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Terrorismo e diritto penale: l'art. 270 bis c.p. dagli Anni di Piombo al terrorismo islamico

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1

Terrorismo e diritto penale :

l’art. 270 bis c.p. dagli ‘Anni di Piombo’

al terrorismo islamico

1.

Articolo 270 bis ‘Associazioni con finalità di terrorismo

anche internazionale e di eversione dell’ordine democratico’ . 6

1.1.

Terrorismo: definizione e classificazioni ... 6

1.2.

Analisi del fenomeno terroristico In Italia: le

organizzazioni del terrorismo rosso e nero ... 8

1.3.

La risposta istituzionale al terrorismo: la legislazione

d’emergenza ... 13

1.4.

Art. 270 bis c.p.: un nuovo delitto associativo ... 25

1.4.1.

I reati di associazione politica nel codice Rocco ... 26

1.4.2.

Il reato associativo nel testo costituzionale ... 33

1.5.

La fattispecie del 270 bis c.p. ... 45

1.5.1.1.

Il problema della nozione di terrorismo vincolante

per l’ordinamento italiano. Le lacune della riforma del 2001 e

l’introduzione dell’art. 270 sexies ‘Condotte con finalità di

terrorismo’. ... 52

1.5.2.

Il bene giuridico protetto ... 69

1.5.3.

Struttura organizzativa dell’associazione: gli

elementi di prova necessari. Le condotte punibili... 76

1.5.4.

Il dolo specifico ... 84

1.5.5.

Concorso di persone. Circostanze. Sanzioni e profili

processuali. ... 87

(2)

2

1.6.

Gli articoli successivi. Le novità della riforma del 2005.89

1.6.1.

Art. 270 ter ‘Assistenza agli associati’ ... 89

1.6.2.

Il d.l. 144/2005: le nuove fattispecie di arruolamento e

addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche

internazionale ... 90

1.6.2.1.

Art. 270 quater ‘Arruolamento con finalità di

terrorismo anche internazionale’ ... 93

1.6.2.2.

Art. 270 quinquies ‘Addestramento ad attività con

finalità di terrorismo anche internazionale’... 98

1.6.3.

Cenni sull’ art. 497 bis ‘Possesso e fabbricazione di

documenti di identificazione falsi’ e sull’aggravante per la

pubblica istigazione o apologia di delitti di terrorismo o crimini

contro l’umanità. ... 99

1.7.

Le nuove strategie di politica criminale e le modifiche al

codice penale contenute nel d.l. 18 febbraio 2015, n. 7 ... 104

1.7.1.

La persona arruolata ex art. 270 quater, 2° comma . 109

1.7.2.

Art. 270 quater.1 ‘Organizzazione di trasferimenti con

finalità di terrorismo’ ... 114

1.7.3.

Il cd. auto-addestrato ex art. 270 quinquies ... 119

1.7.4.

Cenni sull’aggravante dell’utilizzo di strumenti

informatici e telematici e sulle contravvenzioni ex artt. 678 bis e

679 bis... ... 125

1.8.

La l. 28 luglio 2016, n. 153 ... 128

1.9.

Conclusioni sulle recenti riforme. ... 131

2.

I rapporti del 270 bis c.p. con altre fattispecie di delitto

associativo politico ... 135

2.1.

Il problematico confine tra l’associazione sovversiva (art.

270) e l’associazione terroristica (art. 270 bis) ... 135

2.1.1.

Art. 270 ‘Associazioni sovversive’ ... 136

(3)

3

2.1.2.

Soluzioni per distinguere l’art. 270 bis dall’art. 270.

Nuovo orientamento della Corte di Cassazione (sentenza 23

febbraio 2012, n. 12252). ... 140

2.2.

Relazione tra l’art. 270 bis e gli artt. 304, 305 e

306 c.p. ... 146

2.2.1.

La cospirazione politica mediante accordo ex art. 304

c.p. e i suoi rapporti con l’art. 270 bis. ... 148

2.2.1.1.

L’iter progressivo di tutela della sicurezza dello

Stato: ratio sottesa alla incriminazione della cospirazione

politica……. ... 148

2.2.2.

La cospirazione politica mediante associazione ex art.

305 c.p. e i suoi rapporti con l’art. 270 bis. ... 152

2.2.3.

La banda armata ex art. 306 c.p. e i suoi rapporti con

l’art. 270 bis. ... 155

2.3.

(Segue) Conclusioni in ordine ai rapporti tra l’art. 270 bis

e gli artt. 304, 305 e 306 ... 158

3.

Le strutture del terrorismo islamico nella giurisprudenza

italiana ... 160

3.1.

Le radici del fondamentalismo islamico. La nascita di

Al-Qaeda. I gruppi affiliati e le cellule occidentali. ... 160

3.2.

I paradigmi associativi tradizionali e il cd. paradigma

‘vuoto’ del terrorismo internazionale di matrice islamica ... 171

3.2.1.

Il paradigma strutturale delle associazioni di tipo

mafioso.. ... 174

3.2.2.

Il paradigma teleologico e le associazioni per il traffico

di stupefacenti ... 175

3.2.3.

Il paradigma complesso delle organizzazioni

terroristiche degli ‘Anni di Piombo’ ... 177

3.3.

Le pronunce della giurisprudenza su cellule terroristiche

di matrice islamica ... 180

(4)

4

3.3.1.

Gli strumenti giurisprudenziali orientati sull’elemento

strutturale del 270 bis ... 180

3.3.2.

Gli strumenti giurisprudenziali orientati sulla condotta

partecipativa del 270 bis ... 190

3.3.3.

Gli strumenti giurisprudenziali orientati sull’elemento

soggettivo del 270 bis. La teoria degli scopi mediati. ... 195

3.4.

Conclusioni sull’esperienza giurisprudenziale ... 198

4.

Il terrorismo nel diritto internazionale ed europeo .... 201

4.1.

Il terrorismo nella comunità internazionale ... 201

4.1.1.

L’ approccio settoriale al terrorismo internazionale201

4.1.2.

I tentativi di una definizione globale di terrorismo. . 207

4.1.3.

Il progetto di Convenzione globale sul terrorismo:

problematicità e rapporti con il diritto internazionale

umanitario ... 213

4.1.3.1.

Il diritto internazionale umanitario. Cenni. ... 214

4.1.3.2.

La nozione di ‘terrorismo di Stato’. Cenni... 220

4.1.4.

(Segue) Il dibattito attorno al progetto di Convenzione

globale sul terrorismo ... 222

4.1.5.

La definizione indiretta di terrorismo. La Convenzione

di New York sul finanziamento al terrorismo. ... 224

4.2.

Il terrorismo nel panorama europeo ... 226

4.2.1.

Dalla cooperazione intergovernativa ai ‘Tre

pilastri’… ... 227

4.2.2.

Il Piano d’azione del 2001 e successivi strumenti di

contrasto al terrorismo ... 231

4.3.

Le posizioni comuni della PESC e le decisioni quadro GAI

a seguito dell’11 settembre ... 234

4.3.1.

La decisione quadro 2002/475/GAI e le relative

modifiche ... 236

(5)

5

4.4.

Il contrasto al terrorismo nella UE post Trattato di

Lisbona ... 242

4.4.1.

La recentissima direttiva UE/2017/541 ... 244

5.

Terrorismo internazionale tra guerra e giustizia penale.

Verso un diritto penale del nemico? ... 250

5.1.

I modelli nazionali di contrasto al terrorismo ... 251

5.1.1.

Il modello statunitense ... 251

5.1.2.

Il modello europeo. Caso esemplificativo: il modello

italiano… ... 256

5.1.2.1.

(Segue) Il modello italiano ... 257

5.2.

Verso un diritto penale del nemico? Le teorie di

Jakobs. ... 260

5.3.

Il contrasto al terrorismo deve continuare a passare per

la giustizia penale? Conclusioni.. ... 264

(6)

6

1. Articolo 270 bis ‘Associazioni con finalità di terrorismo

anche internazionale e di eversione dell’ordine

democratico’

1.1. Terrorismo: definizione e classificazioni

Nel corso della Prima Repubblica, per un cospicuo numero di anni, il nostro Paese è stato scenario di eventi criminosi a carattere

terroristico di varia natura.

Volendo circoscrivere un arco temporale di quelli che sono meglio noti alla cronaca come ‘‘Anni di Piombo’’ possiamo assumere come momento iniziale la strage di Piazza Fontana nel 1969 e come momento finale la strage di Bologna nel 1980, avendo però cura di precisare che né l’uno né l’altro evento possono considerarsi inizio e fine del terrorismo in Italia: essi, piuttosto, circoscrivono l’intervallo di tempo nel quale il fenomeno si è manifestato nella sua veste più compiuta e aggravata.

Veniamo ad alcune considerazioni a carattere definitorio. Preliminarmente: cosa si intende per terrorismo?

Molteplici sono le definizioni che troviamo in letteratura, ciascuna delle quali condizionata da un’analisi ora politica, ora sociologica, ora storica; tuttavia non possiamo non evidenziare che due appaiono, comunque, gli elementi costanti: il terrorismo è un fatto politico; il terrorismo si sostanzia in atti violenti destinati a produrre effetti psicologici di terrore sulla popolazione o su frazioni rilevanti della stessa, terrorizzare appunto1. Rimane, però, la difficoltà di

misurare la sua incidenza psicologica su vaste fasce di popolazione tanto più se consideriamo che le organizzazioni terroristiche

abbinano all’intento di terrorizzare quello di veicolare un messaggio

1

(7)

7 allo scopo di riscuotere consenso. E’ corretto infatti dire che il terrorismo è una forma di comunicazione politica2.

Il terrorismo non è soltanto un fenomeno delle democrazie moderne, anzi si descrivono come terroristici eventi storicamente molto diversi tra loro: le congiure di palazzo ai tempi dell’impero romano o dei principati medievali, le lotte di liberazione dei movimenti anticoloniali, gli attentati dinamitardi contro sovrani autocratici e quelli condotti da apparati dello Stato. Ma mentre in passato le azioni terroristiche erano rivolte contro un sovrano, un governo despota, le azioni terroristiche più recenti registrano un cambiamento: più spesso ad essere colpita è stata la gente comune. Guardando agli obiettivi delle organizzazioni terroristiche possiamo distinguere tre categorie di terrorismo3. Abbiamo innanzitutto il

terrorismo etnico-religioso mosso da intenti di rivendicazione di autonomia e spesso legato alla costruzione di Stati o nazioni. Talvolta risulta accentuata l’ispirazione etno-nazionalista, talvolta l’ispirazione religiosa. Nell’esperienza occidentale ricordiamo gli indipendentisti radicali baschi ed irlandesi, rispettivamente ETA ed IRA. Ma organizzazioni clandestine di tal stampo si sono formate anche nel corso dei conflitti etnici nei territori dell’Ex Jugoslavia, dell’ex URSS, di Israele.

La peculiarità del terrorismo etno-nazionalista consiste nel fatto che i gruppi concepiscono se stessi quali eserciti impegnati in una lotta di liberazione nazionale contro potenze straniere.

Negli anni Ottanta abbiamo assistito, poi, al formarsi di una specifica forma di terrorismo religioso: il terrorismo fondamentalista, in specie quello islamico le cui azioni vanno interpretate quali parte di una sorta di ‘guerra santa’ contro i valori occidentali. Tra gli episodi più tragici ricordiamo l’attentato alle Torre Gemelle (2001), gli attentati di Madrid (2004) e Londra (2005) e la strage al Bataclan (2015).

2

D. Della Porta, Terrorismo, (voce), in Enciclopedia Italiana, VII, 2007.

3

(8)

8 In secondo luogo ricordiamo il terrorismo ideologico di destra ed infine il terrorismo ideologico di sinistra. Essi presentano un profilo comune: la finalità di eversione del potere costituito. Un’attenta analisi dei fatti storici e giudiziari, però, dimostra come i due fenomeni siano profondamente diversi, ragione che ci induce a classificarli, appunto, come categorie bene distinte.4

Organizzazioni terroristiche di destra e di sinistra si sono sviluppate in Europa e nel mondo. Tra i gruppi di sinistra: l'Esercito rosso in Giappone, i Weather Underground negli Stati Uniti, la RAF (Rote Armee Fraktion) e le RZ (Revolutionäre Zellen) nella Repubblica federale tedesca, per citare soltanto i gruppi più conosciuti. In America Latina i gruppi guerriglieri, i Montoneros in Argentina, i Tupamaros in Uruguay.

Tra i gruppi di destra invece: FANE (Fédération d'Action Nationaliste et Européene), FNE (Front National Européen) in Francia, i Wehrsportsgruppe Hoffmann in Germania.

Il paragrafo che segue è dedicato specificamente all’analisi del fenomeno terroristico, rosso e nero, in Italia; un’analisi da svolgersi necessariamente prima di addentrarci nello studio della legislazione d’emergenza e in specifico dell’articolo 270 bis c.p. Si cercherà pertanto di focalizzare l’attenzione sugli attori, sulle modalità di realizzazione delle azioni terroristiche e sui bersagli delle medesime.

1.2. Analisi del fenomeno terroristico In Italia: le organizzazioni del

terrorismo rosso e nero

Il terrorismo in Italia ha visto il formarsi di organizzazioni di ‘colore’ opposto che attraverso stragi dinamitarde, assassinii, sequestri di

4

(9)

9 persona, rapine, assalti a sedi di partiti ed istituzioni hanno

variamente tentato di sovvertire il sistema politico dato allo scopo di mutarne la fisionomia o in una non ben definita dittatura del proletariato o, all’opposto, in un regime autoritario di stampo fascista.

La strage di Piazza Fontana il 12 dicembre 1969 segna l’inizio del terrorismo nero. Parallelamente nascono a sinistra i primi due gruppi armati che è opinione comune considerare precursori delle Brigate Rosse: il Gruppo XXII Ottobre e i GAP (Gruppi d’azione partigiana) fondati da Giangiacomo Feltrinelli, mentre i primi volantini a firma BR sono distribuiti alla Sit-Siemens e alla Pirelli nell’autunno 1970.

Il terrorismo rosso in Italia è stato particolarmente prolifico: se consideriamo tutti gli attentati terroristici rivendicati da

organizzazioni riconducibili all’ideologia di sinistra, si contano ben 537 sigle apparse tra il 1970 e il 1982 contro le 137 riconducibili al terrorismo nero5.

Ciononostante la maggior parte dei gruppi di sinistra ha vita breve: poche sono le azioni compiute e fortemente limitate nel tempo. I gruppi maggiori sono due soltanto: le BR (Brigate Rosse) e PL (Prima linea) che rivendicano rispettivamente 645 e 258 eventi terroristici ed, in ogni caso, soltanto le BR sono presenti lungo tutto il periodo (1970-1982), mentre PL ha un arco di attività di 6-8 anni circa (il primo volantino è distribuito nel 1976 dopo l’irruzione del gruppo nella sede dei Dirigenti Fiat di Torino).

Altre organizzazioni minori, ma non del tutto trascurabili e le cui azioni non siano state sporadiche, sono le Formazioni comuniste combattenti (Fcc), le Formazioni armati combattenti (Fac), le Unità comuniste combattenti (Ucc) e i Nuclei armati proletari (NAP). La questione circa le cause del terrorismo di sinistra rimane tutt’oggi controversa.

5

D. Della Porta, Organizzazioni politiche clandestine: Il terrorismo di sinistra in Italia durante gli anni settanta, European University Instutute, 1987.

(10)

10 Alcuni ritengono fattore scatenante la congiuntura economica sfavorevole che ha immediatamente seguito il boom economico con gravi conseguenze in termini occupazionali, in specie fra i giovani. I gruppi armati di sinistra sarebbero, perciò, la ‘disordinata’ risposta alla crisi.

Accanto alla interpretazione economica del fenomeno, troviamo quella più prettamente politica. C’è chi sostiene che la violenza politica sia stata innescata dal sedimentarsi nel secondo dopo guerra di due linee culturali reciprocamente ostili, ma entrambe totalizzanti: cattolicesimo e comunismo.

Infatti non dimentichiamo di considerare che tale frattura culturale era, in quegli anni, accentuata dal clima della guerra fredda durante la quale l’Italia entrò, con la DC al governo, nell’asse

filo-statunitense, nonostante il PCI, secondo partito italiano, rimanesse fedele – almeno fino alla realizzazione del Compromesso storico – alle direttive politiche generali dell’URSS.

C’è chi ha elaborato la tesi del ‘blocco del sistema’6 secondo la quale

la crisi di governabilità avrebbe in qualche modo cristallizzato il sistema rendendolo incapace di innovarsi adeguandosi a nuove esigenze e stimoli. Il sistema sarebbe quindi diventato impermeabile alle riforme, con ciò avendo come conseguenza immediata i

movimenti di protesta ed in seno a questi, tra le frange più estreme di militanti, avrebbe preso piede l’idea che contro un sistema bloccato la lotta armata è una necessità inderogabile.

E’ dunque giusto analizzare la violenza politica di sinistra in

relazione al ciclo di protesta iniziato nell’Autunno caldo, ma avendo cura di evidenziare che la crescita è successiva, ed è anche l’effetto della necessità di rispondere a scontri con le autorità di polizia o con i militanti di destra.

Pensiamo alle BR: esse nascono a Milano, una città sconvolta dai disordini del movimento studentesco ed operaio. A Torino la

6

L. Bonanate (a cura di), Dimensioni del terrorismo politico. Aspetti interni e internazionali, giuridici e politici, 1979, Milano, 177.

(11)

11 dinamica degli eventi è simile.

Si capisce quindi per quale ragione luogo d’elezione dei gruppi terroristici di sinistra è la fabbrica: non solo i militanti sono perlopiù reclutati tra le file degli operai delle grandi imprese, ma gli stessi bersagli sono nella stragrande maggioranza bersagli economici. Infatti, il 43,7% delle azioni si concentrò contro le imprese: talvolta contro l’istituzione in un suo simbolo materiale, talaltra in suo ‘agente’, in genere collocato ai livelli gerarchici più alti – la classe dirigenziale7.

Elevato è anche il numero di azioni contro gli apparati repressivi dello Stato, primi fra tutti gli organi di polizia, dove però ad essere colpiti furono, al contrario, i livelli gerarchicamente più bassi – semplici agenti di polizia.

Un numero minore di azioni si svolse contro bersagli politici: tra i partiti il più colpito è la Dc, tra le organizzazioni sindacali la Cisnal. La circostanza che il terrorismo di sinistra sia stato un fenomeno ‘di fabbrica’ ci induce a fare due considerazioni: la prima è che il fenomeno ha avuto scarsa diffusione al Sud; la seconda è che nella primissima fase (1970- 1974 circa) risulta predominante l’azione di propaganda fra la classe operaia. Soltanto dopo la ‘propaganda armata’ viene la fase di ‘attentato al cuore dello Stato’, una fase che culmina nel sequestro, e poi assassinio, di Aldo Moro.

Per quel che concerne il terrorismo di destra, i più importanti gruppi terroristici sono: Ordine Nuovo, Ordine Nero, Avanguardia

Nazionale e i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR)8.

Terreno fertile di questi gruppi è l’ambiente della destra radicale ed extraparlamentare la cui ideologia si pone in netta contrapposizione a quella del più grande partito fascista del dopoguerra: MSI.

Tra il terrorismo rosso e il terrorismo nero corre una grande

differenza soprattutto in termini di metodologia d’azione: gli studi e le sentenze che hanno accertato la responsabilità dei fatti di

7

D. Della Porta, Organizzazioni politiche clandestine, cit., 96 ss.

8

(12)

12 terrorismo dimostrano che ‘lo stragismo’ è il carattere che

contrassegna le azioni dell’eversione di destra. Infatti ai militanti della destra sono riconducibili ben sei stragi verificatesi in Italia: la strage di Piazza Fontana, la strage di Piazza della Loggia a Brescia, la strage di Peteano, la strage dell’Italicus, la strage di Bologna – di tutte la più sanguinosa – e in ultimo la strage del Rapido 904. Ragioni ideologiche hanno spinto i gruppi terroristici di sinistra a non adottare la tattica dell’attentato dinamitardo: l’uccisione di soggetti inermi, infatti, avrebbe scongiurato l’intento delle

organizzazioni di sinistra di distinguersi dai gruppi di destra, con ciò alienando alle medesime parecchie simpatie.9

Con riferimento alle modalità di azione dei gruppi eversivi di destra si è parlato di “strategia della tensione”, espressione coniata dal settimanale inglese The Observer all’indomani della strage di Piazza Fontana con la quale descrivere quella tattica basata principalmente su una serie preordinata e ben congegnata di atti terroristici, volti a creare uno stato di tensione e una paura diffusa nella popolazione, tali da far giustificare, o addirittura auspicare, svolte di tipo

autoritario.

Ma l’aspetto più inquietante della storia del terrorismo nero

concerne la collaborazione con i lati più oscuri del potere costituito: indagini giudiziarie hanno rivelato che elementi riconducibili ai servizi segreti, italiani ed esteri, ed alla massoneria erano in contatto sia con i gruppi eversivi responsabili delle stragi sia con quelli che progettavano colpi di Stato10. Quegli stessi servizi segreti

sembrerebbero essere responsabili di depistaggi e deviazioni che hanno irrimediabilmente pregiudicato la chiara ricostruzione dei fatti e delle connesse responsabilità: lo dimostra la frequente assoluzione ‘per insufficienza di prove’ verificatasi nei processi in corso in quegli anni.

9

D. Della Porta, Organizzazioni politiche clandestine, cit., 88 ss.

10

(13)

13

1.3. La risposta istituzionale al terrorismo: la legislazione

d’emergenza

Il radicarsi della presenza terroristica in Italia spinge il legislatore a ricorrere alla ‘Legislazione d’emergenza’: dal 1974 in avanti

assistiamo ad una ricca e disordinata proliferazione di leggi e decreti-legge pensata per isolare e colpire i recenti fenomeni di violenza politica intervenendo tanto sul fronte penalistico sostanziale che su quello processuale secondo una linea di accentuazione della repressione penale.

Prima in ordine di apparizione è la cd. Legge Bartolomei del 14 ottobre 1974 n. 497 recante ‘Nuove norme contro la criminalità’. La legge prescrive l’obbligatorietà del giudizio direttissimo, in assenza della necessità di speciali indagini, per una gamma di reati

nominativamente indicati dall’art. 2, modifica l'art.630 c.p.

‘Sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione’, interviene sulla precedente l.895/1967 ‘Disposizioni per il controllo delle armi’. A seguire è emanata la cd. ‘Legge Reale’ del 22 maggio 1975, n. 152 concernente ‘Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico’. Vediamone i punti essenziali.

L’articolo 3 estende il ricorso alla custodia preventiva permettendo, anche in assenza di flagranza di reato, il fermo preventivo di soggetti di cui si sospetti la fuga e nei cui confronti ricorrano sufficienti indizi di delitto per il quale la legge stabilisce la pena non inferiore nel massimo a sei anni di reclusione ovvero di delitto concernente le armi da guerra o tipo guerra, i fucili a canna mozza, le munizioni destinate alle predette armi o le materie esplodenti. Prevedendo che il decreto di convalida possa essere emesso dall’autorità giudiziaria al più tardi nelle 48 ore successive al ricevimento della comunicazione dell’ufficiale di polizia giudiziaria che ha effettuato il fermo, di fatto il legislatore del ‘75 acconsente ad un fermo della durata massima di 96 ore.

(14)

14 L’articolo 5 vieta l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro elemento atto a rendere difficoltoso, senza giustificato motivo, il riconoscimento della persona in luogo pubblico o aperto al pubblico. Altra previsione di grande importanza è quella contenuta all’articolo 14 di modifica dell’articolo 53 c.p. ‘Uso legittimo delle armi’: è consentito alle forze dell'ordine di usare legittimamente le armi non solo in presenza di violenza o di resistenza, ma comunque quando si tratti di «impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio,

sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona».

Infine un cospicuo gruppo di articoli modifica alcune previsioni della cd. Legge Scelba del 20 giugno 1952, n. 645 in tema di

riorganizzazione del partito fascista provvedendo ad un inasprimento delle sanzioni penali.

Nello stesso frangente il legislatore ritorna ancora una volta sulla disciplina delle armi con legge del 18 aprile 1975, n.110 recante ‘Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi’.

Fino a questo momento, tuttavia, l’intervento del legislatore è stato di modificazione di precedenti disposizioni normative: né

contemplando un atteggiamento di innovazione, né mai prevedendo l’utilizzo dell’espressione ‘terrorismo’. L’una e l’altra sono invece caratteristiche del decreto-legge del 15 dicembre 1979, n. 625 ‘Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica’, convertito con modifiche dalla legge del 6 febbraio 1980, n. 15.

Il decreto-legge costituisce il capitolo finale della legislazione d’emergenza di questi anni ed allo stesso tempo il più incisivo e la ragione è semplice: il rapimento dell’Onorevole Moro, l’uccisione di cinque agenti della sua scorta – cd. Strage di via Fani – e l’assassinio dello stesso dopo un lungo periodo di detenzione segnato da

comunicazioni e tentativi di compromesso tra le BR e i più alti organi dello Stato ha reso evidenti le falle del sistema di fronte ad un

(15)

15 terrorismo che è sempre meglio organizzato.

Dalla data di approvazione del decreto-legge dal Consiglio dei Ministri alla data di conversione dello stesso alla Camera ci sono state altre 13 vittime dell’eversione tra cui il professore Vittorio Bachelet, vice presidente del Consiglio Superiore della

Magistratura, assassinato dalle BR in un assalto alla Sapienza. Il legislatore italiano è stretto tra l’incudine e il martello: da un lato egli non può trascurare l’esigenza di rassicurare la popolazione – dalla gente comune ai bersagli più esposti, in primis le forze di polizia

– dall’altro non può ignorare il rispetto delle garanzie costituzionali.

Ci si domanda se, allo stato delle cose, il garantismo sia un intralcio o se, al contrario, sia condizione necessaria per la buona tenuta del sistema coercitivo.

La Repubblica ‘garantisce i diritti inviolabili dell’uomo’ (art. 2 Cost.) eppure è suo compito anche quello di ‘rimuovere gli ostacoli economici

e sociali che […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana’

(art. 3 Cost.).

La stessa Corte Costituzionale11, esprimendosi in merito alle

disposizioni della legge 152/1975, ma anche in altre occasioni, ha prestato consenso alla decisione del legislatore di stringere le maglie della repressione penale. Nella sentenza la Corte asserisce che ‘le disposizioni a tutela dell'ordine pubblico, introdotte da detta

legge, hanno come scopo dichiarato il rafforzamento della tutela della incolumità e sicurezza dei cittadini’.

Non dissimile è la motivazione fornita dal Governo nella relazione al d.d.l. di conversione: è volontà del legislatore ‘elevare la capacità di

risposta dell’ordinamento alla provocazione ed alla distruttività della delinquenza e dell’eversione’. Il tutto condensato in una logica di

inasprimento del potenziale sanzionatorio.

Le reazioni sono state particolarmente scettiche: benché la

popolarità delle leggi liberticide sia ormai un fatto noto per i politici, la alluvionale produzione legislativa di questo periodo storico non fa

11

(16)

16 altro che dimostrare la debolezza dello Stato, costretto a ritornare ad un medioevo del diritto penale il cui potere deterrente non si è però dimostrato efficace a sufficienza: se è vero che tra i gruppi di terroristi ci sono stati quelli che, accettati gli scontri a fuoco, sono morti, e che tali episodi non sono serviti a scoraggiare gli altri compagni, scontata è la risposta al perché mai dovrebbero lasciarsi intimorire da sanzioni penali più severe. Quasi una sorta di vortice dove escalation repressiva ed escalation terroristica si alimentano a vicenda.

Il 15 dicembre 1979 il decreto-legge è approvato dal Consiglio dei Ministri: votato con modificazioni al Senato, ma comunque

incontrando il consenso di quasi tutti i partiti, il testo passa in esame alla Camera dei Deputati che lo approva senza ulteriori

modificazioni, complice la proposizione della ‘questione di fiducia’ al Governo sull’unico articolo del d.d.l. di conversione.

Negli stessi giorni il Governo presenta al Senato il d.d.l. 601 ‘Misure per la lotta alla criminalità terroristica ed organizzata’ auspicando di condurre in parallelo la approvazione di entrambi i testi, salvo poi dovere rinunciare al proposito per via del rischio di decorrenza dei termini per la conversione dei decreti legge.

I fatti, anche particolarmente gravi, di terrorismo accaduti nei mesi precedenti l’emanazione del decreto, sono stati tali da integrare validamente i caratteri di ‘straordinaria necessità ed urgenza’ richiesti dall’art. 77 Cost. quali presupposti per il ricorso ai decreti legge.

Eppure il caso specifico della conversione del d.l. 625 ha presentato una diversa anomalia: l’aver posto la questione di fiducia sul d.d.l. ha impedito lo svolgimento di una discussione più approfondita

oltretutto su prerogative che non sono di competenza del Governo, a cui è andata la fiducia, ma della magistratura.

Vediamo a questo punto la struttura della legge. L’art.1 prevede una circostanza aggravante.

(17)

17

democratico punibili con pena diversa dall'ergastolo, la pena è

aumentata di metà, salvo che la circostanza sia elemento costitutivo del reato.

Quando concorrono altre circostanza aggravanti, si applica per primo l’aumento di pena previsto per la circostanza aggravante di cui al comma precedente.

Le circostanze attenuanti concorrenti con l’aggravante di cui al primo comma non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e alle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o ne determina la misura in modo indipendente da quella ordinaria del reato’.

Al momento della conversione è stata soppressa la parola ‘sempre’ riferita all’aumento di pena da che ne consegue che la circostanza non opera in via automatica. Essa rientra nel novero delle

circostanze aggravanti comuni, tuttavia mentre le aggravanti ex art. 61 c.p. comportano un aumento fino ad un terzo, l’aggravante in parola contempla un aumento in misura fissa. Al pari delle altre circostanze comuni, quella in esame può essere applicata solo quando la finalità terroristica o eversiva non possa considerarsi elemento costitutivo della fattispecie criminosa e questo al fine di evitare che un medesimo fatto/elemento sia considerato più volte a carico del colpevole con violazione del principio del ne bis in idem. Il 2° comma stabilisce che, in presenza di un concorso omogeneo di circostanze, in via prioritaria il giudice debba considerare l’aumento di pena della circostanza di cui al precedente comma: l’intenzione del legislatore è, con ogni probabilità, quella di fornire una base più elevata per il computo degli ulteriori aumenti concorrenti.

La norma sembrerebbe richiedere che tale prioritaria valutazione operi in ogni caso, anche nell’eventualità che a concorrere siano circostanze a pena di specie diversa o indipendenti da quella ordinaria. Ma bisogna notare che per il caso appena richiamato opera l’art. 63 c.p. il quale richiede che si applichi per prima la circostanza con pena di specie diversa o autonoma; se così non

(18)

18 fosse, l’effetto aggravatore della circostanza comune risulterebbe vanificato.

Pertanto è opportuno ritenere che l’applicazione dell’art. 1, 2° comma non costituisca una deroga al regime dell’art. 63.

Il 3° comma dell’articolo in esame ha sollevato diversi problemi. Il testo del decreto-legge citava: ‘Quando la circostanza aggravata

prevista dal comma 1° concorre con una o più circostanze attenuanti, non sono applicabili le disposizioni dell’articolo 69 c.p.’. Ovvero: la

circostanza aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico rimane esclusa, nell’eventualità di concorso eterogeneo tra circostanze, dal giudizio di comparazione (art. 69, 1° e 2° comma) e dal giudizio di equivalenza (art. 69, 3° comma). Molti avevano visto nella disposizione così formulata un ritorno al tenore dell’articolo 69 c.p. prima della riforma del 1974: originariamente, infatti, il testo stabiliva che le regole menzionate nell’articolo medesimo non trovassero applicazione con riferimento ad alcune specifiche categorie di circostanze (quelle con pena di specie diversa o indipendente dalla pena del reato-base) e soltanto con la riforma del 1974 la deroga è stata abolita.

Orbene, al momento della conversione del decreto-legge l’art. 1, 3° comma è stato modificato adottando la diversa formula secondo la quale ‘le circostanze attenuanti […] non possono essere ritenute

equivalenti o prevalenti’ quando concorrono con la aggravante di cui

al 1° comma.

Stante questa formulazione, l’art. 1, 3° comma non esclude la applicabilità per intero dell’articolo 69 c.p., ma esclude soltanto che, rispetto alla nuova circostanza aggravante, possano aversi casi di prevalenza o di equivalenza di circostanze attenuanti; rimane invece del tutto possibile l’evenienza che risultino prevalenti le aggravanti. Questa disciplina, però, solleva alcune per perplessità.

La prima riguarda il fatto che tale deroga, in peius, di cui al 3° comma debba essere considerata insieme all’estensione della aggravante della finalità di terrorismo o di eversione a qualsiasi evento

(19)

19 criminoso, anche quando non sia in concreto adeguato al

raggiungimento di detta finalità.

Si pensi, ad esempio, al delitto di imbrattamento di cose altrui (art. 639 c.p.) o alla contravvenzione concernente il divieto di affissioni (art. 663 c.p.): tali reati potrebbero essere commessi con il

perseguimento di una finalità terroristica, ma è evidente che dette condotte non sono tali da turbare la pubblica tranquillità o

l’integrità dello Stato12.

La seconda invece è di ordine costituzionale, in relazione ad una possibile violazione del principio di uguaglianza: l’avere statuito che il giudice, in presenza della circostanza in parola, non possa mai contemplare la prevalenza o la equivalenza di altre circostanze attenuanti eventualmente concorrenti è tale da potere introdurre una disparità di trattamento rispetto alla situazione opposta in cui risultino prevalenti le attenuanti13.

La Corte Costituzionale14 ha avuto modo di pronunciarsi in merito

alla ratio sottesa alla aggravante della finalità di terrorismo o eversione, chiarendo cosa essa specificamente vieti di fare al giudice.

Veniva sollevata questione di legittimità costituzionale dalla Corte di Assise di Genova con ordinanza del 21 dicembre 1983.

Queste le rilevazioni fatte dalla Corte:

- che la presenza della aggravante ex art. 1 della l. 15/1980

impedisce l’applicazione delle attenuanti, oltre che precludere in via assoluta un giudizio di prevalenza o equivalenza delle attenuanti rispetto alla suddetta aggravante;

- che l'ultimo comma del decreto sarebbe stato di segno contrario ai principi del nostro ordinamento processuale, in quanto il ripristino del divieto del giudizio di bilanciamento, così come avveniva prima della novella del'74, avrebbe avuto un senso solo nei confronti delle

12

G. De Francesco, Commento all’art. 1 d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, in Leg. Pen., 1981, 36 ss.

13

G. De Francesco, Commento all’art. 1 d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, cit.

14

(20)

20 circostanze aggravanti cd. autonome, ma non nei riguardi

dell'aggravante che si va esaminando, che è circostanza comune. In merito a quest’ultimo profilo, la Consulta afferma che se è vero che la circostanza aggravante della finalità terroristica ha carattere comune, è pur vero, però, che il legislatore mostra chiaramente di volerla assoggettare alla disciplina delle circostanze ad effetto speciale, e ciò rientra sicuramente nei suoi poteri.

Quanto all’altra considerazione fatta, la Corte, argomentando a partire dalle parole del Sottosegretario alla Giustizia rese nella discussione parlamentare per la conversione in legge (occasione in cui, ricordiamo, il 3° comma del d.l. fu sostituto) chiarisce che in nessun luogo del citato intervento è detto che la nuova

formulazione esclude radicalmente ogni possibilità di applicare attenuanti. Ciò che il legislatore ha fatto è stato ‘soltanto di non

consentire che l'aggravante che introduceva potesse essere posta nel nulla dal potere discrezionale del giudice mediante il suo dissolvimento nel giudizio di equivalenza o addirittura di prevalenza delle attenuanti’,

una limitazione alla discrezionalità del giudice che non avrebbe potuto sopportarne un’altra, più ampia.

Ricapitolando: rimane nelle facoltà del giudice l’applicazione delle circostanze attenuanti, qualora non intenda esercitare quel giudizio di bilanciamento che la legge consente solo a favore dell'aggravante

de qua. Le diminuzioni saranno apportate sulla pena risultante dagli

aumenti indotti dalle aggravanti, secondo la regola generale. L’articolo 2 del decreto introduce una nuova figura di delitto di attentato che va a prendere il posto dell’abrogato art. 280 c.p. :‘Attentato per finalità terroristiche o di eversione’ alla vita o alla incolumità di una persona. Il codice contempla già delle figure di attentato all’interno del titolo dedicato ai delitti contro la

personalità dello Stato: si tratta di fattispecie a tutela anticipata di interessi statali ove la anticipazione di tutela risulta giustificata perché l’aggressione ai danni di tali interessi – essenziali alla vita della comunità politica – si assume di per sé come ‘eversione

(21)

21 dell’ordine democratico’. Ad assumere rilevanza è più lo scopo sotteso all’azione che non la materialità dell’azione, cosa che, peraltro, desta non poche perplessità dal momento che accentua la tendenza a ‘soggettivizzare’ l’illecito penale15.

Il nuovo art. 280 è una fattispecie di attentato a tutela di beni individuali che punisce chiunque attenti, per finalità di terrorismo o di eversione, alla vita o alla incolumità di una persona. I commi 2° e 4° contemplano due circostanze aggravanti per il caso che

dall’attentato derivino lesioni gravissime o la morte della persona. Interessante è l’ipotesi del 3° comma: il legislatore stabilisce un aggravamento di pena quando l’attentato sia diretto contro la vita o la incolumità di soggetti che, per la natura della funzione che

rivestono nella compagine sociale, costituiscono i bersagli preferiti degli attentati terroristici: magistrati, direttori di istituti

penitenziari, agenti di pubblica sicurezza, eccetera.

L’articolo 3 del decreto aggiunge al codice penale un altro articolo che prevede una nuova fattispecie di reato di associazione, l’art. 270 bis ‘Associazioni con finalità di terrorismo e di eversione

dell’ordine democratico’, che costituisce il nodo centrale del presente

lavoro e che pertanto sarà analizzata in maniera dettagliata più avanti.

Gli articoli 4 e 5 introducono rispettivamente una circostanza attenuante e una causa di non punibilità per il ‘terrorista pentito’ secondo una linea di politica criminale che intende favorire ripensamenti dei singoli attraverso la promessa di un trattamento penale di maggiore beneficio allo scopo ultimo di indurre motivi frattura all’interno delle organizzazione terroristiche.

Già in occasione del decreto antiterrorismo del Marzo 1978 il legislatore si era lasciato ispirare dalla medesima logica prevedendo all’art. 289 bis c.p. una forte diminuzione di pena per il concorrente in sequestro di persona a scopo di terrorismo che avesse procurato

15

G. De Francesco, Commento all’art. 2 d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, in Leg. Pen., 1981, 43 ss.

(22)

22 la libertà dell’ostaggio.

L’art. 4 dà consistenza alla figura del ‘terrorista pentito’

introducendo a favore del concorrente in un delitto terroristico una circostanza attenuante speciale suscettibile di articolarsi in due ipotesi alternative: la prima consiste nel dissociarsi dagli altri concorrenti e adoperarsi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, l’altra invece nel fornire aiuto concreto all’autorità di polizia e all’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti. L’attenuante comporta la sostituzione dell’ergastolo con la reclusione di dodici anni e per le altre pene la diminuzione da un terzo alla metà.

La concessione del beneficio è limitata al concorrente, mentre rimane escluso l’autore individuale di un delitto di terrorismo. La scelta si giustifica perché la criminalità terroristica si concreta per lo più in forme associative; inoltre, ove si avesse il raro caso di un delitto terroristico individuale il pentimento del reo a seguito della consumazione non potrebbe assumere altre vesti che quelle della attenuante dell’art. 62 n. 6, ultimo inciso: ‘l'essersi , prima del giudizio

e fuori del caso preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato’. Tra l’art. 62, n. 6 c.p. e

l’art. 4 del decreto-legge sussiste un rapporto di specialità reciproca bilaterale: ambito di applicazione, requisiti, modalità e limiti

temporali del ‘pentimento’ sono differenti16.

L’attenuante non si riferisce a tutti i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione, ma ai soli delitti; inoltre il 2° comma prevede una speciale deroga: ‘Quando ricorre la circostanza di cui al

comma precedente non si applica l’aggravante di cui all’art. 1 del presente decreto.’

Tuttavia non si può fare a meno di notare che la disposizione finisce

16

T. Padovani, Commento all’art. 4 d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, in Leg. Pen., 1981, 55 ss.

(23)

23 per realizzare un paradosso non indifferente: la limitazione ai soli delitti fa sì che il concorrente in una contravvenzione di terrorismo ed eversione non solo non possa beneficiare dell’attenuante in parola, ma ricorrendo l’aggravante di terrorismo gli sia precluso il beneficio di qualsivoglia attenuante in forza del meccanismo di cui all’art. 1, 3° comma.

Come il legislatore ha considerato il caso della contemporanea presenza della aggravante di terrorismo e della attenuante del ‘pentimento’, risolvendola nel senso della sola applicazione di quest’ultima, così avrebbe dovuto considerare l’eventualità della concorrenza tra l’attenuante e le aggravanti speciali dell’art. 280, pure questo novità del decreto. Infatti il tenore dell’ultimo comma dell’art. 280 è il medesimo dell’art. 1, 3° comma: la preclusione del giudizio di prevalenza o di equivalenza delle attenuanti.

Tale dimenticanza, passibile di concretizzarsi in un trattamento discriminatorio, con violazione dell’art. 3 Cost., è da considerarsi risultato della frettolosità legislativa.

L’art. 5 del decreto introduce una causa speciale di non punibilità, plasmata sulla figura del recesso attivo di cui all’art. 56 c.p., per l’autore di un delitto di terrorismo che volontariamente impedisca l’evento. La lettera dell’articolo è stata profondamente modificata dalla legge in conversione: il precedente testo limitava l’esclusione dalla punibilità soltanto ad alcune fattispecie criminose

specificamente richiamate dalla norma: strage, incendio, naufragio o disastro aviatorio, disastro ferroviario ed altri delitti di attentato e, guardando ai soggetti, si riferiva a ‘coloro che impediscono

volontariamente l’evento a cui il fatto era diretto’17.

Il testo emendato ha modificato questa ultima locuzione limitandosi a trattare di ‘evento’, ha eliminato il rinvio alle singole fattispecie criminose, aprendosi quindi più in generale ai delitti a finalità terroristica o eversiva, ed ha inserito in apertura il rinvio all’art. 56 c.p. ‘Fuori del caso previsto dall’articolo 56 del codice penale’.

17

(24)

24 E’ stata proprio l’aggiunta di tale clausola di riserva a scatenare delle divergenze interpretative. Sappiamo che l’art. 56 c.p. regola il tentativo di delitto. Ora secondo qualcuno il mancato riferimento al delitto tentato nell’art. 5 dovrebbe indurre a credere che sia

suscettibile di un’applicazione estensiva, quindi anche ai delitti di attentato; al contrario c’è chi ritiene che la clausola di riserva abbia precipuamente la funzione di attrarre la nuova causa di non

punibilità nell’orbita del tentativo. A suffragio di questa tesi la modifica operata sull’articolo con eliminazione del riferimento alle fattispecie di attentato.

Rimane comunque una importante differenza rispetto al ‘recesso attivo’ di cui all’art. 56 c.p.: al fine di beneficiare della non punibilità , e non della sola attenuazione di pena (art. 56 c.p.), è richiesta una condotta ulteriore: il reo deve fornire elementi di prova

determinanti per la esatta ricostruzione del fatto e per la

individuazione degli eventuali concorrenti. Dove per ‘determinanti’ si intende che l’accertamento conseguente abbia potuto aver luogo proprio grazie alle prove fornite dal colpevole.

A seguire troviamo disposizioni di natura procedimentale e processualpenalistica che in questa sede affronteremo in via soltanto sommaria considerato che il codice di procedura cui rinviano non è più in vigore18.

Il legislatore del ‘79 torna ancora una volta sulla disciplina del fermo. Sappiamo che sotto al genere ‘fermo’ troviamo due species: ‘il fermo di polizia giudiziaria’ (o anche cautelare o processuale) di cui all’art. 238 del vecchio codice di procedura penale sul quale il legislatore ritorna all’art. 7 ed ‘il fermo di polizia’ o anche ‘di sicurezza’ in

18

Per una disamina più esaustiva v. C. R. Calderone, Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica, in Giur. Mer., 1980, 714 ss; ID, Emergenza e necessità di tutela dell’ordine democratico, in Giur. Mer.,1980, 209 ss; S. Giambruno, Considerazioni sulle ultime ‘Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica’, in Giust. Pen., 1980, 361 ss.; M. Mazzanti, La legge 6 febbraio 1980, n. 15 contro il terrorismo, Giust. Pen. 1980, 255 ss; D. Pulitanò, Le misure del governo per l’ordine pubblico, in Democrazia e Diritto, 1980, 19 ss.

(25)

25 relazione al mantenimento dell’ordine sociale e della sicurezza pubblica di cui all’art. 6 del decreto Cossiga.

L’ultimo comma dell’art. 6 stabilisce la temporaneità delle disposizioni: ‘si applicano per la durata di un anno a partire dalla

entrata in vigore del presente decreto’ . Concretamente, allo scadere

del termine, il Parlamento ha approvato una proroga di un altro anno ancora.

L’articolo 8 del decreto interviene sulla concessione della libertà provvisoria per il delitti aggravati dalla finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, per quelli previsti dal 165 ter c.p.p. e per le fattispecie del 416 c.p. Il rigore della previsione consistente nel diniego assoluto della misura è stato attenuato in sede di conversione.

L’art. 9 del decreto interviene in materia di perquisizioni di polizia giudiziaria consentendo perquisizioni anche per interi edifici o per blocchi di edifici. Tale facoltà si spinge al punto di consentire altresì la sospensione della circolazione di persone e di veicoli nell’area interessata fino alla conclusione delle operazioni di polizia.

In ultimo vale la pena di ricordare il tenore dell’art. 10 che estende i termini di durata della custodia preventiva per i delitti del 165 ter c.p.p. e del 416 c.p.: il testo del decreto prevedeva un

prolungamento della metà, poi emendato in sede di conversione ad un terzo.

A questo punto, veniamo all’analisi della disposizione più rilevante ai fini del presente lavoro: l’introduzione dell’art. 270 bis nel codice penale.

1.4. Art. 270 bis c.p.: un nuovo delitto associativo

Per mezzo dell’art. 3 la legge di conversione del d.l. 625/1979 aggiunge al codice Rocco una nuova figura di reato rubricata

(26)

26

democratico’.

Si tratta di un reato associativo politico che va ad aggiungersi ad altre figure di reato associativo contemplate nel codice ora nel Titolo I ‘Dei delitti contro la personalità dello Stato’ ora nel Titolo V ‘Dei delitti contro l’ordine pubblico’.

Nei successivi paragrafi saranno oggetto di studio le linee di politica criminale che, dalle codificazioni ottocentesche fino all’avvento della Costituzione, hanno avuto ad oggetto il fenomeno associativo. L’analisi si renderà utile al fine di comprendere come

l’atteggiamento del legislatore sia mutato rispetto al fenomeno e in che misura possono ancora contemplarsi ipotesi di reati a struttura associativa.

1.4.1. I reati di associazione politica nel codice Rocco

La repressione del fenomeno associativo politico è fatto noto al legislatore italiano fin dai tempi delle codificazioni preunitarie: il codice penale del Regno delle Due Sicilie del 1819, il codice penale sardo del 1839 ed il codice penale toscano del 1853 contemplavano figure criminose di questo genere.

A quel tempo il fenomeno trovava spazio nel catalogo grosso modo corrispondente a quello dei reati contro l’ordine pubblico: illecite erano le associazioni e le adunanze costituitesi in

mancanza della preventiva autorizzazione governativa.

L’illiceità, quindi, non dipendeva dalla accertata natura politica del fine dell’associazione; anzi in molte occasioni lo scopo non era affatto menzionato. Erano però, molto spesso, previste delle clausole attraverso le quali escludere l’applicabilità delle

(27)

27 estremi di fattispecie ben più gravi: associazioni politiche dirette contro la sicurezza interna o esterna dello Stato.19

La presenza di simili clausole era indice del fatto che il legislatore non solo puniva l’eversione politica (con quelle più specifiche e gravi fattispecie) ma si preoccupava anche di anticipare la tutela della sicurezza dello Stato attraverso l’incriminazione delle associazioni non autorizzate.

A questa tendenza repressiva – tipica dei regimi dispotici – facevano da sfondo, da un lato, il non riconoscimento del fenomeno associativo come espressione di un diritto di libertà dei cittadini-sudditi, dall’altro, la logica del sospetto che i cittadini si organizzassero in forme di opposizione politica20.

Stabilire che l’autorizzazione governativa fosse condizione per andare esenti da sanzione penale, dimostrava che per mentalità comune dell’epoca la costituzione di una associazione senza permesso valeva quale una sorta di presunzione di colpevolezza. Scriveva infatti il Puccioni, nel commentare il codice penale toscano del 1853, che ‘tali associazioni segrete hanno uno scopo

che i socii […] temono di manifestare perché contrario ai buoni

costumi, o alla religione, o alla sicurezza dello Stato in un modo

diretto o indiretto’21.

Questo quadro è cambiato quando, all’affacciarsi del Novecento, si è diffusa l’ideologia liberale. In termini politico-giuridici ciò ha comportato una attenzione per la difesa dei diritti e delle libertà dell’individuo i quali si collocano in uno spazio autonomo

rispetto all’azione e al controllo statale. Quindi anche quello di costituire liberamente un’associazione è riconosciuto come diritto, purché non avvenga per fini vietati dall’ordinamento. Dunque se, in questo ribaltamento di tendenza, l’approvazione

19

G. De Francesco, I reati di associazione politica. Storia, costituzione e sistema nell’analisi strutturale delle fattispecie, Milano, 1985, 14 ss.

20

F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, VI, 1870, 184.

21

G. Puccioni, Il codice penale toscano illustrato sulla scorta delle fonti del diritto e della giurisprudenza, III, 1856, 521.

(28)

28 governativa alla costituenda associazione non era più richiesta va da sé che anche la correlata illiceità non aveva più senso di esistere: le fattispecie penali in proposito venivano abrogate, rimanevano vigenti quelle che sanzionavano l’eversione politica mediante associazione.

Nei codici preunitari la repressione del fenomeno, racchiusa sotto l’etichetta di ‘delitti contro lo Stato’, era demandata alle fattispecie di ‘cospirazione’ e di ‘banda armata’, considerate attività preparatorie di possibili reati-scopo: per esempio l’attentato alla persona del Re, alla famiglia reale o contro la forma di governo, la guerra civile e la devastazione, la strage o il saccheggio.

Alla banda armata, ma non alla cospirazione, si riferiva anche un gruppo di reati del tutto estranei alla sicurezza dello Stato, ma piuttosto inquadrabili nella categoria dei delitti contro l’ordine pubblico quali il ‘depradare o dividersi denaro, effetti o altre proprietà dello Stato’ o anche l’ ‘invadere o saccheggiare piazze, fortezze, posti militari, magazzini […]’22.

La banda armata, infatti, è stata per lungo tempo intesa come una figura criminosa a metà tra il delitto politico e il delitto contro una generica ‘tranquillità’ pubblica; al contrario la cospirazione godeva di una connotazione politica più spiccata23.

Dal canto suo la fattispecie della cospirazione destava delle perplessità dovute alla sua formulazione: leggiamo nel codice penale sardo del 1859, all’art. 160 che ‘Vi è cospirazione dal

momento in cui la risoluzione di agire sia stata concertata e conchiusa tra due o più persone, quantunque non siasi intrapreso alcun atto di esecuzione’.

La mancata menzione di un qualunque requisito, atto a rendere

22

G. De Francesco, I reati di associazione politica, cit., 22 ss.

23

Sui reati di banda armata e di cospirazione nelle vecchie codificazioni, v. P. Nocito, Alto tradimento (voce), in Dig. It., II, 766 ss; Florian, Delitti contro la sicurezza dello Stato, 1902, 516 ss; S. Roberti, Corso completo del diritto penale del Regno delle Due Sicilie, 1833, 181 ss.

(29)

29 efficiente la realizzazione del programma eversivo, portava a dubitare del carattere ‘associativo’ della cospirazione. Lo stesso non poteva dirsi della banda in quanto corpo armato strutturato secondo uno schema gerarchico-militare.

I meriti del Codice Zanardelli a tal proposito sono stati due: distinguere la banda armata come delitto politico dalla banda armata come delitto contro l’ordine pubblico e dotare la

fattispecie della cospirazione di un requisito di idoneità: art. 134

‘Quando più persone concertano e stabiliscono di commettere con determinati mezzi alcuno dei delitti [...]’24.

Tuttavia sotto la vigenza del codice Zanardelli le fattispecie in questione sono state scarsamente utilizzate; al contrario è stata più ricorrente l’applicazione delle fattispecie a tutela dell’ordine pubblico, in particolare l’associazione per delinquere e

l’associazione con scopo sedizioso e ciò per una ragione storica: al tempo il pericolo da arginare erano i gruppi anarchici. Dal momento che l’obiettivo anarchico non era tanto quello di mutare la forma dell’ordinamento – che è invece la finalità propria della criminalità politica – ma piuttosto quello di

sopprimere l’organizzazione sociale nella sua interezza, allora al legislatore ed agli operatori del diritto erano parso più coerente sanzionare questi gruppi come associazione per delinquere comune o, ove si limitassero a fare propaganda, come associazione a scopo sedizioso25.

Tuttavia non mancavano voci in disaccordo con questo modo di interpretare: c’era chi sosteneva che l’obiettivo finale

consistente nella eliminazione dello Stato implicasse

necessariamente, come obiettivo intermedio, l’eversione del sistema politico dato26.

24

G. De Francesco, I reati di associazione politica, cit., 30-31.

25

G. De Francesco, I reati di associazione politica, cit., 35-36.

26

Cfr. A. Zerboglio, Delitti contro l’ordine pubblico, Milano, 1920, 93-94; C. Manes, Capitalismo e criminalità: saggio critico di sociologia criminale, Roma, 1912, 317 ss.

(30)

30 V’è da dire, come è stato esaurientemente dimostrato27, che

l’opinione maggioritaria celava, in verità, una precisa intenzione: precludere agli esponenti dei gruppi anarchici una serie di benefici e garanzie tradizionalmente riconosciute agli autori di delitti politici. In primis, lo svolgimento del processo in Corte d’Assise, integrata dalla presenza dei giurati i quali si

dimostravano inclini all’assoluzione dei delinquenti politici, interpretando la loro incriminazione come una strategia governativa volta ad impedire focolai rivoluzionari. Ecco, rispetto alle associazioni anarchiche, e poco più tardi anche a quelle socialiste, era intenzione del governo aggirare un simile rischio.

Si faceva anche larga applicazione di una figura delittuosa, dai margini ampi e non definiti, delineata in occasione delle leggi eccezionali a tutela dell’ordine pubblico del 1894, segnatamente art.5 l. 316: ‘associazione diretta a sovvertire per vie di fatto gli ordinamenti sociali’. E’ stata la figura da cui ha tratto ispirazione il legislatore fascista nella redazione dell’art. 270 del codice Rocco.

L’instaurazione del regime fascista ha ovviamente condizionato il sistema di repressione penale, come del resto tutti gli altri settori dell’ordinamento. Nel 1925 veniva conferito incarico al governo di emendare il codice penale in vigore, il codice Zanardelli. L’incarico mutò sostanzialmente forma e piuttosto che modificare il vecchio testo, nel 1930 veniva promulgato il nuovo codice, il codice Rocco, dal nome del Guardasigilli del Governo Mussolini.

Come in ogni regime autoritario, tra le preoccupazioni del governo figurava la necessità di sanzionare i fenomeni di dissenso politico; per questa ragione complessivamente la struttura del nuovo codice si richiamava a schemi e tendenze

27

M. Sbriccoli, Dissenso politico e diritto penale in Italia tra otto e novecento, Milano, 1973, 617 ss.

(31)

31 tipiche della Restaurazione, mantenendo solo in piccola parte una continuità con la legislazione liberale28.

Un ritorno al passato era dato dalla incriminazione delle

associazioni segrete, contenuta nel T.U. di pubblica sicurezza del 1926 e in quello successivo del 1931. Il riferimento è alle

associazioni che non avessero adempiuto all’obbligo di

comunicare all’autorità di pubblica sicurezza, su richiesta, ‘l’atto

costitutivo, lo statuto e i regolamenti interni , l’elenco nominativo delle cariche sociali e dei soci, e ogni altra notizia intorno alla loro organizzazione ed attività’.

Di nuovo lo Stato si arrogava il diritto di sorvegliare, indagare sugli scopi e sulle attività delle associazioni operanti sul territorio nazionale al fine implicito di impedire il formarsi di ideologie in contrasto con il sentimento del partito unico. Il catalogo dei delitti di associazione politica era ampliato ben al di là delle due figure della cospirazione e della banda armata previste dal codice Zanardelli. Erano incriminate le associazioni sovversive (art. 270 c.p.), le associazioni dirette a sopprimere o a distruggere il sentimento nazionale (art. 271 c.p.), la

costituzione, la promozione, l’organizzazione, la direzione o la semplice partecipazione ad associazioni internazionali non autorizzate dal governo (artt. 273- 274 c.p.), la cospirazione politica mediante associazione (art. 305 c.p.) oltre che quella mediante accodo (art. 304 c.p.)

Con questa fattispecie veniva a colmarsi un vuoto normativo: sotto la vigenza del Codice Zanardelli infatti ove l’associazione non avesse presentato i requisiti richiesti dalla fattispecie della banda armata, si era costretti a ricondurre il fatto criminoso nella fattispecie meno grave della cospirazione associativa finendosi con l’equiparare due fattispecie diverse, l’una pensata per sanzionare un mero accordo, l’altra per sanzionare

un’organizzazione. 28

(32)

32 L’introduzione dell’art. 305 consentiva di distinguere una

cospirazione accordo da una cospirazione associativa29. E

contestualmente il legislatore fascista privava la fattispecie della cospirazione mediante accordo di qualsiasi elemento che ne suggerisse una interpretazione in chiave di idoneità (cosa che invece era stata realizzata proprio all’art. 134 del codice Zanardelli).

Rispetto ai delitti di associazione politica il legislatore fascista realizzava altre due novità che vale la pena di ricordare in questa sede.

La prima riguarda i delitti-scopo riferibili ai delitti-mezzo (cospirazione e banda armata): mentre il codice Zanardelli consentiva di riferirli soltanto ad un gruppo ristretto di fattispecie, nominativamente indicate, di attentato politico, al contrario il codice Rocco apriva alla totalità dei delitti contro la personalità interna o internazionale dello Stato, purché si trattasse di delitti non colposi e puniti con la reclusione allargando così le maglie della tutela.

La seconda novità guarda al rapporto tra i delitti-scopo e i delitti-mezzo sotto il profilo della imputazione. Sia la

formulazione della banda armata che quella della cospirazione politica mediante associazione prevedevano, e prevedono tuttora, la punibilità ‘per ciò solo’, il che equivale ad escludere la logica dell’assorbimento dell’atto preparatorio nell’atto finale, andando a colpire il delitto-scopo nel momento della

consumazione e in via ulteriore nel momento della sua preparazione.

Al contrario il codice Zanardelli lasciava aperta la possibilità di una interpretazione di quel tipo: commesso il delitto maggiore in questo rimaneva assorbito l’atto preparatorio.

Altre figure delittuose, sebbene non a carattere associativo, ma

29

Cfr., La Relazione al progetto definitivo del codice penale, vol. V, P. 2a, 1929, 98-99.

(33)

33 afferenti al fenomeno terroristico-politico sono la ‘Propaganda

ed apologia sovversiva ed antinazionale’ e la ‘Istigazione a commettere alcuno dei delitti preveduti dai capi primo e secondo’

rispettivamente collocate agli articoli 272 e 302 c.p. Queste figure sono emblematica testimonianza della scelta repressiva di epoca fascista: in un clima fortemente politicizzato, dove anche le attività quotidiane più comuni portano lo stigma dell’ideologia di partito, qualunque fenomeno di dissenso, individuale o di gruppo, diventa penalmente rilevante. Il quadro muta inevitabilmente con la caduta del regime. Il mutamento della forma di governo porta con sé la novità più grande che la storia di Italia avesse mai conosciuto: la prima Costituzione votata da rappresentanti del popolo.

I padri costituenti hanno la premura di prendere le distanze dall’esperienza del regime, un atteggiamento questo che costituisce il leit motiv dell’intero testo costituzionale.

1.4.2. Il reato associativo nel testo costituzionale

Per quello che più riguarda il presente lavoro, consideriamo gli artt. 17, 18 e 49 Cost. e la XII disposizione finale e transitoria. L’intenzione di marcare la differenza rispetto al regime in materia di associazionismo risulta in maniera palese all’art.18 ‘I

cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza

autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale’.

In un ordinamento democratico e pluralista, la libertà di

associazione presenta una doppia veste: come libertà del singolo di associarsi, ma anche come libertà delle associazioni.

(34)

34 testo costituzionale, all’art.2, ove è indicato che ‘La Repubblica

garantisce e riconosce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità’. E’ un

tratto caratteristico della nostra Costituzione che ha voluto espressamente riferire lo svolgimento della personalità del singolo anche al momento associativo.

Quanto al secondo aspetto, è il caso di dire che l’art.18 non ha precedenti nello Statuto Albertino, il quale si limitava a riconoscere in maniera espressa la sola libertà di ‘adunarsi

pacificamente e senz’armi’30, benché implicitamente la dottrina ne

avesse ricavato il correlato diritto di associarsi fino a che non intervennero le leggi di polizia ad introdurre forti restrizioni nel merito.

Complice una lunga tradizione di controllo dell’autorità governativa sulla costituzione delle associazioni, in Assemblea Costituente fu fatta proposta di introdurre un controllo sui fini delle associazioni, ma gli emendamenti in questione furono respinti.

Il combinato disposto degli articoli 2 e 18 della Costituzione implica la riconosciuta libertà del cittadino di formare

associazioni e di aderirvi nonché la libertà di azione, entro i limiti di cui tratterò avanti, delle associazioni medesime.

Il riconoscimento della libertà di associazione nella Costituzione italiana non costituisce un caso isolato. Infatti negli anni a seguire il diritto in parola è incluso nel catalogo dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla comunità internazionale: lo troviamo enunciato all’art. 20 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’ONU il 10 dicembre 1948, ed all’art. 11 della CEDU, approvata dal Consiglio d’Europa il 4 novembre 1950.

All’art. 18 Cost. la libertà di associazione è riconosciuta nel suo momento generico: il riferimento è al genus ‘associazione’, le cui

30

(35)

35

species trovano disciplina negli articoli successivi: ad esempio

l’art.19 riguarda le associazioni religiose, l’art. 39 quelle sindacali, l’art. 49 i partiti politici.

L’art. 18 Cost. però non fa menzione di cosa debba intendersi per ‘associazione’. A tal proposito viene in soccorso la

definizione più comune di associazione elaborata in sede civilistica come ‘insieme di più persone stabilmente vincolate per il

perseguimento di uno scopo comune’ accogliendo così nel genus

varie species: corporazioni, società civili e commerciali, enti, consorzi, ordini professionali e religiosi e via dicendo31.

Occorre, dunque, che vi sia una collettività di individui i quali decidono di istituire una stabile cooperazione in vista del raggiungimento di uno scopo che trascende quello dei singoli e non si presta ad essere conseguito se non attraverso una collettività.

Non c’è comunanza di opinioni né in merito al requisito della stabilità né in merito a quello della organizzazione32.

Rispetto alla stabilità la giurisprudenza tace e la dottrina è divisa fra chi reputa la stabilità un elemento essenziale e parla di ‘unione duratura’ fra più persone e chi ritiene di collocare nel novero delle associazioni anche quelle il cui carattere di permanenza si presenti relativo od anche occasionale.

Riguardo al secondo aspetto, quello dell’organizzazione, da una parte si sostiene che sia sufficiente un semplice accordo, la mera

affectio societatis scelerum, dall’altra si ritiene che non possa

aversi associazione in mancanza di una organizzazione. Secondo questa opinione si ha associazione quando il gruppo si struttura giuridicamente in funzione dello scopo dandosi delle regole interne così da assicurare il funzionamento della associazione medesima.

31

P. Barile, Associazione (diritto di), in Enc. Dir., III, Milano, 1958, 837 ss.

32

Per una ricognizione delle posizioni dottrinali, v. P. Barile, Associazione, cit. supra.

(36)

36 Ci si domanda poi quale debba essere la natura del vincolo associativo che lega i singoli: necessariamente volontario o è ammissibile anche un legame coattivo? I sostenitori della prima tesi tendono ad escludere dal novero delle associazioni quelle a carattere coattivo e così facendo essi finiscono con il realizzare una discriminazione che non trova fondamento neppure nel testo costituzionale. Ed è per questa ragione che dovrebbe preferirsi la tesi che non considera discriminante, ai fini della qualifica di ‘associazione’, la natura del vincolo33.

A ben vedere qui si confonde la libertà di associazione che si riferisce alla opportunità del singolo di associarsi, elemento mancante nelle associazioni coattive, con la libertà delle associazioni che si riferisce all’agire delle stesse34.

La giurisprudenza35 parla di un ‘fondo comune’, avvertendo che

non è necessario che esso sia fisso e determinato. E’ opinione della dottrina dominante non considerare alla stregua di un elemento essenziale il patrimonio, sebbene di regola sussistente. Autorevole dottrina propone poi una distinzione fra

associazione e riunione: sebbene sia innegabile che il diritto di associazione presuppone il diritto di riunione, l’elemento discretivo tra le l’una e l’altra consiste nella materialità/idealità del vincolo.

Il vincolo che lega i partecipanti alla riunione consiste nella vicinanza di spazio, ha natura materiale; al contrario quel che lega gli associati è un vincolo ideale, sociale e giuridico insieme.36

Ritorniamo a quel che ci dice l’art. 18 Cost.: esso non fa

distinzione tra associazioni, sancendo un profilo di disciplina che è valido per tutte, benché da una parte della dottrina si sia levata l’opinione secondo cui le associazioni a scopo economico

sarebbero escluse dall’applicazione dell’art. 18 Cost., trovando

33

D. Rubino, Le associazioni non riconosciute, Milano, 1952, 40-41

34

P. Barile, Associazione, cit.

35

Cass. 16 ottobre 1954, n. 3823.

36

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