2. La parziale dichiarazione di illegittimità della regola sul
2.2. La sentenza della Corte Costituzionale n 286 del
La Corte Costituzionale si è pronunciata, sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d'Appello di Genova, nella sentenza n. 286 del 21 dicembre 2016.
Nel giudizio dinanzi alla Consulta si sono costituite le parti reclamanti nel giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo. In punto di fatto, esse hanno innanzitutto evidenziato come il proprio figlio minore, nato in costanza di matrimonio, venisse identificato, per effetto del rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile di
265 Sul punto si vedano Luciani, Alcuni interrogativi sul nuovo corso della giurisprudenza costituzionale in ordine ai rapporti fra diritto italiano e diritto internazionale, in Corriere giuridico (Il), 2008, fasc. 2, pp. 201-205; Luigi Condorelli, La Corte costituzionale e l’adattamento dell’ordinamento italiano alla CEDU o a qualsiasi obbligo internazionale?, in Diritti umani e diritto internazionale, 2008, fasc. 2, pp. 301-310; Laura Montanari, Giudici nazionali e Corte di Strasburgo: alcune riflessioni tra interpretazione conforme e margine di apprezzamento, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2008, fasc. 3 , pp. 13- 17.
procedere all’iscrizione del minore con il cognome di entrambi i genitori, diversamente nei due Stati dei quali possedeva la cittadinanza: in Italia con il solo cognome del padre ed in Brasile con il doppio cognome, paterno e materno.
La difesa delle parti ricorrenti ha inoltre ricordato come, nelle more del presente giudizio, la Corte europea dei diritti dell’uomo avesse affermato che, l’impossibilità per i genitori di far iscrivere, all'interno del nostro sistema giuridico, il figlio “nato in costanza di matrimonio” nei registri dello stato civile attribuendogli alla nascita il cognome della madre, anziché quello del padre, integrava una violazione dell’art. 14 (“Divieto di discriminazione”), in combinato disposto con l’art. 8 (“Diritto al rispetto della vita privata e familiare”) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)267.
Ad avviso delle parti reclamanti, tale decisione, vertente su un caso sostanzialmente identico a quello sottoposto adesso all’esame della Consulta, non faceva altro che rafforzare gli argomenti a sostegno della fondatezza della questione.
Con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 2 Cost., la difesa delle parti private ha richiamato innanzitutto i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale sul diritto al nome come segno distintivo dell’identità personale, anche in riferimento alla posizione del figlio adottivo268.
Inoltre le parti ricorrenti, pur riconoscendo le differenze che permanevano in materia di attribuzione del cognome tra il figlio di una coppia non unita in matrimonio o adottato e il figlio di una coppia coniugata, non si sono esentate dal ritenere che la rigidità della norma attributiva in ogni caso del cognome paterno sacrificasse
267 Cusan e Fazzo c. Italia, Corte europea dei diritti dell'uomo 7 gennaio 2014, al cui approfondimento si rinvia al cap. 3
il diritto all’identità personale del minore.
Negare al loro figlio la possibilità di aggiungere al cognome paterno quello materno, secondo le parti, avrebbe infatti dato luogo ad una irrimediabile compromissione di tale diritto, evidenziando come in tal modo si sarebbe precluso al bambino la possibilità di essere identificato attraverso un cognome che meglio avrebbe corrisposto alla propria identità personale.
Con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 3, 1°comma, e dell’art. 29, 2° comma, Cost., sotto il profilo dell’uguaglianza e pari dignità dei genitori e dei coniugi, sono state richiamate da parte della Consulta le pronunce con le quali, essa, sin dal 1960, aveva affermato l’illegittimità di norme che prevedevano un trattamento irragionevolmente differenziato dei coniugi269.
Quanto alla denunciata violazione dell’art. 117, 1° comma, Cost., la difesa delle parti private ha richiamato i principi affermati a livello internazionale, e recepiti dall’ordinamento italiano, sulla protezione dei diritti del fanciullo e sulla parità di genere.
Sono stati richiamati, in particolare, l’art. 24 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, (adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; l’art. 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo (fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176); l’art. 16, lettera g), della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, adottata il 18 dicembre 1979 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ratificata e resa esecutiva con legge 14 marzo 1985, n. 132.
269 Corte cost. sentenze n. 33/1960; n. 126 e n. 127/1968; n. 147/1969; n. 128/1970; n. 87/1975; n. 477/1987; n. 254/2006; in tema di eguaglianza nei rapporti patrimoniali tra i coniugi, vengono, inoltre, citate le sentenze n. 46/1966; n. 133/1970; n. 6/1980 e n. 116/1990
Da tale quadro normativo emerge chiaramente la non conformità ai principi sopra richiamati della norma prevedente l’attribuzione automatica ed esclusiva del solo cognome paterno. Essa, infatti, sarebbe lesiva sia dei principi che garantiscono la tutela del diritto al nome, sia di quelli in tema di eguaglianza e di non discriminazione tra uomo e donna nella trasmissione del cognome al figlio, sia esso nato nel matrimonio o al di fuori di esso.
La difesa delle parti reclamanti ha poi evidenziato, in particolare, che sebbene la CEDU non contenesse alcun riferimento espresso al diritto al nome del singolo individuo, la Corte di Strasburgo, in molteplici pronunce, ne aveva tuttavia ricondotto la tutela entro l’ambito applicativo del diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito dall’art. 8 della CEDU.
In queste decisioni, veniva evidenziato, come la Corte europea – pronunciandosi su casi analoghi a quello successivamente deciso nel caso Cusan e Fazzo – avesse accertato la violazione dell’art. 8 CEDU, in combinato disposto con l’art. 14, in ragione della disparità di trattamento fondata sul genere.
Le parti private hanno infine sottolineato come la pronuncia da loro richiesta alla Corte costituzionale non sarebbe stata tale da invadere la sfera di discrezionalità del legislatore, in virtù del fatto che si sarebbe trattato di un intervento in cui la Consulta avrebbe dovuto limitarsi a dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme invocate, nella sola parte in cui non consentivano ai genitori di scegliere, di comune accordo, il cognome da trasmettere ai figli. La Corte costituzionale, investita della sollevata questione di legittimità costituzionale, l'ha ritenuta fondata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione.
rilevato, come tra le disposizioni individuate dal giudice quo, e dalle quali è dato desumere la norma prevedente l'automatica attribuzione del cognome paterno al figlio nato in costanza di matrimonio, comparisse, altresì, l’art. 72, 1° comma, del R.D. n. 1238 del 1939, il quale, però, era stato abrogato dall’art. 110 del D.P.R. n. 396 del 2000.
A chiarire l'avvenuto richiamo dell'abrogato articolo da parte del giudice a quo, è intervenuta tuttavia da subito la stessa Corte costituzionale, la quale ha infatti ritenuto che, dal tenore complessivo degli argomenti sviluppati nell’ordinanza di rinvio si poteva evincere, come tale disposizione rientrasse nel fuoco delle censure del rimettente al solo fine di esplicitare la norma − da essa presupposta – che prevede l’automatica attribuzione del solo cognome paterno.
Dopo aver chiarito ciò, la Consulta ha poi sottolineato come l’esistenza della norma censurata e la sua immanenza nel sistema, desumibili dalle medesime disposizioni, regolatrici di fattispecie diverse, individuate dall’odierno giudice a quo, fosse già stata riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale270, nelle precedenti
270 Contra, Chiara Ingenito, L'epilogo dell'automatica attribuzione del cognome paterno al figlio, in Osservatorio costituzionale, fasc. 1 aprile 2017, in corso di pubblicazione, pp. 5-8
L'autrice, in particolare, ritiene che, la regola sull'automatica attribuzione del patronimico non sia desumibile da parte della Corte costituzionale da una serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse, ma sia piuttosto considerata dalla Corte costituzionale frutto di una prassi utilizzata nel tempo, a causa dell'influenza che la concezione patriarcale della famiglia ha avuto ed ha nella nostra società, e che, con il tempo, è divenuta tale da assumere la portata di una previsione precettiva.
Se si analizzano attentamente le norme civilistiche sottoposte all'esame della Consulta nel caso di specie, infatti, l'autrice evidenzia come non può che derivare la totale assenza di un rapporto di presupposizione tra le stesse, dal quale desumere la regola dell'obbligatoria imposizione del patronimico.
L'autrice evidenzia come l'art. 237 c.c., avente ad oggetto i fatti costitutivi del possesso di stato, nella sua attuale formulazione prevede che questi consistano: nell'aver il genitore trattato la persona come figlio ed aver provveduto in tale qualità al mantenimento, all'educazione ed al collocamento di essa; nell'aver costantemente considerato la persona come figlio nell'ambito dei rapporti sociali; nell'essere la persona riconosciuta in detta qualità dalla famiglia.
occasioni in cui ne è stata denunciata l’illegittimità271, e anche dalla
giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che – da tali pur eterogenee previsioni – si può desumere l’esistenza di una norma che, sebbene non sia prevista testualmente nell’ambito di alcuna disposizione, deve considerarsi ugualmente presente nel sistema e «certamente configuratasi come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo»272.
La Consulta ha poi ricordato come, in passato, pur essendo già stata investita da sollevate questioni di legittimità costituzionali riguardanti la disciplina della prevalenza del cognome paterno, non avesse mai dichiarato l'ammissibilità delle relative questioni, Alla luce di ciò, osserva come nell'attuale formulazione dell'art. 237 c.c., così come modificato dalla riforma della filiazione del 2013, sia del tutto scomparso, tra i fatti costitutivi del possesso di stato, ogni riferimento al padre. Infatti, l'art. 237 c.c., ante riforma, prevedeva, altresì, tra i fatti costitutivi il possesso, “l'aver la persona sempre portato il cognome del padre che essa pretendesse di avere”. Dunque, dall'analisi dell'attuale testo dell'art. 237 c.c., è dato rinvenire la totale assenza di espliciti riferimenti riguardo la regola prevedente l'automatica attribuzione del patronimico.
Passa poi ad esaminare, l’art. 262 c.c, 1° comma, avente ad oggetto il cognome del figlio nato fuori del matrimonio, prevede che “il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre”. Ed, infine, anche l'art. 299, 3° comma, prevede che “se l'adozione e' compiuta da coniugi, l'adottato assume il cognome del marito”.
A prima vista, dall'analisi di tali norme, secondo l'autrice, potrebbe sembrare che esse prevedano un particolare favor nei confronti del patronimico. Ma, questa sostiene che, in realtà, non è così.
Infatti, nell'art. 262, 1° comma c.c., sebbene vi sia un chiaro riferimento alla regola del patronimico, secondo questa, ciò non significa che vi sia un particolare favor nei confronti di essa. Infatti, prima dell'operatività di una tale norma, prevale il criterio temporale secondo cui “il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto”.
Inoltre, riguardo all'art. 299 c.c., osserva che è vero che vi è un esplicito riferimento circa l'automatica attribuzione al figlio adottivo del cognome paterno, ma, al contempo osserva come è pure vero, che la stessa norma non prevede alcuna esclusione ad attribuire anche il cognome materno.
Quindi, risulta chiaro, secondo l'autrice, come la Corte costituzionale non avrebbe potuto desumere, dalla lettura combinata di queste norme, una norma implicita prevedente l'automatica attribuzione al figlio del cognome paterno, che deve essere piuttosto ritenuta il retaggio di una prassi.
271 Corte costituzionale sentenza n. 61/2006 e ordinanze n. 176 e 586/1988 del 1988; e ordinanza n. 145/2007
272 Cass., sez. I, 17 luglio 2004, n. 13298; si veda anche Cass., sez. I, 22 settembre 2008, n. 23934
ritenendole piuttosto riservate alla discrezionalità del legislatore. Sottolineato suo tale atteggiamento di chiusura nei confronti delle questioni di legittimità costituzionali fino a quel momento sollevate nei confronti della disciplina della prevalenza del cognome paterno, la Corte costituzionale, nella sentenza in esame, non ha però mancato di ricordare come essa, nei suoi precedenti interventi, avesse già da tempo chiaramente rivolto moniti al legislatore circa la necessità di sostituire la disciplina vigente.
In particolare, essa ha ricordato come, nell'ordinanza n. 176 del 1988, pur dichiarando l'inammissibilità della sollevata questione, avesse però evidenziato che «sarebbe stato possibile, e probabilmente più consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale fosse in grado di conciliare i due principi sanciti dall’art. 29 Cost., anziché avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro»273.
La Consulta, inoltre, ha pure ricordato come si era espressa riguardo a tale disciplina dieci anni addietro nella sentenza n. 61 del 2006. In tale sentenza la Consulta, pur non accogliendo anche stavolta la sollevata questione di legittimità costituzionale, aveva infatti ritenuto incompatibile con i valori costituzionali dell'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi il sistema italiano di automatica attribuzione del cognome paterno, definendolo altresì «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, che affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna».
273 Sul punto si veda anche ordinanza n. 586/1988, al cui approfondimento si rinvia al capitolo 2
Nonostante i moniti rivolti in passato al legislatore, la Corte costituzionale, nella sentenza in esame, non ha potuto fare a meno di osservare, come a distanza di molti anni dalle pronunce sopra citate, nulla però fosse cambiato in materia, dato che un «criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi», non era ancora stato introdotto dal legislatore.
In particolare, la Corte costituzionale ha evidenziato come né il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 - con cui il legislatore ha posto le basi per la completa equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio -, né l'avvenuta modifica della disciplina del cambiamento di cognome - con l’abrogazione degli artt. 84, 85, 86, 87 e 88 del D.P.R. n. 396 del 2000 e l’introduzione del nuovo testo dell’art. 89, ad opera del D.P.R. 13 marzo 2012, n. 54 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) – avessero minimamente scalfito la norma di cui si sta discutendo.
Tuttavia, la Consulta ha anche ricordato come in materia vi fosse un'intensa attività preparatoria di interventi legislativi, volti a disciplinare secondo nuovi criteri la materia dell’attribuzione del cognome ai figli, non dimenticando altresì di sottolineare come tali interventi fossero però ancora in itinere.
Da tale quadro normativo ne derivava dunque che, nella famiglia fondata sul matrimonio, era al momento ancora del tutto preclusa alla madre la possibilità di attribuire al figlio, al momento della nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della madre. Una preclusione che, secondo la Corte costituzionale, pregiudicava il diritto all’identità personale del minore, avente copertura
costituzionale ai sensi dell'art. 2 Cost, e, al contempo, costituiva un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trovava alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardare l’unità familiare.
La Consulta ha infatti osservato come, il valore dell’identità della persona, e la consapevolezza della valenza, pubblicistica e privatistica, del diritto al nome, quale punto di emersione dell’appartenenza del singolo ad un gruppo familiare, non potessero che portare ad individuare nei criteri di attribuzione del cognome del minore profili determinanti della sua identità personale, ai sensi dell'art. 2 Cost.
E sempre in tale prospettiva, la Consulta ha evidenziato come al riguardo, la stessa avesse già da tempo qualificato il cognome, tramite la sua giurisprudenza, autonomo segno distintivo dell'identità personale del minore274, nonché «tratto essenziale della sua
personalità»275.
La Corte, ha poi sottolineato, come in questa stessa cornice si fosse ormai stabilmente inserita da tempo anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che pur in mancanza di una espressa disposizione in tema di diritto al nome nella CEDU, aveva ricondotto la tutela di tale diritto all'art. 8 della CEDU, dedicato al rispetto della vita privata e familiare, considerato che il cognome in quanto mezzo di identificazione e di correlazione ad una determinata famiglia, non poteva non avere a che a fare con la vita privata e familiare dell'individuo.
Infine la Consulta ha richiamato anche la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 7 gennaio 2014.
In particolare, la Consulta ha ricordato come la Corte EDU, nel caso Cusan e Fazzo c. Italia, avesse ritenuto necessario adottare riforme
274 Corte cost. sentenza n. 297/1996
nella legislazione o nelle prassi italiane, al fine di rimediare, all'interno del nostro ordinamento, all'impossibilità per genitori di attribuire al figlio, al momento della nascita, il cognome materno in luogo di quello paterno; un'impossibilità, che a detta della Corte di Strasburgo, non poteva essere certamente compensata dalla successiva autorizzazione amministrativa a cambiare il cognome dei figli minorenni, aggiungendo a quello paterno il cognome della madre.
Dopo aver effettuato tali considerazioni, la Corte costituzionale è addivenuta alla conclusione che, la piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale del minore, che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, impone l'affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori.
Viceversa, la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrificherebbe il diritto all’identità del bambino, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno.
Quanto al profilo di illegittimità, che risiede nella violazione del principio di uguaglianza dei coniugi, la Corte ha rilevato come il criterio della prevalenza del cognome paterno, e la conseguente disparità di trattamento dei coniugi, non trovino alcuna giustificazione né nell’art. 3 Cost., né nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare, di cui all’art. 29, 2° comma, Cost.
Anzi, la Corte ha osservato come fosse proprio la perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi, realizzata attraverso la mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo cognome, a mettere in pericolo
l'unità familiare, dato che quest'ultima è «garantita e si rafforza soltanto nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi siano governati dalla solidarietà e dalla parità»276.
Una diversità di trattamento dei coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli, che essendo espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non sarebbe dunque, a detta della Consulta, più compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio della loro pari dignità morale e giuridica.
Così, la Corte costituzionale, ritenuto il contrasto della disciplina di cui si discute con gli artt. 2, 3, e 29 Cost, chiamata a risolvere la questione formulata dal rimettente e riferita alla norma sull’attribuzione del cognome paterno nella sola parte in cui, anche in presenza di una diversa e comune volontà dei coniugi, i figli acquistano automaticamente il cognome del padre, con la sentenza in questione, ha accertato l'illegittimità della suddetta norma, nella sola parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno.
La Consulta tuttavia non si è fermata qui.
Infatti questa ha ritenuto che, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale)277, la dichiarazione di illegittimità
276 Corte cost. sentenza n. 133/1970, cit.
277 Tale articolo prevede infatti che “La Corte costituzionale, quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, nei limiti dell'impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime. Essa dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla