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La disciplina italiana del cognome dei figli alla luce della sentenza n. 286/2016 della Corte costituzionale e prospettive di riforma

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Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

La disciplina italiana del cognome dei figli alla luce della sentenza

n. 286/2016 della Corte costituzionale e prospettive di riforma

IL CANDIDATO IL RELATORE

Giacomo Giovanni Monteleone Prof.ssa Angioletta Sperti

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Indice

Introduzione...1

Capitolo I

La disciplina del cognome in Italia

1.Premessa...6

2. Il cognome coniugale...10

2.1. L'art. 143-bis c.c...10

2.2. L'art. 143-bis c.c. ed il suo rapporto con l'art. 29, 2° comma Cost...….….………..…………14

3. Il cognome comune delle persone unite civilmente...22

3.1. La legge n. 76/2016...22

3.2. Il decreto legislativo n. 5/2017...25

3.3. L'ordinanza del Tribunale di Lecco e i possibili rimedi ai problemi provocati dal d.lgs. n. 5/2017...35

4. Il cognome dei figli...39

5. L'inadeguatezza della regola italiana prevedente l'automatica attribuzione del patronimico...48

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Capitolo II

La giurisprudenza italiana

1. Premessa...54 2. La giurisprudenza amministrativa...57 3. Le ordinanze n. 176 e n. 586 del 1988 della Corte Costituzionale...62 4. Il caso Cusan e Fazzo...70 4.1. Il procedimento dinanzi ai giudici milanesi...70 4.2. L'ordinanza n. 13298 del 2004 della Corte di Cassazione ...75 4.3. La sentenza n. 61 del 2006 della Corte Costituzionale...82 4.4. L'ordinanza n. 16093 del 2006 della Corte di Cassazione ...92

Capitolo III

La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti

dell'Uomo

1. Premessa...96 2. La giurisprudenza della Corte EDU...99 2.1. Il caso Burghartz c. Svizzera...102

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2.2. Il caso Ünal Tekeli c. Turchia...110

2.3. Il caso Losonci Rose e Rose c. Svizzera...120

3. Il caso Cusan e Fazzo c. Italia...128

3.2. Il procedimento dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo...128

3.3. Le conseguenze derivanti per l'ordinamento italiano dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo...141

Capitolo IV

La sentenza n. 286/2016 della Corte Costituzionale e il

disegno di legge n. 1628 in materia di cognome dei figli

1. Premessa...147

2. La parziale dichiarazione di illegittimità della regola sul patronimico...151

2.1. Le origini della vicenda...151

2.2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 286 del 2016 ...155

2.3. Osservazioni sulla sentenza n. 286/2016...167

3. Il disegno di legge in materia di cognome dei figli...174

3.1. Il disegno di legge n. 1628...174

(5)

4. Considerazioni conclusive...192

Capitolo V

La disciplina del cognome dei figli all'estero

1. Premessa...194

1.1. L'esperienza francese...198

1.2. L'esperienza tedesca...203

1.3. L'esperienza olandese...209

1.4. L'esperienza spagnola e portoghese...211

1.5. L'esperienza inglese...216

1.6. Considerazioni conclusive...218

Bibliografia...220

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Introduzione

La tematica relativa al diritto dei genitori di scegliere quale cognome attribuire al figlio al momento della nascita rappresenta, tra le tante, una delle questioni più spinose che abbiano mai interessato da vicino il nostro Paese negli ultimi anni del ventunesimo secolo. L'attenzione nei confronti di una simile questione, manifestatasi nel nostro ordinamento sin dalla fine degli anni ottanta del novecento, si è infatti rafforzata negli ultimi anni, a seguito di recenti vicende giudiziali che hanno censurato la rigidità del nostro sistema di attribuzione del cognome.

Si sta parlando, precisamente, della sentenza del 7 gennaio 2014 della Corte europea dei diritti dell'uomo e dell'ultima sentenza della Corte costituzionale in materia, ossia la sentenza n. 286 del 2016. Oggetto delle avvenute censure da parte delle due Corti è stata, in particolare, quella regola secondo cui, nel nostro ordinamento, ai figli nati in costanza di matrimonio viene automaticamente attribuito il cognome paterno al momento della nascita, anche nel caso in cui vi sia una diversa e contraria volontà dei coniugi a riguardo.

Il nostro Paese, infatti, a differenza di molti ordinamenti europei in cui più ampia libertà di scelta è riconosciuta ai genitori in materia di cognome dei figli (o in cui comunque viene meglio assicurata la parità tra i genitori attraverso l'automatica attribuzione ai figli del cognome di entrambi), è ancora fortemente contraddistinto dall'applicabilità della secolare regola, risalente al diritto di famiglia romano, secondo cui ai figli viene automaticamente attribuito il patronimico.

Una norma che, però, non risulta essere espressa da alcuna disposizione del nostro ordinamento.

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esplicita da alcuna disposizione ha profondamente diviso la dottrina e la giurisprudenza in ordine al carattere giuridico da dover attribuire ad una simile norma.

In particolare, come si vedrà, sono due gli orientamenti che si sono diffusi riguardo al carattere giuridico dover attribuire a tale norma: da una parte, chi ha considerato la norma in questione di natura consuetudinaria, e dall'altra, chi ha invece ritenuto che la norma in questione possa essere presupposta in via implicita da una serie di espresse disposizioni del nostro ordinamento.

Ma, al di là di tali considerazioni, ciò che deve balzare subito agli occhi del lettore è il carattere eccessivamente discriminatorio di siffatta norma nei confronti delle donne italiane. L'automaticità della regola sul patronimico, infatti, comporta per le madri italiane l'impossibilità di poter vedere attribuire ai loro figli, al momento della nascita, anche il proprio cognome.

Sul punto, come si vedrà, è tuttavia intervenuta la Corte costituzionale con la citata sentenza n. 286 del 2016. Tale sentenza, infatti, dichiarando l'incostituzionalità della regola sul patronimico, ha riconosciuto alle madri italiane, che siano d'accordo con i padri dei rispettivi bambini, la possibilità di attribuire ai figli il proprio cognome, ma soltanto in aggiunta a quello paterno.

La sentenza della Corte costituzionale rappresenta certamente un importante passo per le madri italiane; un passo che, però, non le tutela ancora pienamente, poiché, in caso di mancato accordo con i padri dei rispettivi bambini, continuerà a trovare applicazione la regola prevedente l'automatica attribuzione al figlio del solo cognome paterno.

Al fine di rimuovere la discriminazione esistente nei confronti delle madri italiane non è stata quindi sufficiente la sentenza della Corte costituzionale. In materia, appare dunque opportuno (ed in tal senso

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ci si sta muovendo) un intervento del legislatore italiano che attraverso apposito provvedimento normativo riscriva quelli che sono i criteri di attribuzione del cognome dei figli, in maniera tale da evitare qualsiasi discriminazione di genere tra i genitori.

Effettuata questa breve introduzione mi limito adesso ad accennare gli argomenti che saranno affrontati nel presente lavoro e che sono stati rispettivamente suddivisi in cinque capitoli.

Nel capitolo uno della tesi sarà affrontato il generale quadro normativo vigente in Italia in tema di cognome. In particolare, saranno affrontati i seguenti temi: il cognome coniugale e la sua conformità al principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi; il cognome comune delle persone che si sono unite civilmente a seguito della legge n. 76/2016 ed i mutamenti che tale disciplina ha subito a seguito dell'entrata in vigore del recente decreto legislativo n. 5/2017; il cognome dei figli, attraverso un'ampia indagine in ordine al carattere giuridico da dover attribuire alla norma prevedente l'automatica attribuzione del cognome paterno.

Il capitolo due della tesi sarà dedicato ad analizzare la giurisprudenza italiana in tema di cognome dei figli. In primo luogo, sarà analizzato come si sia comportata la giurisprudenza amministrativa dinanzi alle pervenute richieste di mutamento di cognome, avanzate dai genitori attraverso lo speciale procedimento amministrativo previsto dal D.P.R. 396/2000. In secondo luogo, saranno analizzate le prime pronunce rese dalla Corte costituzionale in tema di cognome materno, attraverso le ordinanze n. 176 e n. 586 del 1988. In terzo luogo sarà dedicato ampio spazio al caso Cusan e Fazzo, analizzando

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in particolare come nel suddetto caso si siano comportate la giurisprudenza interna di legittimità e costituzionale in tema di cognome del figlio nato in costanza di matrimonio.

Il capitolo tre della tesi sarà dedicato ad analizzare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in tema di cognome. Tale capitolo sarà suddiviso in due parti: una parte in cui si affronterà come si sia comportata la giurisprudenza della Corte di Strasburgo dinanzi alle principali questioni in materia di cognome riguardanti gli altri Stati aderenti alla CEDU; ed una seconda parte in cui sarà affrontato il procedimento promosso dai coniugi Cusan e Fazzo dinanzi alla Corte di Strasburgo e le conseguenze derivanti dalla sentenza resa in data 7 gennaio 2014 dalla Corte stessa.

Il capitolo quattro della tesi è suddiviso in due parti: la prima parte sarà dedicata alla trattazione della recente sentenza n. 286 del 2016 della Corte costituzionale e alle osservazioni critiche che sono state mosse dalla dottrina nei confronti di tale sentenza; la seconda parte sarà invece dedicata ad analizzare il disegno di legge n. 1628 in materia di cognome dei figli, approvato dalla Camera ed ora all'esame del Senato, e alle osservazioni critiche che nei confronti di tale disegno di legge sono state mosse nelle sedute e nel corso delle audizioni informali tenutesi in 2° Commissione permanente (giustizia) al Senato.

Infine, il capitolo cinque della tesi sarà dedicato alla trattazione della disciplina del cognome così come regolata nei principali Stati europei: in particolare, si prenderanno in esame principalmente due modelli. L'uno che prevede di regola l'attribuzione l'attribuzione al figlio di un solo cognome e che accomuna Francia, Germania e

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Olanda. E l'altro che prevede l'attribuzione ai figli del doppio cognome che accomuna Spagna e Portogallo.

Al di là di tali modelli, si prenderà poi in considerazione anche un ulteriore modello: ovvero il modello adottato dai Paesi di common law, e in particolare quello britannico, in cui ampia libertà in materia di cognome da attribuire ai figli è riconosciuta ai titolari della “parental resposability”.

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Capitolo I

La disciplina del cognome in Italia

1. - Premessa

La nostra costituzione all'art. 2 «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità».

All'interno di tale categoria di diritti fondamentali che l'art. 2 Cost. riconosce e garantisce ad ogni essere umano, è compreso anche il diritto al nome, enunciato come bene di autonomo diritto dal successivo art. 22 Cost., ai sensi del quale è previsto che «nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome».

A conferma di una tale asserzione è intervenuta la stessa Corte costituzionale, che con sentenza n. 13 del 1994, ha stabilito che «tra i diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana, l'art. 2 Cost. riconosce e garantisce anche il diritto all'identità personale, di cui il nome -, appunto, bene di autonomo diritto ai sensi dell'art. 22 Cost. - rappresenta il primo e più immediato elemento caratterizzante, in quanto segno distintivo e identificativo della persona umana nella sua vita di relazione».

Dalla lettura combinata di tali norme e dalla indicazioni della Consulta non può, dunque, sorgere alcun dubbio circa il fatto che il nome faccia parte della categoria di quei diritti inviolabili propri di ogni essere umano, e che, ogni uomo, abbia la libertà di rivendicarlo

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e preservarlo, in virtù del fatto che si tratta di uno dei più importanti segni che contraddistinguono l'identità personale di ciascuno. Precludere una tale prerogativa ad una determinata categoria di persone, infatti, darebbe luogo ad una diretta violazione degli artt. 2 e 3 Cost., nel caso in cui questa non fosse giustificata da preminenti esigenze statali1.

Eppure, ciò è quanto accade nel nostro ordinamento alle donne italiane, alle quali è preclusa la possibilità di attribuire ai figli, nati in costanza di matrimonio o comunque riconosciuti dal padre, il proprio cognome in luogo di quello paterno2.

Infatti, al giorno d'oggi, per effetto della sentenza n. 286/2016, alle mamme italiane è soltanto consentito trasmettere ai loro figli, al momento della nascita, il cognome materno in aggiunta a quello paterno, ma soltanto nel caso in cui i padri dei rispettivi bambini siano d'accordo; oppure, attribuire ai propri figli il cognome materno, sempre in aggiunta a quello paterno, anche in seguito alla già avvenuta registrazione anagrafica del bambino con il solo cognome del padre, presentando al Prefetto apposita istanza di cambio nome, nell'ambito di apposito procedimento amministrativo regolato dal D.P.R. n. 396 del 2000.

Le donne italiane possono, dunque, trasmettere ai figli il proprio cognome, seppur soltanto in aggiunta a quello del padre del bambino.

Ma, proprio il fatto che le donne italiane per vedere attribuire ai loro figli il proprio cognome, e soltanto in aggiunta, debbano rivolgersi al Prefetto, oppure debbano ottenere il consenso del padre, induce a ritenere come l'originario cognome attribuito al figlio al momento della nascita sia esclusivamente quello paterno.

1 Così, Carla Bassu, Nel nome della madre. il diritto alla trasmissione del cognome materno come espressione del principio di uguaglianza. Un'analisi comparata, in Diritto pubblico comparato ed europeo, fascicolo 3, 2016, p. 546

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È difatti quest'ultimo il cognome che ogni bambino italiano sarà inevitabilmente destinato a portare nel corso della sua vita, nel caso in cui non vi sia stato accordo tra i genitori, o nel caso in cui il Prefetto non abbia accolto l'istanza di cambio nome ad esso rivolta. Effettuate tali considerazioni, è dunque evidente come nel nostro Paese ci si trovi dinanzi ad un sistema di attribuzione del cognome in cui la regola è rappresentata dall'automatica attribuzione ai figli del cognome paterno al momento della nascita.

Si tratta di una regola, tuttavia, destinata a recare un vulnus al principio di eguaglianza. In particolare, tale regola si pone in contrasto con lo specifico principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi di cui all’art. 29° 2 comma della nostra Costituzione, poiché lascerebbe intendere una vera e propria posizione di prevalenza del marito rispetto alla moglie nell'ambito dei rapporti familiari3.

Inoltre, si tratta di una regola che poteva essere considerata convincente solamente quando o fin quando il suo ambito di applicazione, come accadeva sino ad alcuni decenni fa, era rappresentato dal solo ordinamento nazionale, risultando invece al giorno d'oggi del tutto datata e superata nella moderna epoca del pluricentrismo normativo e della tutela multilivello dei diritti4.

Infatti, questa, oltre a porsi in contrasto con le rilevanti indicazioni provenienti a livello internazionale ed europeo, finalizzate all'eliminazione di qualsiasi discriminazione di genere nell'ambito dei rapporti familiari5, appare in un evidente posizione di isolamento

3 Così, Bassu, op. cit., p. 547

4 Così, Mario Trimarchi, Diritto all'identità e cognome della famiglia, in www.juscivile.it, 2013, fasc.1., p. 38,

5 Sul punto si veda, la risoluzione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa 27 settembre 1978, n. 376, Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 12 dicembre 1979, e ratificata dall'Italia con legge n. 132 del 14 marzo 1985, e le raccomandazioni del Consiglio d’Europa 28 aprile 1995, n. 1271 e 18 marzo 1998, n. 1362.

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e distanza rispetto alle normative degli altri paesi europei, rimanendo, così, ad oggi quello italiano uno dei pochi ordinamenti giuridici europei non ancora riformati in materia.

Negli ultimi tempi, tuttavia, si vedrà, come la giurisprudenza interna abbia sviluppato una crescente sensibilità nei confronti della tutela del diritto al nome, non mancando di osservare la necessità di riformare la materia.

Sul punto, è intervenuta anche la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che nella sentenza resa in data 7 gennaio 2014 (caso Cusan e Fazzo c. Italia), su cui mi soffermerò in seguito, ha censurato il modello italiano di trasmissione del cognome poiché non consente di derogare alla regola prevedente l'automatica attribuzione del patronimico ai figli nati in costanza di matrimonio, anche ove vi sia una diversa e concorde volontà dei genitori.

Da ultimo, anche la stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 286/2016, su cui pure mi soffermerò in seguito, è nuovamente intervenuta sul punto, prendendo posizione rispetto al passato, dando un forte monito al legislatore, nel senso di una ormai necessaria riforma del sistema di attribuzione del cognome in Italia, dichiarando l'illegittimità costituzionale di quelle disposizioni del nostro sistema, nella parte in cui non consentono ai genitori, che siano d'accordo, di trasmettere ai figli, anche il cognome materno.

Rinviando all'esame delle tematiche citate in questa premessa ai capitoli che seguono, in questo primo capitolo mi occuperò invece di offrire un generale quadro della disciplina del cognome attualmente vigente in Italia. In particolare, si tratterà della questione del cognome coniugale, del cognome comune delle persone unitesi civilmente, ai sensi della recente legge n. 76 del 2016, e del sistema di attribuzione del cognome dei figli.

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2. - Il cognome coniugale 2.1. - L'art. 143-bis c.c.

Nel diritto di famiglia italiano, come in quello degli altri paesi europei, è oggi sancito, ai sensi dell'art. 29, 2° comma Cost., il principio dell'eguaglianza morale e giuridica tra marito e moglie. La disciplina civilistica del matrimonio conferisce infatti eguali diritti ai coniugi; e le norme in tema di responsabilità genitoriale attribuiscono di regola medesimi poteri alla madre e al padre. Sul piano normativo, si dovrebbe dunque ritenere completa l'affermazione del principio di eguaglianza tra i coniugi6.

Eppure vi è una materia, all'interno del nostro diritto di famiglia, la cui disciplina lascia ancora del tutto irrealizzato appieno il principio di eguaglianza suddetto. Si tratta delle disciplina del cognome della moglie e del cognome dei figli nati in costanza di matrimonio. Tale disciplina prevede, da un lato, che la moglie aggiunga al proprio cognome quello del marito, e dall'altro, prevede che ai figli nati da genitori coniugati sia automaticamente attribuito il cognome paterno. Inoltre, una particolare disparità di trattamento emerge per i genitori anche in materia di cognome dei figli nati fuori dal matrimonio7.

Tuttavia, rimandando la trattazione concernente il cognome dei figli ad apposito paragrafo di questo capitolo, ciò che adesso interessa trattare è la problematica relativa al cognome coniugale nell'ordinamento italiano.

Il mutamento del cognome della donna a seguito del matrimonio era già sancito all'interno del nostro Paese dal codice civile del 1865, il quale al suo art. 131 disponeva che “Il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il

6 Così, Cattaneo, op. cit., p. 691 7 Così, Cattaneo, op. cit., p. 691

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cognome, ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza”. Il codice civile del 1942 riprendeva, al suo art. 144, la medesima formulazione del suddetto articolo8.

Difatti, fino alla fine degli cinquanta del novecento nessuno osava mettere in discussione la legittimità di una simile disposizione perché si riteneva che la donna, a seguito del matrimonio, abbandonava, sia fisicamente che giuridicamente, la famiglia paterna per entrare ad esser parte di quella del marito, che esercitava su di lei la c.d. “potestà maritale”9.

Inoltre, si riteneva che le donne dell'epoca, - solitamente casalinghe e, soltanto in residui casi, possedenti un modesto titolo di studio -nutrissero per lo più un certo interesse ad assumere il cognome del marito: infatti, esse, per effetto del matrimonio riuscivano ad acquisire una discreta sistemazione di vita e, alle volte, anche una condizione sociale maggiormente rilevante rispetto a quella precedente le nozze. Da ciò ne derivava l'effettivo interesse delle donne a manifestare all'esterno lo status matrimoniale attraverso l'utilizzo del cognome maritale10.

Interesse che, tuttavia, non sussisteva qualora la donna, prima di sposarsi, avesse già da sola raggiunto una posizione economicamente e socialmente rilevante, attraverso l'esercizio di un'attività commerciale, artistica o professionale: in questa ultima ipotesi, infatti, la donna poteva ben continuare ad utilizzare il proprio cognome, ossia il cognome con il quale si era fatta conoscere nell'ambito di tali attività, indipendentemente da quanto disposto dal codice civile11.

8 Così, Giovanna Marzo, Il cognome della donna coniugata, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1996, fasc. 1, p. 49

9 Così, Marzo, op. cit., p. 49 10 Così, Marzo, op. cit., p. 49 11 Così, Marzo, op. cit., p. 49

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Tuttavia, negli anni sessanta la certezza circa la giustezza di un siffatto atteggiamento nei confronti delle donne è venuta meno. Ciò, ha comportato di conseguenza che anche la disciplina, fino a quel momento vigente, non risultasse più del tutto convincente. E gli stessi esperti di diritto, una volta resi conto di questo diversi sentire, hanno cominciato ad interrogarsi in merito a quale dovesse essere la corretta interpretazione del verbo “assumere” contenuto nell'art. 144 c.c.12

“Assumere” significa che la donna acquisisce il cognome del marito sostituendolo a quello del padre, poiché questa attraverso il matrimonio esce realmente dalla famiglia di origine, perdendo dunque la possibilità di utilizzare il patronimico?13

Oppure, poiché la donna continua a far parte della famiglia paterna ed a esibire i segni distintivi della stessa, pur entrando con le nozze ad esser parte anche della famiglia del marito, “assumere” vuol semplicemente dire che la moglie aggiunge al proprio cognome quello maritale?14 E ancora, qualora si aderisse a quest'ultima

argomentazione, il cognome del marito deve essere anteposto o posposto al quello della moglie?15

Tale animato dibattito, nel frattempo, aveva fortemente coinvolto il legislatore, il quale, nel 1975, con lo scopo di attribuire alle donne una nuova dignità, provvedeva a riformare, con apposita legge, la disciplina civilistica del diritto di famiglia. In particolare, tale legge di riforma, ponendo fine all'istituto della potestà maritale, abrogava

12 Così, Marzo, op. cit., p. 50

13 Cfr. Coviello, Manuale di diritto civile, Milano, 1929, p. 171; Stolfi, Diritto civile, I, Torino, 1934, p. 165

14 Cfr. Jemolo, Il matrimonio, Torino, 1961, p. 423, Briguglio, Sul cognome della donna sposata, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1957, p. 1621; Azzolina, Sul diritto della donna sposata di usare congiuntamente il cognome patronimico e quello maritale, in Giurisprudenza italiana, 1956, I, 2, c. 705; Gangi, Il matrimonio, Milano, 1953, p. 260 e ss., Degni, Il diritto di famiglia nel nuovo codice civile italiano, Padova, 1943, p. 168

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l'art. 144 c.c., e lo sostituiva con il testo dell'attuale art. 143-bis c.c., il quale prevede che «la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze»16.

Insomma, la norma così come formulata dalla legge di riforma del 1975, stabilisce che la donna, una volta sposatasi, acquisisce un secondo cognome – quello del marito – che aggiunge al proprio, posponendolo17.

Una scelta, quella effettuata dal legislatore del 1975, attraverso l'inserimento nel codice civile dell'art. 143-bis, che si presta ad essere di rilevante importanza per ben due motivi:

1) da un lato, mette la parola “fine” all'applicazione dell'antica regola secondo cui la moglie era tenuta assumere il cognome del marito, volta a testimoniare l'abbandono da parte della donna della propria famiglia di origine a seguito del matrimonio, per entrare a far parte, sia fisicamente che giuridicamente, di quella del marito;

2) dall'altro, prevedendo per la moglie la conservazione del proprio cognome a seguito del matrimonio, l'art. 143-bis ha consentito alla stessa di far salvo uno dei principali segni distintivi della propria identità personale, ossia il proprio cognome18.

Inoltre, a seguito dell'introduzione dell'art. 143-bis c.c., differente 16 Così, Marzo, op. cit., p. 49-50

17 Così, Mimma Moretti, Il cognome coniugale, in Trattato di diritto di famiglia, Volume I, Famiglia e Matrimonio, diretto da (di) Giovanni Bonilini, Torino, 2016, p. 788

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appare la funzione svolta dal cognome maritale.

Se, infatti, nel periodo anteriore alla riforma del diritto di famiglia era dato giustamente parlare riguardo al cognome maritale di “cognome coniugale”, in virtù del fatto che la donna con il matrimonio assumeva il cognome del marito che diveniva il suo proprio, all'indomani dell'entrata in vigore dell'art. 143-bis non appare più corretto l'utilizzo di una simile espressione.

Invero, ad oggi, ai sensi della nuova disciplina, prevedente il mantenimento da parte della moglie del proprio cognome e soltanto l'aggiunta a quest'ultimo, postergandolo, di quello del marito, si può ritenere che il cognome maritale rappresenti non tanto il cognome “coniugale”, ma piuttosto quello “familiare”. Infatti, il cognome del marito, acquisito dalla moglie a seguito del matrimonio, è quello che identificherà l'intero nucleo familiare, nel caso di famiglia fondata sul matrimonio19.

Ed è proprio tale cognome, e non quella della moglie, come meglio si vedrà in seguito, che identificherà infatti anche gli eventuali figli che dovessero nascere all'interno del rapporto di coniugio, anche nel caso in cui vi sia una diversa e contraria volontà dei coniugi a riguardo.

2.2. - L'art. 143-bis c.c. ed il suo rapporto con l'art. 29, 2° comma Cost.

Alla luce di quanto evidenziato nel paragrafo precedente, si può certamente ritenere che l'art. 143-bis c.c., introdotto con la legge di riforma del 1975, abbia rappresentato una disposizione di grande novità nel panorama del diritto di famiglia italiano.

Si tratta, come si è visto, di una disposizione che, ponendo fine all'applicazione del secolare principio secondo cui la moglie

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assumeva il cognome del marito, ha conferito alle donne coniugate una nuova dignità; una nuova dignità che, prevedendo per le mogli italiane la conservazione del proprio cognome, ha consentito a queste ultime di far salvo uno dei principali segni distintivi della loro identità personale, ossia il proprio cognome.

Sembrerebbe, a questo punto, essere pienamente tutelata da una tale disposizione la posizione della moglie all'interno del rapporto matrimoniale.

Ma, se si prende attentamente in considerazione la disciplina dettata dall'art. 143-bis c.c., ci si accorge che non è del tutto così. Da una tale disposizione, infatti, emerge ancora una chiara posizione di prevalenza dell'uomo rispetto alla donna nell'ambito dei rapporti familiari.

Se, difatti, da una parte è vero che, attraverso una tale disposizione, adesso le mogli possono conservare il proprio cognome, dall'altra parte, è pure vero che esse vedranno aggiungere al loro cognome quello del marito: un chiaro segno della ancora odierna supremazia del marito rispetto alla moglie all'interno della famiglia.

Quanto disposto dall'art. 143-bis sembrerebbe dunque apparire in evidente contrasto con il principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi di cui all'art. 29, 2° comma Cost.

Tuttavia, vi è da segnalare come sia lo stesso art. 29, 2° Cost. a prevedere la possibilità di derogare ad un simile principio, per garantire un altro principio, considerato uno dei valori fondanti del nostro ordinamento costituzionale: ossia, l'unità familiare.

Alla luce di quanto adesso evidenziato pare dunque opportuno indagare se l'art. 143-bis c.c., debba ritenersi in contrasto con il principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, o se al contrario, debba ritenersi una giustificata deroga a tale principio posta a salvaguardia dell'unità familiare.

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Per trovare la soluzione ad un simile problema sarà, innanzitutto, necessario analizzare quale sia il significato attribuito all'art. 29, 2° comma Cost., tenendo conto anche del rapporto che lo stesso intrattiene con il più generale principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost.

In particolare, all'indomani dell'entrata in vigore della nostra Costituzione, sono due gli orientamenti che in dottrina si sono sviluppati riguardo ai possibili rapporti intercorrenti tra l'art. 29, 2° comma Cost. e l'art. 3 Cost.:

1) da una parte, vi è chi ha ritenuto che l'articolo 29, 2° comma Cost. dovesse essere valutato come una mera norma di conferma del principio di parità tra i sessi contenuto nell'art. 3, 1° comma Cost.20,

2) dall'altra parte, vi è chi ha invece ritenuto che l'art. 29, 2° comma Cost. dovesse essere considerata una disposizione dotata di autonomo significato e di un ambito di applicazione del tutto diverso da quello proprio dell'art. 3 Cost.2122.

Al giorno d'oggi, è dato riconoscere all'art. 29, 2° comma Cost. una precisa autonomia rispetto all'art. 3 Cost., dovendosi, invece, ritenere

20 In tal senso Cfr. Rossano, L'eguaglianza giuridica nell'ordinamento costituzionale, Napoli, 1966, p. 458 ss.; Mazziotti di Celso, Lezioni di diritto costituzionale, parte II, Milano 1985, p. 80; Paladin, Il principio costituzionale d'eguaglianza, Milano, 1965, p. 264 ss.; Cheli, Principio generale di eguaglianza e gradazione degli interessi nell'ambito familiare, in Giur. Cost., 1966, p. 805 ss.; Esposito, Eguaglianza e giustizia nell'art. 3 della Costituzione, in La costituzione italiana. Saggi, Padova, 1953, p. 46 ss.; Pelosi, La patria potestà, Milano 1965, p. 7 ss.

21 In questo senso Cfr. Barile, L'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi nella giurisprudenza costituzionale, in Eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, Napoli, 1975, p. 41; Treu, Commento all'art. 37, in Commentario della costituzione a cura di Branca, Bologna, 1979, p. 154

22 Così, Roberta Biagi Guerini, Famiglia e Costituzione, Milano, 1989, pp. 192-193

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del tutto superato quell'orientamento che, vedendo nell'art. 29, 2° comma Cost. soltanto un'ulteriore applicazione dello specifico divieto di discriminazioni basate sul sesso di cui all'art. 3 Cost., non faceva altro che svuotare la norma di qualsiasi significato23.

L'autonomia e l'indipendenza dell'art. 29, 2° comma Cost. rispetto all'art. 3 Cost. deve essere ricercata sul piano dei contenuti normativi delle due disposizioni, che appaiono essere del tutto differenti24.

Infatti, il principio della parità tra i sessi di cui all'art. 3 Cost. si risolve in un principio di carattere: negativo, ossia di non discriminazione riguardo al sesso; generale, dato che trova applicazione in ogni settore dell'ordinamento giuridico, compreso quello relativo ai rapporti familiari; assoluto, considerata la sua idoneità a determinare l'illegittimità costituzionale di una qualsiasi norma prevedente una disparità di trattamento fondata sul sesso; e, infine, inderogabile25.

Invece, il principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi si risolve in un principio: di carattere positivo, poiché una volta data per acquisita, ai sensi dell'art. 3 Cost., l'illegittimità di ogni discriminazione tra i coniugi fondata sul sesso, stabilisce un criterio democratico di governo della famiglia, volto ad assicurare che nessun coniuge possa prevalere sull'altro; concreto e relativo, considerato che si tratta di un principio che non è volto ad affermare l'astratta parità di diritti e di obblighi tra i coniugi già rinvenibile dall'art. 3 Cost, ma, al contrario, è volto a sancire la concreta uguaglianza dei coniugi, assicurando così ad essi un'eguale libertà all'interno delle singole coppie; derogabile, poiché esso ammette, a garanzia dell'unità familiare, deroghe all'eguaglianza, che non siano

23 Così, Biagi Guerini, op. cit., p. 192

24 Così, Francesco Donato Busnelli, Libertà e responsabilità dei coniugi nella vita familiare, in Rivista di diritto civile, 1973, fasc. 2, pt. 1, pp. 132

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però fondate sulla mera prevalenza del marito rispetto alla moglie o viceversa, ma che siano invece tali da garantire, appunto, caso per caso, l'unità del nucleo familiare26.

Chiarito ciò, appare del tutto evidente come l'art. 29, 2° comma Cost., sia volto fissare tra i coniugi un principio di parità che va oltre lo specifico divieto di discriminazioni fondate sul sesso di cui all'art. 3 Cost.. Tale disposizione, infatti, non tiene conto soltanto del problema esistente tra uomo e donna nell'ambito dei rapporti familiari, ma valuta, altresì, attentamente quelli che sono nel complesso i rapporti tra i coniugi nella famiglia27.

L'art. 29, 2° comma Cost, è dunque frutto di una precisa scelta: ossia, quella di garantire una posizione di parità fra uomo (marito) e donna (moglie), anche in seno a quella comunità, la famiglia, che per secoli ha raffigurato l'ambiente in cui i diritti dei componenti più deboli del gruppo, quali la donna, venivano inevitabilmente sacrificati e compressi. L'art. 29, 2° comma Cost. si presenta perciò come un rafforzamento del generale principio di eguaglianza di cui all'art. 3, 1° comma Cost., destinato a trovare applicazione nei confronti di quella specifica comunità che è rappresentata dalla famiglia28.

Detto ciò, non si può tuttavia negare come alla base dell'eguaglianza tra i coniugi, vi debba pur sempre essere la realizzazione di quell'eguaglianza senza distinzioni di sesso di cui all'art. 3 Cost.29.

Infatti, soltanto una volta abbattute le generali barriere di carattere discriminatorio esistenti tra uomo e donna, sarà possibile estendere il discorso dell'eguaglianza relativamente al tema della paritaria posizione giuridica dei coniugi30.

26 Così, Busnelli, op. cit, p. 133-134

27 Così, Biagi Guerini, op. cit., p. 193 28 Così, Biagi Guerini, op. cit., p. 194 29 Così, Biagi Guerini, op. cit., p. 194 30 Così, Biagi Guerini, op. cit., p. 196

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Alla luce di una tale considerazione, da una parte, si può, senz'altro asserire che l'art. 29, 2° comma Cost. rappresenti dunque in primo luogo un'ulteriore applicazione del principio di parità tra uomo e donna, sancito dall'art. 3, 1° comma Cost., con specifico riferimento a quella particolare comunità rappresentata dalla famiglia; dall'altra parte, si deve tuttavia ritenere che una affermazione del genere, seppur vera, non è certamente in grado di esaurire la reale portata della norma, la quale risulta essere molto più ampia. La norma infatti costituisce un'importante garanzia per i coniugi a che le loro reciproche posizioni siano valutate dal legislatore ordinario secondo criteri di eguaglianza, perché ogni discriminazione tra gli stessi che non trovi la sua ragion d'essere nell'unico limite – l'unità familiare – opponibile al principio di eguaglianza di cui all'art. 29, 2° comma Cost, dovrà, per forza di cose, ritenersi incostituzionale31.

E la portata innovativa dell'art. 29, 2° comma Cost., consiste proprio in questo: ossia, nell'aver previsto una assoluta parità tra marito e moglie nell'ambito dei rapporti familiari, che può essere soltanto derogata attraverso possibili discriminazioni tra i coniugi volte ad assicurare, di volta in volta, una piena tutela dell'unità familiare32.

Tra le possibili discriminazioni volte ad assicurare il valore dell'unità familiare non potranno, però, essere prese in considerazione quelle destinate a determinare una situazione di totale prevalenza di uno dei coniugi rispetto all'altro (ad esempio, quelle basate sul sesso o sulle condizioni personali dei coniugi), dovendosi sempre tenere bene a mente come la regola sancita dall'art. 29, 2° comma Cost. sia quella prevedente un'assoluta parità tra i coniugi, e che limitazioni ad essa possono essere soltanto eventuali e soprattutto eccezionali, per garantire, di volta in volta, l'unità familiare33.

31 Così, Biagi Guerini, op. cit., p. 200 32 Così, Biagi Guerini, op. cit., p. 201 33 Così, Biagi Guerini, op. cit., pp. 203-204

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Chiarita l'esatta portata dell'art. 29, 2° comma Cost., è adesso necessario rispondere alla domanda in precedenza posta: ossia, la regola del cognome maritale di cui all'art. 143-bis c.c., è da considerarsi in contrasto con il principio di pari eguaglianza morale e giuridica dei coniugi di cui all'art. 29, 2° comma Cost., poiché lascia trapelare una posizione di prevalenza del marito rispetto alla moglie, oppure, sempre ai sensi di quest'ultima norma, è da considerarsi una giustificata deroga posta a salvaguardia dell'invocato valore dell'unità familiare?

Stando agli iniziali commenti34, l'art 143 bis c.c., introdotto dal

legislatore del 1975, non avrebbe avuto quale funzione, quella di riconoscere il ruolo di prevalenza del marito rispetto alla moglie nell'ambito dei rapporti familiari, bensì tutt'altra: ossia, quella di assicurare attraverso l'attribuzione di un cognome familiare, comune a genitori e figli, l'unità familiare, di cui l'art. 29, 2° comma Cost., appunto parla35.

Un comune cognome familiare, in grado di assicurare l'unità della famiglia, di cui il legislatore del 1975 ne ha individuato le caratteristiche in quello del marito.

Ma perché proprio tale cognome? E la scelta di optare per tale cognome e non per quello della moglie, non determina una lesione del principio di eguaglianza tra i coniugi?

La scelta del legislatore della riforma del 1975 di optare per il cognome maritale quale cognome identificatore dell'intero nucleo familiare, sarebbe stata giustificata da quella tradizione sociale

34 Si veda, Santoro Passerelli, in Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, Padova 1992, 234; Carnelutti, Sul cognome della moglie maritata, in Rivista di diritto civile, 1975, I, 1; Allegretti, Cognome della donna coniugata ed altri formalismi, in Notaro, 1977, 84. Bessone, Rapporti etico sociali, in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1976, 58; Costanza, Il governo della famiglia nella legge di riforma, in Diritto di famiglia, 1976, 1879

35 Così, Raffaele Tommasini, Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio, in Commentario del codice civile, Della Famiglia (art. 74-176), Volume I, a cura di Luigi Balestra, diretto da Enrico Gabrielli, 2010, Torino, p. 449

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vigente nel nostro Paese, secondo cui il cognome familiare viene identificato con quello del marito36; una scelta quest'ultima che, al

momento dell'introduzione dell'art. 143-bis c.c., non è stata ritenuta in alcun contrasto con il principio di pari eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, dato che alla donna sarebbe consentito tutelare la sua individualità, conservando l'originario cognome, ai sensi dell'art. 143-bis37.

Una simile conclusione, tuttavia, non può essere del tutto condivisa. Certamente, è apprezzabile il fatto che una simile soluzione legislativa sia finalizzata ad assicurare il valore costituzionale dell'unità familiare attraverso un unico cognome familiare volto ad ad identificare tutti i membri della famiglia. D'altra parte, però, non è dato comprendere perché una simile unità non possa essere garantita facendo anche di quella della donna, e non solo di quello dell'uomo, il cognome di famiglia.

Il risultato, dunque, non può che essere quello di trovarsi dinanzi ad una disciplina del cognome familiare che, prevedendo la prevalenza del cognome dell'uomo rispetto a quella donna, realizza, ai sensi degli artt. 3 e 29, 2° comma Cost., una sostanziale disparità di trattamento tra il genere maschile e femminile nell'ambito dei rapporti familiari, che invece di rafforzare l'unità familiare, ne mette in pericolo la stessa esistenza.

Infatti, la piena unità familiare si realizza soltanto nella misura in cui i rapporti tra i coniugi siano governati dalla solidarietà e dalla parità, e non certamente attraverso una disciplina così marcatamente discriminatoria che, realizzando una piena diseguaglianza tra gli stessi, è soltanto in grado di minarne le stesse fondamenta.

Detto ciò, dunque, appare evidente come la disciplina relativa al

36 Contra, Chiara Ingenito, L'epilogo dell'automatica attribuzione del cognome paterno al figlio, in Osservatorio costituzionale, fasc. 1 aprile 2017, in corso di pubblicazione, pp. 5-8, acui si rinvia al cap. 4, par. 2.

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cognome familiare non sia da ritenersi consona a quelli che sono i principi espressi dalla nostra Carta costituzionale.

Ma, oltre a porsi in contrasto con le indicazioni normative della nostra Costituzione, si vedrà come tale disciplina si pone in contrasto anche con quelle che sono le più importanti indicazioni provenienti dall'ambito internazionale e europeo, finalizzate all'eliminazione di ogni tipo di discriminazione tra uomo e donna nella scelta del cognome.

E proprio in questo senso si è orientata la giurisprudenza degli ultimi anni, sia di legittimità che costituzionale. Particolare riguardo, nel corso di questo lavoro, sarà sopratutto rivolto alla giurisprudenza della nostra Corte costituzionale, la quale pur ritenendo la contrarietà di una simile disciplina ai canoni suddetti, non ne ha mai dichiarato l'incostituzionalità prima della sentenza n. 286/2016.

3. - Il cognome comune delle persone unite civilmente 3.1. - La legge n. 76/2016

Dopo aver trattato la normativa codicistica relativa al cognome coniugale, è adesso il momento di passare ad esaminare un'altra importante e recente questione ai fini del lavoro da me elaborato, ossia quale sia la disciplina prevista per il cognome delle persone che abbiano scelto di contrarre unione civile, ai sensi della nuova legge n. 76 del 20 maggio 201638, disciplinante, appunto, l'unione civile e le

38 Tra i primi commenti alla legge n. 76/2016, si veda: Marco Gattuso, Cosa c’è nella legge sulle unioni civili: una prima guida, in www. articolo29.it, 2016; Geremia Casaburi, Le unioni civili tra persone dello stesso sesso nella l. 20 maggio 2016 n. 76, in Il Foro italiano, 2016, fasc. 6, pt. 1, pp. 2246-2257; Geremia Casaburi e Ida Grimaldi (a cura di), Unioni civili e convivenze, Firenze, 2016; Gianfranco Dosi, La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze: commento alla legge 20 maggio 2016, n. 76, al D.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144 e al D.M. 28 luglio 2016, Milano, 2016; ; Filippo Romeo, Venuti Maria Carmela, Relazioni affettive non matrimoniali: riflessioni a margine del d.d.l. in materia di

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convivenze di fatto.

La disciplina prevista per il cognome delle persone unite civilmente, (nonostante abbia subito un forte ridimensionato attraverso il recente decreto legislativo n. 5 del 19 gennaio del 2017, di cui mi occuperò in seguito), si presta infatti ad essere del tutto differente rispetto a quella matrimoniale contenuta all'interno del codice civile.

Circostanza, quest'ultima, giustificata senz'altro dal fatto che, l'art. 143-bis così come formulato dal codice civile, prevedendo che la moglie aggiunga al proprio cognome quello del marito, non poteva certamente trovare applicazione per le unioni civili, dato che all'interno della unioni civili tra persone dello stesso sesso non sarebbe stato in alcun modo possibile identificare e distinguere i partner, rispettivamente, come marito e moglie39.

Tuttavia, il legislatore, nell'intento di consentire anche alle persone unite civilmente, al pari dei coniugi, di manifestare all'esterno la loro condizione di coppia, ha previsto, ai sensi dell'art. 1, 10° comma della legge n. 76/2016, che le parti dell'unione civile “mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile possono stabilire di assumere, per la durata della stessa unione civile, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all’ufficiale di stato civile”40.

Più precisamente, sarebbero dunque quattro le opzioni offerte dalla legge in questione alle parti delle unioni civili:

regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze, in Nuove leggi civ. Comm., 2015, 971-1013; Bruno De Filippis, Unioni civili e contratti di convivenza, Padova, 2016

39 Così, De Filippis, op. cit. p. 179

40 Così, Maria Novella Bugetti, Il cognome comune delle persone unite civilmente, in Famiglia e Diritto, 2016, fasc. 10, p. 911

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a) una prima opzione è quella che consente alle parti dell'unione civile di eleggere un comune cognome di coppia, scelto tra quello dell’una o dell’altra parte, con conseguente perdita, salve le opzioni sub c) e d) di cui infra, da parte di una delle parti del proprio cognome;

b) una seconda opzione è quella del mantenimento da parte di ciascuna parte dell'unione civile del proprio cognome, o perché le parti dell'unione civile abbiano così liberamente deciso o perché non si siano trovate d'accordo su quale cognome eleggere a quello comune di coppia;

c) una terza opzione è quella che consente alla parte il cui cognome non sia stato eletto a cognome comune, di anteporre, tramite dichiarazione all'ufficiale di stato civile, il proprio cognome a quella comune di coppia;

d) una quarta opzione è quella che consente sempre alla parte il cui cognome non sia stato eletto a cognome comune, di posporre, tramite dichiarazione all'ufficiale di stato civile, il proprio cognome a quello comune di coppia41.

Una volta chiarito ciò, non possono che apparire del tutto evidenti, le differenze intercorrenti tra la disciplina del cognome delle persone unite civilmente e la disciplina codicistica relativa al cognome coniugale.

Dalla disciplina codicistica emerge innanzitutto, come l'ordinamento

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non abbia attribuito ai coniugi la stessa libertà di scelta, riconosciuta alle parti delle unioni civili, riguardo alla determinazione del cognome familiare.

Infatti, l'art. 143 bis, prevedendo che la moglie aggiunga al proprio cognome quello del marito, non fa altro che introdurre all'interno del nostro ordinamento un automatismo che, testimoniando il ruolo di supremazia rivestito dal marito rispetto alla moglie nell'ambito dei rapporti familiari, non può che far sì che cognome familiare sia inevitabilmente quello maritale, senza che vi sia alcuna possibilità per i coniugi di eleggere il cognome della moglie a cognome familiare42.

Oltre a ciò, dal confronto tra l’art. 143 bis c.c. e l’art. 1, comma 10, L. n. 76/2016 emerge come il mantenimento da parte di ciascuno dei coniugi del proprio cognome non sia, a differenza di quanto previsto nelle unioni civili, il risultato di una comune decisione dei coniugi stessi, ma sia piuttosto il frutto di una unilaterale decisione della moglie, visto che il marito conserverà sempre il proprio cognome. Moglie che, oltre tutto, risulterà essere l'unico soggetto del rapporto coniugale a cui spetterà decidere se posporre o meno il proprio cognome a quello del marito, a differenza di quanto invece previsto dalla legge sulle unioni civili, in cui il soggetto a cui spetta tale decisione può essere l'uno o l'altro partner43.

3.2. - Il decreto legislativo n. 5/2017

A stravolgere e a ridimensionare fortemente la disciplina del cognome delle unioni civili, come si era sopra accennato, è però intervenuto il decreto legislativo in materia di stato civile n. 5 del 19 gennaio 2017, entrato in vigore, l'11 febbraio 2017.

42 Così, Bugetti, op. cit., p. 916 43 Così, Bugetti, op. cit., p. 916

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Con tale decreto il Governo, dando attuazione alla delega contenuta nel comma 28 della legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, ha disposto l'adeguamento delle norme dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni alle previsioni della presente legge.

Ed a due delle norme del summenzionato decreto è dedicata in questa paragrafo una breve riflessione.

Più precisamente, trattasi di norme che, oltre ad aver fortemente ridimensionato la disciplina del cognome per le parti dell'unione civile, sono anche subito apparse sospette di illegittimità costituzionale, per eccesso di delega. Con una prima norma il legislatore delegato ha in sostanza disposto l'abrogazione del comma 10; e con una seconda norma è stata, invece, prevista la cancellazione dai registri anagrafici dei cognomi comuni già scelti dalle coppie in questi primi mesi di vita della legge44.

La prima delle due norme incriminate è l'art. 3, 1° comma, lettera c) n. 2.

In particolare, la norma in questione, inserendo nell'art. 20 del D.P.R. n. 223/1989 il comma 3 bis, ha previsto che «per le parti dell’unione civile le schede anagrafiche devono essere intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile». Da un tale quadro normativo, non può che emergere chiaramente come il cognome comune scelto dalle parti dell'unione civile, non abbia alcuna incidenza anagrafica per il partner il cui cognome non sia eletto a cognome della coppia. Quest'ultimo, difatti, ai sensi del nuovo comma 3° bis, continuerebbe a recare sui vari documenti ad esso intestati l’indicazione del cognome da esso posseduto prima dell'unione civile, senza che alcuna rilevanza, dal punto di vista anagrafico, possa assumere la

44 Così, Marco Gattuso, Furto di identità: che fine ha fatto il cognome dell'unione civile?, in www.articolo29.it

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decisione compiuta dalla coppia a portare un comune cognome familiare4546.

All'esito di una tale scelta normativa volta a sancire la mancata incidenza anagrafica del cognome comune scelto dalla coppia, occorre però chiedersi quale sia allora l'effetto derivante da una tale scelta compiuta dalle parti dell'unione civile.

E proprio la risposta ad un tale interrogativo è stata data dal Governo nella relazione illustrativa che accompagna il decreto legislativo n. 5/2017.

Nella relazione illustrativa del citato decreto si legge, infatti, che «in analogia a quanto previsto dall’articolo 143 bis c.c. per il cognome della moglie», è stato deciso che la scelta delle parti dell'unione civile ad assumere un cognome comune, abbia quale unico effetto quello di consentirne l’uso. Siffatta decisione sembra, dunque, far venire meno la grande novità introdotta dalla legge sulle unioni civili.In altre parole, sembra venire meno quella funzione di identificazione dell'intero nucleo familiare che il cognome comune scelto dalle coppie avrebbe dovuto inevitabilmente svolgere. Infatti, a seguito di tale intervento normativo, la scelta compiuta dalle parti delle unioni civili relativamente al cognome comune si limiterebbe soltanto a configurare una qualche specie di autorizzazione che una parte dà all'altra ad utilizzare il proprio cognome47.

Tuttavia, se si presta una maggiore attenzione a quanto disposto dal comma 10 in tema di cognome delle unioni civili, appare del tutto

45 Quella del Governo, si tratta tuttavia di una decisione che oltre a vanificare la portata del comma 10, non può che apparire del tutto singolare se si volge lo sguardo a ciò che lo stesso esecutivo aveva stabilito soltanto pochi mesi prima con il primo decreto transitorio in materia. Infatti, il Governo con D.P.C.M. n. 144 del 23 luglio 2016, aveva sancito all'art. 4, 2° comma che «a seguito della dichiarazione relativa al cognome, gli ufficiali dello stato civile avrebbero dovuto procedere all’annotazione dell’atto di nascita e all’aggiornamento della scheda anagrafica».

46 Così, Gattuso, op. cit. 47 Così, Gattuso, op. cit.

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evidente come tale decisione governativa si presti ad essere del tutto in contrasto con il dato letterale emergente dalla stessa disposizione. Precisamente, qualora il comma 10 della legge sulle unioni civili si fosse soltanto limitato a consentire ad una delle parti l'uso del cognome dell'altra, senza alcuna incidenza anagrafica sul proprio cognome, non avrebbe avuto alcun senso prevedere l'ulteriore diritto, a favore della parte il cui cognome non fosse stato eletto a cognome comune, a mantenere anche il proprio cognome anagrafico48.

Precisamente, il comma 10 nel disporre che, la parte il cui cognome non sia eletto a cognome comune, possa mantenere anche il proprio cognome, anteponendolo o posponendolo a quello comune, comporta per la parte che non si sia avvalsa di tale facoltà, la perdita del proprio cognome e la solo acquisizione di quello comune scelto dalla coppia. Ora, proprio quest'ultima disposizione, alla luce dell'interpretazione governativa, resterebbe priva di qualsiasi senso49.

Infatti la parte, pur optando per il solo cognome comune, conserverebbe comunque il proprio cognome anagrafico, visto che la sua scelta relativa al cognome comune ne sarebbe limitata al solo uso.

Oltre tutto, la norma di cui al decreto legislativo non pare essersi limitata a svolgere una funzione meramente attuativa della disposizione di cui al comma 10. Al contrario, pare piuttosto che abbia dato luogo ad una interpretazione in contrasto con la lettera della stessa disposizione di cui al comma 10; un'interpretazione da ritenersi, inoltre, di dubbia legittimità costituzionale, per eccesso di delega, se si tiene in considerazione la natura meramente attuativa della delega e che la stessa, ai sensi del comma 28, è stata conferita «fatte salve le disposizioni della legge n. 76/2016»50.

48 Così, Gattuso, op. cit. 49 Così, Gattuso, op. cit. 50 Così, Gattuso, op. cit.

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Ma, al di là delle incomprensioni e dei dubbi di legittimità cui dà luogo una simile interpretazione del comma 10, vi è da sottolineare come il Governo, nella relazione illustrativa al decreto, l'abbia comunque ritenuta la più convincente «tenuto conto, non solo di quanto previsto per il matrimonio, ma anche del fatto che una vera e propria variazione anagrafica del cognome della parte dell’unione civile determinerebbe il mutamento anagrafico anche del cognome del figlio della medesima parte dell’unione civile ed eventualmente per il solo periodo di durata dell’unione, effetto questo che pare eccedere la volontà del legislatore primario»51.

Come si evince dalla relazione illustrativa al decreto, sono dunque tre le ragioni poste dal Governo alla base della sua interpretazione del comma 10:

1. «tenuto conto, non solo di quanto previsto per il matrimonio». La prima ragione posta dal Governo alla base della sua interpretazione tiene dunque conto di quanto previsto per il matrimonio, ma non solo.

In primo luogo, deve essere apparsa del tutto evidente la discriminazione, che a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 76/2016, si è venuta a realizzare nei confronti delle coppie coniugate. Tale legge, infatti, attribuirebbe alle parti dell'unione civile un diritto ulteriore rispetto ai coniugi: ossia, il diritto a scegliere un comune cognome familiare52.

In secondo luogo, non è mancato chi ha giustificato53 che, finalità

dell'intervento governativo fosse quella di evitare alle persone unite

51 Relazione illustrativa al d.lgs. n. 5/2017 52 Così, Gattuso, op. cit.

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civilmente gli inconvenienti di carattere burocratico che altrimenti sarebbero inevitabilmente derivati dal cambiamento anagrafico del cognome. Infatti, si è ritenuto che la scelta di un cognome comune avrebbe comportato come conseguenza, per la parte il cui cognome non fosse stato eletto a cognome familiare, il necessario adeguamento di tutti quanti gli atti e documenti ad essa intestati: codice fiscale, patente, carta di identità, passaporto, utenze etc…5455

2. «una vera e propria variazione anagrafica del cognome della parte dell’unione civile determinerebbe il mutamento anagrafico anche del cognome del figlio della medesima parte dell’unione civile».

La seconda ragione posta dal Governo alla base della sua interpretazione riguarda invece i figli. Con tale seconda ragione, tuttavia, non si riesce bene a comprendere quali siano i motivi esatti del problema posto dal Governo.

Infatti, quella di consentire il cambiamento del cognome del bambino in caso di mutamento del cognome del genitore avvenuto a seguito dell'unione civile, si tratta di una scelta ben chiara apparsa sin dal

54 Così, Gattuso, op. cit.

55 Cfr. Gattuso, op. cit. Secondo l'autore, infatti, si tratta di inconvenienti burocratici che non sono destinati a manifestarsi necessariamente per le persone unite civilmente. Egli sottolinea come, quella relativa alla scelta del cognome di famiglia, si tratti solo di un'opzione ulteriore che la legge ha offerto alle parti dell'unione civile, ben dunque potendo le parti decidere di non scegliere alcun cognome familiare e mantenere ciascuna il proprio, evitando così di conseguenza di affrontare i relativi problemi burocratici che dalla scelta del cognome comune deriverebbero.

Ma, anche nel caso in cui la coppia avesse scelto il cognome comune, secondo l'autore, si sarebbe trattato di problemi burocratici facilmente risolvibili: ad esempio, la necessità di adeguare il codice fiscale al nuovo cognome (problemi che, d'altronde, si verificano anche nei più semplici casi di cambiamento o rettifica del nome o del cognome), poteva essere facilmente risolta, anteponendo il proprio cognome a quello comune, considerato che in tal caso le prime tre lettere del codice fiscale sarebbero in ogni caso coincise con quelle corrispondenti al primo cognome del suo titolare (e così pare vi abbiano provveduto talune della coppie unite civilmente nei primi mesi di vigore della legge).

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primo progetto di legge, e che prima di essere adottata dal legislatore è dunque stata ampiamente vagliata e discussa per più di due anni in sede parlamentare56.

Nonostante ciò, quel che probabilmente non deve esser stato gradito all'interno di Palazzo Chigi, è l'effetto prodottosi dal comma 10 sui bambini delle coppie same sex, all'indomani dell'entrata in vigore della legge sulle unioni civili, quando alcune madri, dopo essersi unite civilmente (o aver trascritto i matrimoni esteri) ed aver optato per un cognome comune, hanno potuto attribuire ai loro figli il doppio cognome, a norma dell'art. 33 del D.P.R. n. 396 del 200057.

3. «eventualmente per il solo periodo di durata dell’unione» La terza ragione posta dal Governo alla base della sua interpretazione sarebbe giustificata dalle difficoltà applicative conseguenti alla indicazione, nel comma 10, per cui la scelta del cognome comune vale solo «per la durata dell’unione civile»58.

Stando agli iniziali commenti, se da un tale inciso dovesse desumersi l'automatica perdita del cognome comune in caso di scioglimento dell'unione civile per morte o a causa di divorzio, tutto ciò non potrebbe che apparire abbastanza irragionevole e di dubbia compatibilità con il dettato della nostra Carta costituzionale59.

56 Così, Gattuso, op. cit. 57 Così, Gattuso, op. cit. 58 Così, Gattuso, op. cit.

59 Illegittimità costituzionale che è stata ravvisata anche nell'irragionevole disparità di trattamento rispetto al matrimonio. In tal senso, Cfr. Maria Novella Bugetti, Il cognome comune delle persone unite civilmente, cit., pp. 914-916 Secondo l'autrice, infatti, tale inciso darebbe luogo ad una disciplina discriminatoria nei confronti delle persone che hanno deciso di unirsi civilmente, dato che se si volge lo sguardo a quanto disposto nei medesimi casi dalla disciplina codicistica relativa al matrimonio le differenze in materia non potranno che apparire alquanto evidenti.

Difatti, osserva l'autrice, mentre per le persone unite civilmente lo scioglimento della loro unione per morte o per divorzio determina, per una delle parti, l'automatica perdita del cognome dell'altra (eletto a cognome comune della coppia), per quel che riguarda la moglie nel rapporto coniugale le cose stanno

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Infatti, apparirebbe del tutto irragionevole che una persona, dopo aver fatto uso di un determinato cognome per anni ed essere stata identificata ormai con lo stesso da parte della società, debba improvvisamente rinunciare a tale segno distintivo della propria identità personale per il semplice fatto che il suo partner sia morto o abbia da questi divorziato60.

E discorso analogo può essere fatto anche per il figlio.

Quest'ultimo, infatti, ai sensi dell'art. 33, 2° comma D.P.R. n. 396/200, sarebbe costretto a veder cambiare di improvviso il proprio invece diversamente.

L'autrice sottolinea, infatti, come sia prevista per la moglie (e non per la parte dell'unione civile), in caso di morte del marito, la possibilità di conservare e, dunque, utilizzare il cognome maritale durante lo stato vedovile, fino a quando quest'ultima non sia passata a nuove nozze; mentre in caso di divorzio, è invece prevista la perdita da parte della moglie del cognome maritale, salvo che il giudice autorizzi espressamente quest'ultima ad utilizzarlo, “qualora sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela” (ai sensi dell'art. 5, 2° comma L. n. 898/1970). Alla luce di ciò, è ovvio, secondo l'autrice, come una tale disparità di trattamento ponga certamente dei dubbi riguardo alla costituzionalità della norma di cui si discute, ossia il comma 10 della legge sulle unioni civili.

Alla luce di ciò, è ovvio come una tale disparità di trattamento ponga certamente dei dubbi riguardo alla costituzionalità della norma di cui si discute, ossia il comma 10 della legge sulle unioni civili.

Una norma, quella in questione, che potrebbe essere tuttavia salvata, ma solo in “parte”, da un profilo di incostituzionalità, per il tramite della clausola contenuta al comma 20, dell'art. 1 della legge sulle unioni civili, la quale, al fine di meglio equiparare la condizione delle parti dell'unione civile a quella dei coniugi, prevede che «le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso». Il comma 20, consentirebbe così di salvare in via interpretativa il comma 10 da eventuali sospetti di incostituzionalità, ma solo in “parte”, come precisato sopra. Infatti, in forza di tale clausola, potrebbe trovare soddisfazione l'interesse dell'unito civilmente divorziato a conservare (nel suo interesse o in quello dei figli) il cognome dell'altra parte (eletto a cognome comune).

Ma il medesimo interesse non troverebbe invece alcuna soddisfazione per l'unito civilmente, qualora la cessazione dell’unione dipendesse da un evento accidentale quale la morte del proprio partner, in virtù del fatto che a quest'ultimo non potrebbe certamente estendersi, ai sensi del richiamo effettuato al comma 20, il disposto codicistico di cui all'art. 143-bis, dato che quest'ultima disposizione contiene la parola “moglie” e non “coniuge”

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cognome, dato che a norma di tale articolo, nella sua interpretazione corrente, è previsto che il cambiamento di cognome del genitore determini anche l’automatico mutamento di cognome del figlio61.

Alla luce dei risultati cui potrebbe dar luogo una simile interpretazione di tale inciso, risulta, tuttavia, necessario tentar di dar luogo almeno ad una interpretazione costituzionalmente orientata della norma stessa, al fine di stabilire se l’inciso di cui si discute, provochi sempre e comunque un'automatica perdita del cognome comune nel caso di scioglimento dell'unione civile62.

Invero, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dell'inciso «per la durata dell’unione», che tenga in considerazione quella che è la reale volontà della parti e gli interessi coinvolti, quale primo fra tutti il basilare diritto all'identità personale, si potrebbe ritenere che scopo di tale inciso, non sia quello di impedire alle parti l'utilizzo del cognome comune una volta cessata l'unione civile, bensì quello di impegnare le stesse parti ad assumere, «per la durata dell’unione», una decisione vincolante in ordine allo stesso cognome comune. In altre parole, la scelta compiuta riguardo al cognome comune, una volta avvenuta non potrebbe più essere soggetta ad alcuna possibilità di revoca da parte delle parti dell'unione civile per tutta la durata della loro unione63.

Ne conseguirebbe, da una simile interpretazione, che dallo scioglimento dell'unione civile (per morte o divorzio), non ne deriverebbe l'automatica perdita del cognome comune, per la cui dismissione all'utilizzo sarebbe invece necessaria una nuova dichiarazione delle parti dinanzi all'ufficiale dello stato civile64.

61 Così, Gattuso, op. cit. 62 Così, Gattuso, op. cit. 63 Così, Gattuso, op. cit. 64 Così, Gattuso, op. cit.

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Si era quindi dinanzi ad un problema che poteva certamente essere meglio risolto tramite una tale interpretazione, anziché attraverso quella governativa65.

Esaminato il problema posto dalla prima norma del decreto legislativo n. 5/2017 e dall'interpretazione data dal Governo al comma 10, è necessario adesso esaminare un secondo problema posto da un'altra delle norme del decreto in questione.

È infatti evidente come la sostanziale abrogazione del comma 10, avvenuta a causa della suddetta interpretazione governativa, comporti oggi non pochi problemi di diritto intertemporale, considerato che dall'entrata in vigore della legge n. 76 del 2016, e ancor prima dell'entrata in vigore del citato decreto governativo, migliaia di coppie unendosi civilmente hanno deciso di eleggere un cognome comune come previsto dalla stessa legge (e come consentito dalla prima disciplina regolamentare transitoria adottata con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 luglio 2016, n. 144)66.

A questo punto allora è dato porsi una domanda: quale soluzione adottare nei confronti delle coppie, che anteriormente all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 5/2017, abbiano già scelto un cognome comune?

Il legislatore delegato, ha dato una risposta a tale domanda, introducendo all'interno dell'art. 8 (Disposizioni di coordinamento con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144) del d.lgs. n. 5/2017, una disposizione di coordinamento. Tale disposizione di coordinamento prevede esattamente che «entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del citato decreto, l’ufficiale dello stato civile deve, con la procedura di correzione di cui all’articolo 98, 1° comma, del D.P.R. n. 396/2000,

65 Così, Gattuso, op. cit. 66 Così, Gattuso, op. cit.

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