in parte ignoti. Negli animali si è visto come la vasoparalisi indotta dall’ischemia possa abolire la CA. Altri possibili meccanismi legati all’ischemia sono: l’essudazione di astrociti, il vasospasmo, la stasi eritrocitaria e leucocitaria, la formazione di radicali liberi, le disfunzioni del canale del potassio, l’aumento di endotelina e di NO. Una situazione di disautoregolazione è associata a una suscettibilità a condizioni iperemiche e ischemiche e, come dimostrato in diversi studi, a un peggiore outcome dopo un trauma cranico. Da ciò deriva l’importanza di accertare la presenza di CA nei pazienti affetti da patologie neurologiche acute in un’unità di rianimazione.

(13)

1.2. L’IPERTENSIONE INTRACRANICA

1.2.1. INTRODUZIONE

L’aumento della pressione intracranica (ICP) è una grave conseguenza comune a diverse lesioni neurologiche. E’ caratterizzato da un aumento di volume nella scatola cranica ed è una situazione di difficile gestione nelle unità di terapia intensiva (ICU).

Un’ICP elevata è stata associata con una cattiva prognosi: in una review di studi sui traumi cranici (TBI) il tasso di mortalità dei pazienti con ICP < 20 mmHg era del 18,4%, mentre in quelli con ICP > 40 mmHg era del 55,6% [6].

Le principali cause di ipertensione intracranica includono:

 TBI,  stroke,  neoplasie,  idrocefalo,  encefalopatia epatica,  encefalite,  ascessi.

In tutti i tipi di lesione acuta cerebrale sopra menzionati, l’aumento di ICP ha un’approssimativa relazione con la sopravvivenza ed è spesso l’unico elemento gestibile della malattia. La prevenzione di danni cerebrali secondari causati dall’ipertensione intracranica è perciò un obiettivo importante nella terapia intensiva neurologica.

Un prolungato aumento dell’ICP causa danno cerebrale e può essere rapidamente fatale.

(14)

Lesioni intracraniche occupanti massa

 emorragie (epidurali, subdurali, intraparenchimali)

 tumori cerebrali

 ascessi cerebrali

Aumento del volume cerebrale (edema citotossico e/o edema osmotico)

 stroke ischemico

 ipossia generalizzata

 sindrome di Reye

 iponatriemia acuta

 encefalopatia epatica

 idiopatico (pseudotumor cerebri)

 tossine e farmaci (piombo, tetracicline, doxiciclina, refocoxib, acido retinoico) Aumento del volume del liquido cefalorachidiano (CSF)

 idrocefalo (comunicante, non comunicante)

 papilloma del plesso corioideo

 ridotto riassorbimento del CSF (es. trombosi dei seni venosi)

 ostruzione al flusso del CSF a causa di metastasi leptomeningee

Aumento del volume di sangue (edema vasogenico, alterazione della barriera emato-encefalica)

 perdita di autoregolazione (es. endoarterectomia)

 TBI

 edema vasogenico associato a tumore

 meningite  encefalite  vasculite  encefalopatia ipertensiva  eclampsia  emorragia subaracnoidea

 trombosi dei seni durali

 edema cerebrale associato all’altitudine (HACE)

 ipossia

 ipercapnia

 iperpiressia

 crisi epilettiche

 ostruzione venosa giugulare

 ventilazione meccanica (quando picco e pressione espiratoria > ICP basale)

Tabella 1.1. Lista delle cause di ipertensione intracranica.

1.2.2. FISIOPATOLOGIA

Secondo la legge di Monro-Kellie, la scatola cranica è uno spazio fisso di  1.400-1.700 ml in adulti di taglia media. Lo spazio è suddiviso in tre compartimenti:

1. sangue (10%,  150 ml); 2. CSF (10%,  150 ml);

3. tessuto cerebrale (80%,  1.400 ml).

Il CSF è prodotto dai plessi corioidei nei ventricoli cerebrali e in altre piccole aree minori del sistema nervoso centrale (CNS) a una velocità di  20 ml/h (500 ml/die) e viene drenato nel sistema venoso attraverso le granulazioni aracnoidee.

I valori normali di ICP sono compresi fra 3 e 15 mmHg (50-200 mmH2O). Nella pratica routinaria

delle ICU, l’obiettivo della gestione dell’ICP è il mantenimento di valori < 20 mmHg [7].

Per mantenere un valore costante di ICP, ogni incremento di volume di un compartimento intracranico deve essere equamente compensato da una diminuzione di volume di un altro compartimento, altrimenti l’ICP si innalza. Inizialmente, una piccola espansione di volume causa

(15)

solo un lieve innalzamento di ICP. Il CSF viene dislocato attraverso il forame magno nello spazio paraspinale, il sangue è dislocato dal sistema venoso intracranico a quello extracranico e il parenchima cerebrale viene compresso. In ogni caso, la curva della compliance non è lineare (fig. 1.6): quando i meccanismi appena descritti si esauriscono, la compliance intracranica (Volume/Pressione) cade rapidamente e anche piccoli incrementi di volume intracranico possono portare a drammatici aumenti di ICP.

Figura 1.6. A graphic illustration of the pressure–volume curve of the brain. When compliance is greater (A),

a given change in volume (∆VA) produces minimal change in ICP (∆PA). However, when compliance is

decreased (B), the same change in volume (∆VB) produces a more significant increase in ICP (∆PB).

Non appena l’ICP raggiunge i 50-60 mmHg, si avvicina ai valori pressori arteriosi dei vasi del circolo di Willis e determina una globale ischemia cerebrale.

1.2.3. FLUSSO EMATICO CEREBRALE E PRESSIONE DI PERFUSIONE CEREBRALE

La pressione arteriosa sistemica media (MAP) è un fattore fondamentale per il mantenimento della perfusione cerebrale. La pressione di perfusione cerebrale (CPP), definita come

𝐶𝑃𝑃 = 𝑀𝐴𝑃 − 𝐼𝐶𝑃 gioca un ruolo importante nella gestione dell’ICP.

Normalmente il flusso ematico cerebrale (CBF) ha un valore di  50 ml/100 g/min ed equivale a 𝐶𝐵𝐹 =𝐶𝑃𝑃

𝐶𝑉𝑅 dove CVR sta per resistenza vascolare cerebrale.

(16)

parla di autoregolazione cerebrale, cioè dell’abilità dell’encefalo di mantenere un flusso di sangue relativamente costante nonostante i cambiamenti della pressione di perfusione. L’autoregolazione è presente in numerosi distretti vascolari ma è particolarmente affinata nell’encefalo, a causa della necessità di apporto di sangue e di omeostasi idroelettrolitica costanti [8].

Al mantenimento di un flusso costante contribuiscono diversi elementi:

 risposta miogenica: lo stimolo all’autoregolazione sembrerebbe essere dato dalla CPP (quando la muscolatura vasale avverte un aumento di pressione sotto forma di stiramento delle fibre, risponde contraendosi; l’opposto accadrebbe in risposta a una riduzione della pressione);

 PaCO2: il raddoppio della PaCO2 a 80 mmHg è capace di raddoppiare il CBF per effetto di

una vasodilatazione massimale, mentre un suo dimezzamento a 20 mmHg dimezza il CBF per una vasocostrizione massimale (è dimostrato che il meccanismo alla base della risposta vascolare alla CO2 è di natura chimica, legato alle variazioni di pH che induce; si

tratta di un effetto transitorio, perché i vasi si riadattano rapidamente ai nuovi valori di pH e tornano al loro diametro basale);

 PaO2: l’ipossia è uno stimolo potente alla vasodilatazione cerebrale ma soltanto per valori

critici, < 50 mmHg;

 fattori neuroumorali.

Questi sistemi garantiscono un accoppiamento di flusso e metabolismo. Le cause di disaccoppiamento possono essere dovute a:

 perdita dell’autoregolazione (risposta miogenica) o CPP < 50 mmHg,

o CPP > 150 mmHg,

o Farmaci (vasodilatatori, anestetici generali);

 ipercapnia;

 ipossia [9].

L’autoregolazione mantiene il CBF a un livello costante all’interno di un ampio intervallo di valori di CPP (da 50 a 150 mmHg). Quando il CBF scende al di sotto di 12 ml/min/100 g, si sviluppa un danno ischemico irreversibile. Se la CPP scende al di sotto del limite inferiore dell’autoregolazione, il CBF cade e contribuisce all’oligoemia. Se la CPP supera il limite superiore dell’autoregolazione, si ha un eccesso di CBF che supera le necessità del normale metabolismo cerebrale [9].

(17)

In diverse patologie cerebrali, come lo stroke o i traumi, l’autoregolazione cerebrale è compromessa e il CBF diventa più sensibile a piccoli cambiamenti di CPP.

La curva di autoregolazione è spostata a sinistra nei bambini e spostata a destra nei pazienti con ipertensione arteriosa cronica.

In condizioni ottimali, la CPP dovrebbe essere mantenuta sopra i 70 mmHg, per evitare la comparsa di ischemia, e sotto i 120 mmHg, per evitare l’iperperfusione [10].

1.2.4. SEGNI E SINTOMI DI IPERTENSIONE INTRACRANICA

I sintomi e i segni di ipertensione intracranica (tab. 1.2) sono aspecifici ma in un appropriato ambiente clinico possono guidare verso una rapida diagnosi e un corretto trattamento.

SINTOMI SEGNI

Cefalea Vomito

Disorientamento Letargia

Riduzione del livello di coscienza (letargia, torpore, coma)

Ipertensione arteriosa, con o senza bradicardia Papilledema

Paralisi del VI nervo cranico Triade di Cushing

 ipertensione arteriosa

 bradicardia

 respiro irregolare

Ematoma periorbitale spontaneo Tabella 1.2. Segni e sintomi di ipertensione intracranica.

La triade di Cushing può comparire in caso di erniazione senza che sia presente un significativo aumento dell’ICP.

Alcuni dei sintomi e dei segni sono causati da erniazione cerebrale e non necessariamente dall’aumento di ICP, come la paralisi del III nervo cranico, l’alterazione del tono muscolare, la rigidità delle estremità inferiori, la perdita dei movimenti oculari di lateralità e le alterazioni respiratorie.

La dislocazione del tessuto cerebrale e le erniazioni si verificano quando un effetto massa compartimentalizzato porta alla formazioni di gradienti di ICP, ovvero a differenze regionali di ICP.

Le due maggiori conseguenze dell’aumento dell’ICP sono:

1. il danno ipossico-ischemico risultante dalla riduzione della CPP e del CBF;

2. la compressione meccanica e l’erniazione del tessuto cerebrale che determinano gravi danni o la morte.

(18)

A causa della scarsa correlazione fra la sintomatologia e l’ICP, l’unico modo per far diagnosi di ipertensione intracranica è effettuare una misurazione diretta o indiretta.

L’uso della diagnostica per immagini, come la TC, può supportare la diagnosi; in ogni caso, un’ICP aumentata può essere presente anche in assenza di segni nelle scansioni TC iniziali [11].

1.2.5. MONITORAGGIO ICP

Il trattamento empirico di situazioni in cui si sospetta la presenza di ICP elevata è spesso necessario specialmente in regime di urgenza; in ogni caso senza la misurazione dell’ICP la maggior parte delle terapie non è efficace, specialmente perché sono dirette all’ottimizzazione della CPP, che non può essere calcolata senza conoscere il valore di ICP [12].

Il monitoraggio invasivo dell’ICP può essere indicato quando si rispettano tutti e tre i seguenti criteri:

1. si sospetta che il paziente sia a rischio di ipertensione intracranica; 2. il paziente è in stato comatoso (GCS  8);

3. la prognosi è tale per cui è indicato il trattamento intensivistico aggressivo.

Il sospetto di elevazione dell’ICP è basato sui reperti clinici, sui risultati della TC e sull’anamnesi del paziente. Sebbene le immagini TC possano mostrare significativi effetti massa intracranici con

shift della linea mediana od obliterazione delle cisterne basali, i pazienti con immagini TC

inizialmente normali possono avere ICP elevata. In uno studio prospettico di pazienti con trauma cranico, l’aumento dell’ICP si presentava in  10-15% dei pazienti con immagini TC inizialmente normali [11]. Questo rischio è ancora più alto per il pazienti di età > 40 anni, con alterazione del tono muscolare o con ipotensione (PAS < 90 mmHg) [13].

Le linee guida per il monitoraggio dell’ICP sono state stabilite solo per i traumi cranici, mentre per le altre condizioni che si associano a ipertensione intracranica le linee guida sono meno chiare. In ogni caso, il deterioramento delle condizioni cliniche e l’imaging che mostra un imponente effetto massa possono servire come importanti criteri di selezione in pazienti con ipertensione intracranica non traumatica.

1.2.6. DISPOSITIVI PER IL MONITORAGGIO INVASIVO DELL’ICP [12]

Si deve tenere a mente che la maggior parte dei trattamenti per l’ipertensione intracranica perde efficacia con l’uso prolungato e dovrebbe essere sospesa non appena l’ICP rientra nei range, rendendo ulteriormente necessario il monitoraggio dell’ICP.

(19)

Esistono quattro principali siti anatomici sfruttati per la misurazione dell’ICP [14]: 1. intraventricolare,

2. intraparenchimale, 3. subaracnoideo, 4. epidurale.

Ognuna di queste tecniche necessita di un sistema ad hoc di monitoraggio ed è associata a vantaggi e svantaggi.

Cateteri intraventricolari

Questi dispositivi sono considerati il gold standard per il monitoraggio dell’ICP e connettono direttamente lo spazio intracranico con un trasduttore esterno per la misurazione della pressione. Il catetere è connesso generalmente sia al trasduttore sia a un sistema esterno di drenaggio attraverso un rubinetto a tre vie.

Il principale vantaggio di questo catetere è costituito dalla possibilità di misurare l’ICP e contemporaneamente abbassarla attraverso il drenaggio del CSF. E’ inoltre possibile la calibrazione in situ.

Un volta posizionato, il sistema può essere impostato per il monitoraggio continuo dell’ICP con drenaggio intermittente del CSF oppure per il drenaggio continuo con misurazione intermittente. Il principale svantaggio è l’alto rischio di infezioni (ventricolite o meningite) che si osservano nel 10-20% dei pazienti e il cui numero aumenta drammaticamente dopo 5 giorni. Gli altri svantaggi di questo tipo di monitoraggio includono l’ostruzione, l’aumento del rischio di emorragia, la necessità di riaggiustare la posizione del trasduttore a seconda della posizione della testa (lo zero dovrebbe essere impostato a livello del meato acustico esterno) e la difficoltà tecnica di posizionamento all’interno dei piccoli ventricoli in presenza di edema cerebrale o compressione ventricolare che possono portare alla registrazione di valori di ICP erroneamente bassi.

Trasduttori pressori intraparenchimali

Questi dispositivi sono dotati di trasduttori a fibre ottiche o elettronici sulla punta e vengono inseriti all’interno del parenchima cerebrale attraverso un piccolo foro nel cranio.

Sono molto più facili da inserire e hanno un rischio minore di infezione ed emorragia in confronto ai cateteri intraventricolari.

I trasduttori vengono calibrati solo una volta prima dell’inserimento e l’accuratezza della misurazione dell’ICP è generalmente superiore a quella offerta dai dispositivi subaracnoidei o epidurali, sono però riportati casi di perdita di accuratezza dopo alcuni giorni.

(20)

Dispositivi subaracnoidei

Si tratta di un dispositivo idraulico che connette lo spazio intracranico a un trasduttore esterno attraverso un sistema riempito di soluzione salina.

Il dispositivo subaracnoideo è in realtà una vite cava che viene inserita attraverso un foro.

La dura viene perforata, permettendo al CSF di riempire la vite e creare la connessione col trasduttore.

Sebbene il rischio di infezione sia basso, questo dispositivo è prono agli errori, inclusi la sottostima dell’ICP, il dislocamento della vite e l’occlusione.

Trasduttori epidurali

Questi dispositivi vengono inseriti all’interno del cranio fino a metterli in contatto con la dura. Vi si associa un minor tasso di infezioni ma vanno più frequentemente incontro a malfunzionamento, dislocazione e perdita della calibrazione dopo qualche giorno di utilizzo. L’inaccuratezza deriva per la maggior parte dalla presenza della relativamente anelastica dura fra la punta del sensore e lo spazio subaracnoideo, perciò hanno una limitata utilità clinica. Vengono utilizzati in caso di pazienti con coagulopatie, come quelli con encefalopatia epatica.

1.2.8. MONITORAGGIO NON INVASIVO DELL’ICP

Il monitoraggio non invasivo e metabolico dell’ICP è stato studiato e recentemente validato da un trial clinico, tuttavia la sua applicazione nella pratica clinica non è ancora stata stabilita.

Sulla base di una review [15], diversi metodi sono stati impiegati per la stima dell’ICP, compresi CT, MRI, TCD, nearinfrared spectroscopy e potenziali visivi evocati. Inoltre, sono state studiate molte tecniche per la misurazione del nervo ottico e della guaina del nervo ottico.

La misurazione non invasiva dell’ICP può essere uno strumento utilissimo nel trattamento di pazienti in stato critico.

Transcranial Doppler (TCD)

Il TCD, che misura le velocità del flusso sanguigno delle principali arterie cerebrali, mostra cambiamenti caratteristici con l’incremento dell’ICP.

Verrà trattato ampiamente in seguito.

Diametro della guaina del nervo ottico

L’altra promettente tecnica per il monitoraggio non invasivo dell’ICP è la misurazione del diametro della guaina del nervo ottico (ONSD) attraverso l’utilizzo degli ultrasuoni; si è dimostrato uno strumento diagnostico accurato per il rilevamento dell’ipertensione intracranica.

(21)

In seguito a diversi studi si è visto che un diametro di 5-6 mm può discriminare un’ICP normale da una elevata in pazienti con emorragia intracranica e TBI [16] [17].

La presenza nel paziente di patologica oculare cronica e ipertensione maligna limita l’utilizzo di questa tecnica.

L’interpretazione dell’ONSD dovrebbe essere combinata a un insieme di segni clinici e radiologici. Questa tecnica può permettere di trattare precocemente l’ipertensione intracranica quando il monitoraggio invasivo non è disponibile o prima del suo posizionamento.

Monitoraggio dello shift della linea mediana attraverso Transcranial Duplex Sonography (TDS)

Lo shift della linea mediana (MLS) è conosciuto come un fattore prognostico negativo dopo emorragia intracranica (ICH).

La TDS è un’utile alternativa alla CT (può essere effettuata al letto del paziente), permette di evitare l’esposizione alle radiazioni e lo spostamento ripetuto di pazienti in condizioni critiche, e permette di monitorare il MLS nelle prime fasi di trattamento delle ICH.

EEG e monitoraggio dei potenziali somatosensitivi evocati

L’elettroencefalografia nelle ICU è sempre più usata per il monitoraggio della funzionalità e del metabolismo cerebrali.

Il monitoraggio EEG continuo (cEEG) è comunemente usato per porre diagnosi e per guidare il trattamento delle crisi epilettiche non convulsive, ma anche nel periodo successivo allo stato di male epilettico di tipo convulsivo. Inoltre, il cEEG viene usato per la gestione del coma farmacologico nel trattamento di ICP elevate.

Recentemente il cEEG è stato applicato alla diagnosi di ischemie o di un loro peggioramento in pazienti ad alto rischio, per fornire informazioni continue e in tempo reale sui cambiamenti nella funzione cerebrale direttamente al letto del paziente e per allertare i medici su eventi acuti cerebrali, quali crisi epilettiche, ischemia, aumenti di ICP, emorragie e alterazioni sistemiche che interessino l’encefalo, come ipossia, ipotensione, acidosi o altro [18].

1.2.9. TRATTAMENTO

La prevenzione di danni cerebrali secondari causati da aumento dell’ICP è il principale obiettivo della terapia intensiva neurologica.

La natura critica dell’ICP elevata rende necessaria l’implementazione di un trattamento il più rapidamente possibile.

Tutti i trattamenti per la gestione dell’ICP elevata operano riducendo il volume intracranico. L’obiettivo primario del trattamento dell’ICP è di mantenere la pressione al di sotto dei 20 mmHg

(22)

e la CPP al di sopra dei 60 mmHg.

Nonostante la rimozione delle cause dell’aumento dell’ICP rimanga l’approccio definitivo, esistono diverse manovre che possono essere utili per la riduzione in urgenza dell’ICP, gestendo appropriatamente la CPP allo stesso tempo.

Il protocollo a scalini descritto qui di seguito riflette le considerazioni appena fatte: 1. decompressione chirurgica;

2. sedazione;

3. ottimizzazione della CPP; 4. terapia osmolare; 5. iperventilazione; 6. terapia con barbiturici; 7. ipotermia [19].

Approccio iniziale

L’ottimizzazione dell’ossigenazione (SaO2 > 94% o PaO2 > 80 mmHg) e del flusso ematico cerebrale

(pressione arteriosa sistolica > 90 mmHg) sono essenziali.

La pressione arteriosa dovrebbe essere sufficiente a mantenere la CPP > 60 mmHg e supporti pressori possono essere usati con tranquillità, specialmente quando si sviluppa ipotensione iatrogena con la sedazione [14].

Un altro step iniziale di importanza fondamentale è il posizionamento corretto della testa per evitare di ostacolare il deflusso venoso: la testa del letto dovrebbe essere mantenuta sollevata con un angolo di 30° e la testa del paziente dovrebbe rimanere in posizione mediana e diritta evitando la compressione delle giugulari per promuovere il ritorno venoso. Un’elevazione della testa oltre i 45° dovrebbe essere evitata a causa dell’aumento paradosso dell’ICP che può provocare in risposta a un’eccessiva riduzione della CPP [20].

Importanti manovre sono rappresentate dalla riduzione dell’eccessiva flessione o rotazione del collo, evitando bendaggi troppo stretti sul collo, e minimizzando gli stimoli che possono indurre tosse e manovre di Valsalva, come l’aspirazione endotracheale.

Il mantenimento dell’euvolemia e lo stretto monitoraggio del bilancio dei fluidi sono necessari. Dovrebbero essere usati solo fluidi isotonici e quelli ipotonici dovrebbero essere strettamente evitati.

L’iposmolarità sistemica (< 280 mOsm/l) dovrebbe essere corretta in modo aggressivo.

(23)

incremento dell’ICP [21].

La scelta dei fluidi ottimali per la rianimazione rimane incerta, in quanto studi confrontanti colloidi e cristalloidi sono risultati inconcludenti.

Mantenere i pazienti appropriatamente sedati, trattare gli stati di agitazione e controllare il dolore con gli analgesici può ridurre l’ICP attraverso la riduzione del consumo metabolico, del distress respiratorio, della congestione venosa e delle risposte autonomiche di ipertensione e tachicardia [22].

La febbre aumenta il metabolismo cerebrale, perciò dovrebbe essere trattata aggressivamente. Si ha un aumento dell’ICP a causa dell’incremento del metabolismo cerebrale e del flusso sanguigno, ed è stata dimostrata un’esacerbazione del danno neuronale ipossico-ischemico in modelli animali [46] [47]. Uno studio francese ha dimostrato che il controllo della febbre usando sistemi di raffreddamento esterni è un presidio sicuro che riduce l’utilizzo di agenti per il sostegno del circolo e la mortalità precoce nello shock settico [25]. Perciò il trattamento aggressivo degli stati febbrili (con farmaci come il paracetamolo e con raffreddamento esterno) è raccomandato in tutti i pazienti con ICP elevata e febbre sostenuta > 38,3°C.

Le crisi epilettiche e gli stati epilettici non convulsivi sono molto frequenti in seguito a danni cerebrali [26]. Queste condizioni incrementano il consumo metabolico e inducono iperemia, che possono significativamente contribuire all’aumento dell’ICP [27]. Inoltre, il trattamento antiepilettico profilattico dovrebbe essere considerato nei pazienti con lesioni focali corticali estese e con rilevante effetto massa e shift della linea mediana.

Desametasone e altri steroidi non dovrebbero essere usati in caso di aumento dell’ICP, eccetto per i casi dovuti a tumore, perché si sono dimostrati inefficaci nei confronti dell’edema citotossico.

Terapia iperosmolare

Gli agenti osmotici riducono il volume del tessuto cerebrale drenando acqua libera verso il torrente ematico e quindi verso i reni, dai quali viene escreta [28] [29].

Gli effetti benefici della terapia iperosmolare necessitano dell’integrità della barriera ematoencefalica (BBB). Nelle regioni cerebrali danneggiate, come quelle sottoposte a traumi, la barriera è danneggia e permette il riequilibrio dei soluti tra il sangue e il liquido interstiziale cerebrale. Di conseguenza, gli agenti iperosmolari esercitano il loro effetto principalmente rimuovendo acqua dalle regioni di tessuto cerebrale intatte [30].

(24)

Gran parte della riduzione volumetrica cerebrale si verifica durante e subito dopo il periodo di massima osmolarità indotta dall’infusione dell’agente iperosmolare. L’encefalo lentamente si riequilibra con l’osmolarità plasmatica attraverso l’aumento della concentrazione dei soluti intracellulari, i cui meccanismi però non sono stati del tutto chiariti.

Evidenze cliniche ci dimostrano l’efficacia di mannitolo e soluzione ipertonica nell’ipertensione intracranica acuta dovuta a TBI, edema secondario a tumori, emorragia intracranica, emorragia subaracnoidea (SAH) e stroke [31].

Mannitolo e soluzione ipertonica sono stati comparati in almeno 5 trial randomizzati di pazienti con ICP elevata per cause diverse [32]. Una meta-analisi di questi trial ha messo in evidenza che la soluzione ipertonica ha un’efficacia maggiore nel ridurre l’ICP [33].

Il dosaggio del mannitolo deve essere compreso fra 0,18 e 2,5 g/kg, sebbene dosi < 0,5 g/kg siano meno efficaci e abbiano un effetto meno duraturo; una correlazione positiva è stata dimostrata fra dose e ampiezza della riduzione dell’ICP.

Il dosaggio della soluzione ipertonica rientra in un range da 240 mOsm/dose a 640 mOsm/dose. La quantità di soluzione ipertonica che è necessaria per raggiungere il target sierico di concentrazione di sodio può essere approssimata con la seguente formula:

𝑁𝑎+ 𝑛𝑒𝑐𝑒𝑠𝑠𝑎𝑟𝑖𝑜 (𝑚𝑚𝑜𝑙)

= (𝑃𝐶 × 𝑃𝑟𝑜𝑝𝑜𝑟𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜𝑟𝑒𝑎) × (𝑁𝑎+ 𝑑𝑒𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑎𝑡𝑜

− 𝑁𝑎+ 𝑐𝑜𝑟𝑟𝑒𝑛𝑡𝑒)

Dove: PC, peso corporeo in kg; proporzione acqua corporea (0,5 F e 0,6 M); Na+ in mmol/l.

Il volume necessario in ml è poi calcolato come il Na+ necessario diviso la concentrazione di Na+

della soluzione scelta.

Il dosaggio della terapia infusionale di soluzione ipertonica è stato efficace usando NaCl al 3% a 0,1-2 ml/kg/h fino a raggiungere gradualmente una natriemia di 145-155 mmol/l [32].

Il tasso di utilizzo dei carichi osmolari può influire sull’efficacia nella riduzione dell’ICP. Somministrazioni sostenute e dosaggi di mannitolo calcolati in base al peso inferiori hanno dimostrato di avere un impatto meno pronunciato e meno duraturo sull’elevazione dell’ICP. La somministrazione in boli crea un maggiore gradiente osmolare a livello della barriera ematoencefalica, inducendo una maggiore riduzione del fluido parenchimale.

Nei casi refrattari, mannitolo e soluzione ipertonica possono essere alternati o somministrati simultaneamente.

(25)

A causa del rischio di insufficienza renale indotta dal mannitolo, il gap osmolare (la differenza fra l’osmolarità sierica calcolata e misurata) dovrebbe essere mantenuto su valori < 55 mOsm/l [33].

L’infusione di soluzione ipertonica è capace di ridurre l’ICP fino a 72 h ma questo effetto può ridursi con l’uso prolungato. L’uso prolungato di soluzione ipertonica permette ai meccanismi omeostatici cerebrali di equilibrare il gradiente osmotico e può portare allo sviluppo di edema e ipertensione intracranica con meccanismo rebound se la soluzione ipertonica viene interrotta bruscamente.

In assenza di preesistente iponatriemia e comorbilità, si è messo in evidenza il basso rischio di sviluppo di mielinolisi pontina centrale per tutti i pazienti in cui si inizia la terapia iperosmolare che determina rapida elevazione del sodio sierico.

Altri effetti avversi della terapia iperosmolare sono:

 squilibri elettrolitici,

 acidosi,

 ipotensione,

 scompenso cardiaco congestizio.

Se si sviluppa acidosi metabolica ipercloremica a seguito della somministrazione di soluzione ipertonica, può essere utilizzata una soluzione ipertonica di bicarbonato di sodio come valida alternativa [34].

E’ da considerare che la somministrazione di soluzione ipertonica ha un considerevole vantaggio rispetto al mannitolo in pazienti ipovolemici e ipotesi. Il mannitolo è da considerare controindicato nei pazienti ipovolemici a causa del suo effetto diuretico, mentre la soluzione ipertonica aumenta il volume plasmatico (e può anche aumentare la pressione arteriosa) oltre a ridurre l’ICP.

Iperventilazione

L’iperventilazione è una strategia terapeutica che dovrebbe essere usata solo in acuto con l’obiettivo di portare la PaCO2 a valori compresi fra 26 e 30 mmHg; si ottiene una rapida riduzione

dell’ICP attraverso la vasocostrizione che porta alla riduzione del volume di sangue intracranico. L’effetto vasocostrittivo sulle arteriole cerebrali è temporaneo e dura meno di 24 h. Non appena il pH del liquor cefalorachidiano di equilibra col nuovo livello di PaCO2, le arteriole cerebrali si

ridilatano, portando a un possibile calibro maggiore rispetto a quello basale, cosicché l’iniziale riduzione di volume cerebrale può subire un effetto rebound con un incremento dell’ICP.

(26)

vasodilatazione e l’aumento di ICP per rebound [19].

L’iperventilazione porta alla vasocostrizione ma, mentre questa può diminuire l’ICP, allo stesso tempo una riduzione critica della perfusione cerebrale locale rischia di peggiorare il danno neurologico, particolarmente nelle prime 24-48 h [35] [36].

Sebbene l’ischemia indotta dall’iperventilazione non sia stata chiaramente evidenziata, è stato dimostrato in un trial clinico randomizzato che l’iperventilazione cronica routinaria (con valori di PaCO2 di 20-25 mmHg) ha un effetto negativo sulla prognosi [37].

In conclusione, l’iperventilazione mostra la sua massima efficacia come misura temporanea, finché non vengono instaurate terapie più efficaci e durature per il trattamento dell’ICP elevata.

Barbiturici

La terapia con barbiturici per l’induzione di burst suppression all’EEG è stata un pilastro della soppressione farmacologica del metabolismo in caso di ICP elevate, sebbene non sia indicata una somministrazione a scopo profilattico [38].

Il razionale dell’uso dei barbiturici è dato dalla loro capacità di ridurre il metabolismo cerebrale e il flusso sanguigno cerebrale, che risulta in una riduzione dell’ICP e in un effetto neuroprotettivo. Il pentobarbital è il farmaco comunemente usato, con una dose di carico di 5-20 mg/kg in bolo, seguita da un’infusione continua con 1-4 mg/kg/h.

A questo tipo di terapia sono associate morbilità significative, come l’ipotensione che solitamente richiede l’utilizzo di agenti vasopressori, perciò dovrebbe essere riservata ai casi in cui l’ICP è refrattaria agli interventi terapeutici standard di prima linea.

Il monitoraggio stretto di ICP e CPP sono obbligatori.

Ipotermia terapeutica

L’ipotermia riduce il metabolismo cerebrale e può ridurre il flusso ematico cerebrale e l’ICP. Inizialmente descritta come trattamento dei traumi cranici negli anni ’50, ci sono molte evidenze cliniche che dimostrano che il raffreddamento può essere efficace in pazienti con trauma cranico severo e ipertensione cranica, premesso che il trattamento deve iniziare precocemente, deve essere continuato per un periodo di tempo appropriato (2-5 giorni) e deve essere seguito da un graduale riscaldamento.

L’ipotermia è chiaramente efficace nel controllo dell’ipertensione intracranica. Nonostante questo, effetti positivi sulla sopravvivenza e sulla prognosi neurologica sono stati raggiunti solo nei grandi centri di riferimento con esperienza nell’uso dell’ipotermia e quando il trattamento è stato applicato entro poche ore dall’insulto [39].

(27)

Drenaggio di liquor cefalorachidiano

Se il sistema liquorale contribuisce all’elevazione dell’ICP, come nel caso dell’idrocefalo ostruttivo o comunicante da emorragia subaracnoidea o emorragia intraventricolare, il trattamento di scelta consiste nella derivazione del CSF. Questo può essere ottenuto con un dispositivo di drenaggio ventricolare esterno (EVD), col drenaggio lombare o punture lombari seriali.

La rapida aspirazione del CSF dovrebbe essere evitata perché può portare all’ostruzione del catetere da parte del tessuto cerebrale. Inoltre, in pazienti con emorragia subaracnoidea da rottura di aneurisma, l’improvvisa riduzione della pressione differenziale a livello del sacco aneurismatico può determinare recidiva del sanguinamento.

Il drenaggio lombare è normalmente controindicato in condizione di elevata ICP a causa del rischio di ernia transtentoriale.

Craniectomia decompressiva

Durante il trattamento di un paziente con ICP elevata, una craniectomia decompressiva può essere presa in considerazione se le condizioni del paziente si stanno deteriorando rapidamente o se l’ICP continua a salire nonostante la terapia. La decisione di eseguire il trattamento chirurgico, comunque, dovrebbe essere sempre valutata caso per caso.

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1.3. LA VALUTAZIONE DELLA PRESSIONE INTRACRANICA

Sin dall’esposizione della dottrina di Monroe nel 1783, l’interesse per la valutazione delle relazioni intercorrenti tra la scatola cranica e la pressione che in essa si sviluppa è andata in crescendo, occupando una posizione privilegiata nella ricerca nel campo delle neuroscienze. I primi tentativi di misurazione continua dell’ICP risalgono al 1951, grazie all’approccio pionieristico dei colleghi francesi Guillaume e Janny [40], i cui risultati posero le basi a Lundberg per i suoi studi sul monitoraggio invasivo della pressione intracranica e sull’analisi dell’onda pressoria da essi risultante [41]. Le metodiche che Lundberg ha utilizzato e descritto nei suoi studi vengono tuttora utilizzate per monitorare la pressione intracranica e sono rappresentative di un approccio invasivo, che necessita di un accesso diretto all’interno della scatola cranica.

I primi approcci verso l’utilizzo di tecniche non invasive nella stima dell’ICP risalgono al 1982 con il lavoro di Aaslid et al., il quale per primo propose l’utilizzo del TCD come metodica non invasiva di valutazione della pressione intracranica [42]. Più recenti sono invece gli studi tramite Imaging o

Near Infrared Spectroscopy, che appartengono invece agli anni 2000.

1.3.1. MONITORAGGIO INVASIVO

Le indicazioni per il posizionamento di monitoraggio invasivo sono variabili da centro a centro e interessano prevalentemente traumi cranici, emorragie intraparenchimali e subaracnoidee, idrocefalo, stroke ischemici, danno ipossico con edema cerebrale, meningite/encefalite ed encefalopatia epatica.

Il monitoraggio invasivo dell’ICP incide in maniera più o meno significativa sulla prognosi e sull’outcome del paziente anche in base al quadro sottostante, ma in ogni caso i benefici che possono derivare dal monitoraggio invasivo dell’ICP devono, per ciascun individuo, essere soppesati insieme al costo clinico ed economico che comporta l’utilizzo di tale monitoraggio: oltre al costo del device utilizzato, la tecnica richiede la collaborazione di personale medico e infermieristico specializzato sia per l’inserzione che per il mantenimento del device in loco, e si hanno rischi di sanguinamento o infezione per tutto il periodo del monitoraggio.

Nel trauma cranico, le attuali Linee Guida redatte dalla Brain Trauma Foundation (BTF) nel 2007 propongono l’utilizzo di device invasivi quando il paziente si presenta con GCS  8 e referto TC positivo per ematoma, contusioni, edema, erniazione o compressione delle cisterne basali. Anche i pazienti con TC negativa per tali lesioni possono beneficiare del posizionamento di monitoraggio invasivo dell’ICP, se hanno un’età > 40 anni e deficit motori uni/bilaterali, oppure una pressione arteriosa sistolica < 90 mmHg.

(29)

Il trattamento e il monitoraggio dell’ICP in altre condizioni di prolungata ipertensione intracranica, come l’idrocefalo cronico o l’ipertensione intracranica idiopatica, vengono valutati in base al contesto: in questi casi, il rialzo pressorio è dovuto a un’alterazione della circolazione liquorale per aumento della resistenza al deflusso del liquor stesso, oppure a un aumento della pressione venosa cerebrale. In entrambi i casi, il monitoraggio e la valutazione del volume di riserva compensatorio cerebrovascolare possono aggiungere informazioni diagnostiche, soprattutto in quei pazienti che hanno sintomi persistenti o ricorrenti in seguito all’inserzione dello shunt.

Esistono diverse tecniche di monitoraggio invasivo e tra esse il gold standard attuale è il monitoraggio dell’ICP attraverso catetere intraventricolare (dovrebbe essere sempre preferito alle altre metodiche invasive nel caso in cui alla TC siano ben visibili i ventricoli), che permette non solo un’analisi “passiva”, ma anche un atteggiamento attivo di drenaggio del CSF verso l’esterno nel caso di rialzo pressorio; un altro metodo molto utilizzato prevede il posizionamento di un catetere per la rilevazione dell’ICP in sede intraparenchimale tramite fibre ottiche (Camino), oppure tramite impedenza elettrica (Codman, Spiegelberg).

Nonostante la cruenza del monitoraggio invasivo, limitata ma sempre associata a un vero e proprio intervento neurochirurgico, queste tecniche hanno riscosso un ampio successo negli anni passati permettendo di monitorare in maniera continua e dall’interno le variazioni di ICP; le informazioni raccolte in questo modo non sono costituite solo dal dato grezzo numerico ma anche dalla morfologia dell’onda. L’analisi dell’onda ha assunto importante significato primariamente nella ricerca, e più recentemente anche nella clinica, in associazione ad altre variabili fisiologiche che permettono di valutare non solo la morfologia totale dell’onda, ma anche l’andamento delle diverse componenti dalle quali può essere influenzata (temperatura – sia corporea che cerebrale, stato di ossigenazione cerebrale, ventilazione ed ECG).

Uno dei vantaggi nel monitoraggio invasivo dell’ICP è quindi la possibilità di analizzare l’andamento delle onde pressorie, che vengono rilevate tramite il trasduttore inserito nel compartimento intracranico. Queste onde hanno tre componenti periodiche distinte (fig. 1.6):

1. onde di pulsazione cardiaca, 2. onde respiratorie,

3. onde lente vasogeniche, chiamate anche “onde B di Lundberg”. Ogni onda ha la sua frequenza caratteristica:

 le onde cardiache tra 50 e 180 bpm,

 le respiratorie tra gli 8 e i 20 cicli al minuto,

(30)

e può essere identificata attraverso un’analisi spettrale. Per definizione, l’analisi spettrale di frequenza analizza la composizione spettrale e l’intensità dell’onda sinusoidale in esame. L’onda di polso e quella respiratoria presentano un’ampiezza fondamentale e diverse componenti armoniche.

Figura 1.7. Morfologia dell’onda ICP e sue componenti suddivise in base alla frequenza [82].

L’ampiezza della componente fondamentale dell’onda di polso è utile soprattutto nella valutazione di diversi indici che descrivono la dinamica pressoria cerebrospinale: essa correla positivamente con l’ICP media, situazione che può essere spiegata osservando la diminuzione della compliance nella parte ripida della curva Pressione-Volume (Monro-Kellie). Con l’aumento dell’ICP, ogni volume di eiezione creato a livello cardiaco aumenta temporaneamente il volume intracranico e determina un aumento della componente fondamentale dell’onda di polso. La relazione esponenziale tra pressione e volume non è l’unico fattore che influenza l’ampiezza dell’onda di ICP: il ritardo tra l’inflow arterioso e l’outflow venoso, o liquorale, varia con l’ICP media e consensualmente varia la morfologia dell’onda di polso dell’ICP stessa.

Altri fattori che possono modulare la morfologia dell’onda includono le proprietà elastiche delle arterie cerebrali, le quali possono essere modificate dalla CPP e dalla PaCO2, e l’aumento della

pulsatilità dell’inflow arterioso contestualmente a un’ICP elevata.

Diversi Autori hanno inoltre osservato che le normali onde dell’ICP sono simili a quelle arteriose, con un primo picco (onda di percussione, P1) correlato alla sistole, un secondo picco (onda dicrota, P2) correlato con la chiusura della valvola aortica, e un terzo picco (onda tidale, P3) correlato al flusso arterioso anterogrado durante la diastole (fig. 1.8); non appena la compliance

(31)

intracranica si deteriora, la morfologia delle onde di ICP cambia, infatti l’ampiezza dell’onda dicrota (il secondo picco) prima eguaglia e poi supera l’ampiezza dell’onda di percussione (fig. 1.9) [12].

Figura 1.8. Morfologia dell’onda di ICP che mostra i picchi. Si nota l’associazione di P1 con il picco sistolico

dell’ABP, mentre P2 e P3 sembrano associate al trasporto del volume ematico [82].

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Le onde respiratorie sono quasi sempre presenti, e il loro segnale è complesso in quanto contribuiscono alla loro formazione sia fattori arteriosi che venosi.

Tutte le componenti che si presentano all’analisi spettrale con una frequenza compresa tra 0,05 e 0,0055 Hz vengono chiamate onde lente, o “onde B di Lundberg”: queste provengono da modificazioni del flusso ematico cerebrale, che portano cambiamenti nel volume di sangue presente nel compartimento intracranico e quindi nell’ICP stessa. Quale sia la reale origine e il significato di queste onde, è tuttora oggetto di dibattito: esse possono essere interpretate come una risposta alle variazioni di pressione arteriosa in dipendenza dallo stato di autoregolazione cerebrale; un’altra teoria suggerisce che le onde lente siano innescate da un pacemaker centrale, dovuto alla ciclica domanda di metaboliti a livello cerebrale. Queste onde possono inoltre essere presenti anche in soggetti sani, con un’ampiezza < 3 mmHg: un’ampiezza superiore a 8 mmHg suggerisce una compliance intracranica ridotta, e quindi la presenza di patologia intracranica; al contrario anche la totale assenza di onde lente è un segno prognostico negativo nei pazienti con danno cerebrale.

Le onde “plateau”, conosciute anche come “onde A di Lundberg”, sono delle onde lente a significato patologico la cui origine vasogenica è stata descritta tramite un modello a “cascata vasodilatatoria” da Rosner [44]. Secondo la sua teoria, ogni stimolo vasodilatatorio produce un iniziale piccolo aumento di volume ematico cerebrale: in caso di deboli condizioni di riserva compensatoria presso-volumetrica, questi piccoli incrementi producono un aumento sostanziale di ICP, portando a una diminuzione di CPP, la quale determina in risposta un ulteriore aumento del volume ematico attraverso i meccanismi di autoregolazione, i quali a loro volta provocano un rialzo dell’ICP, creando così un circolo vizioso che porta al raggiungimento della massima vasodilatazione inducibile dall’autoregolazione. Nella fase di plateau, quindi, sia CPP sia CBF sono ridotti. Le onde di plateau possono terminare spontaneamente nel momento in cui incorre uno stimolo vasocostrittivo che interrompa la cascata stessa, come avviene in seguito a riflesso di Cushing, oppure lo stesso risultato si può ottenere tramite infusione di soluzione ipertonica in bolo o iperventilazione a breve termine.

Nel trauma cranico, le onde plateau non sono associate a un peggioramento dell’outcome a meno che la loro durata non sia eccessivamente protratta, ovvero > 30 min. Esse si presentano nel 25% dei pazienti con danno cerebrale e sono più frequenti nei pazienti giovani.

Infine, le onde C di Lundberg si presentano con una frequenza di 4-8 al minuto, hanno durata e ampiezza limitate e probabilmente si associano a un basso significato patologico.

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Figura 1.10. [http://crashingpatient.com/trauma/severe-traumatic-brain-injury.htm]

1.3.2. METODI NON INVASIVI PER IL MONITORAGGIO ICP

Dislocazione della membrana timpanica

L’ipotesi che la pressione intracranica potesse essere rilevata tramite un’analisi audiologica è stata ideata per la prima volta nel 1989 da un gruppo di ricercatori britannici [45]. Essi affermano che se l’acquedotto cocleare è pervio, la pressione intracranica si trasmette alla perilinfa di modo che essa risulti equivalente a quella liquorale. Cambiamenti nella pressione perilinfatica determinano piccole ma significative variazioni nella cinetica degli ossicini dell’orecchio medio e quindi della membrana timpanica: alterando la posizione di riposo dello stapedio nella finestra ovale, vengono conseguentemente alterati i gradi di libertà di movimento degli ossicini; in caso di ipertensione perilinfatica, lo stapedio viene dislocato lateralmente, permettendo un maggiore grado di movimento della catena ossiculare in direzione mediale, che corrisponde a una maggiore dislocazione verso l’interno della membrana timpanica in seguito alla contrazione stapediale (fig. 1.11). Queste piccole variazioni possono essere analizzate tramite un trasduttore a elevata sensibilità posto a livello dell’orecchio esterno, previa analisi di pervietà del dotto cocleare e timpanometria per valutare la pressione all’interno dell’orecchio medio. I limiti di questa metodica consistono prevalentemente nell’impossibilità di determinare un valore preciso di pressione intracranica (essa può essere classificata unicamente come “elevata” o “normale”), e

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nell’impossibilità di effettuare un monitoraggio continuo e di ottenere la morfologia dell’onda pressoria [46].

Figura 1.11. Rappresentazione schematica del sistema di rilevamento della dislocazione della membrana

timpanica.

Valutazione del diametro della guaina del nervo ottico all’imaging

Anatomicamente, la guaina del nervo ottico è in diretta continuità con la membrana subaracnoidea e il CSF si localizza tra la guaina e il nervo stesso [47]. Il diametro della guaina nervosa (Optic Nerve Sheat Diameter, ONSD) aumenta quando il CSF si ridistribuisce in seguito a una diminuzione della riserva compensatoria e della compliance intracranica [47] [48], e studi sull’uomo hanno mostrato che la latenza del fenomeno è di pochi minuti dopo acute variazioni di ICP [48] [49]. Sono possibili diversi approcci per valutare l’ONSD: una tra le prime tecniche utilizzate è stata l’ultrasonografia (fig. 1.12), che si è dimostrata efficace nel predire l’elevata ICP [50] [51], ma che ha come maggiore limitazione l’elevata difficoltà tecnica, infatti richiede una certa esperienza e rende questa metodica poco applicabile ubiquitariamente [52].

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Figura 1.12. Valutazione dell’ONSD con l’ultrasonografia [53].

Anche la RM è stata utilizzata per la valutazione dell’ONSD, ottenendo dati concordanti con quelli dell’ICP [53], ma a causa dell’ancora bassa disponibilità del macchinario e della lunghezza del tempo di esposizione per l’acquisizione dell’immagine, anche questa tecnica non può essere considerata adeguata per la valutazione real-time e routinaria dell’ipertensione intracranica. Per ovviare a queste limitazioni sono stati effettuati studi TC che hanno dimostrato una correlazione tra ONSD misurato con questa tecnica e la mortalità [54] e con la pressione intracranica nella stima di presenza o assenza di ipertensione [55]. Anche in questo caso tuttavia non è possibile ottenere un valore preciso di ICP.

Fundoscopia e papilledema

Il papilledema, ovvero il rigonfiamento del disco ottico, si può verificare in conseguenza all’elevata pressione intracranica e la sua gravità può essere classificata in 5 gradi secondo la scala di Frisén, che si basa su diversi segni di alterazione del trasporto assoplasmatico. E’ possibile visualizzare questa complicanza tramite esame fundoscopico (fig. 1.13): tramite tale metodica si ottengono delle fotografie, che hanno permesso di confrontare riproducibilità di tale scala tra diversi osservatori, stabilendone una sensibilità di 88-96% e una specificità variabile tra 93 e 100% [56]. Nonostante i risultati di questi studi e la relativa frequenza di applicazione di questa tecnica come metodo di screening di elevata pressione intracranica nei pazienti a rischio, la scala di Frisén non è unanimamente accettata: la tecnica stessa risente dell’abilità dell’operatore e dell’ambiente in cui l’esame viene effettuato, in quanto l’esaminatore necessita di una buona visualizzazione del disco

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